La Corte ribadisce i principi della sua giurisprudenza in tema di delegificazione (anche regionale) e dichiara inammissibile una questione sollevata dal TAR della Campania (2/2016)

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Sentenza n. 130/2016 – giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale

Deposito del 06/06/2016; Pubblicazione in G. U. 08/06/2016, n. 23

Motivi della segnalazione

La decisione risulta interessante soprattutto perché consente di tornare a riflettere sul significato e sui limiti del ricorso alla delefigicazione a livello regionale.

La questione oggetto della decisione della Corte è stata sollevata dal TAR Campania, in riferimento agli artt. 123, 117, terzo comma, 121, secondo comma, 5 e 1, secondo comma, della Costituzione, e verte sulla legittimità costituzionale dell'art. 43-bis della legge regionale 22 dicembre 2004, n. 16 (Norme sul governo del territorio), introdotto nel 2011, nella parte in cui consente che la Regione disciplini con «regolamento di attuazione» i procedimenti di pianificazione territoriale in ambito regionale.

Il giudice a quo, sul presupposto, comune a tutte le censure, per cui la disposizione impugnata consentirebbe in realtà l'adozione di un regolamento in delegificazione nella materia di potestà legislativa concorrente «governo del territorio», assume che siano violati i seguenti parametri:

a) l'art. 56 dello Statuto della Regione Campania adottato nel 2009 e, conseguentemente, l'art. 123 Cost., per contrasto con il principio di organizzazione sancito dalla disposizione statutaria, la quale consente la delegificazione nelle sole materie di «competenza esclusiva della Regione» e non in quelle di competenza concorrente (quale è il "governo del territorio");

b) l'art. 117, terzo comma, della Costituzione, in quanto la riserva di legge sottesa alla ripartizione delle competenze nelle materie di potestà concorrente («legislazione statale di principio e legislazione regionale di integrazione e attuazione») non consentirebbe di delineare fenomeni delegificatori;

c) gli artt. 5, 121, secondo comma, e 1, secondo comma, della Costituzione, in quanto la sostituzione della fonte legislativa con quella regolamentare in materia di governo del territorio contrasterebbe con «il principio di autonomia statutaria, legislativa e regolamentare» (insito nel riconoscimento della promozione delle autonomie locali), con la riserva della funzione legislativa al Consiglio regionale nelle materie di competenza concorrente e con il principio della sovranità popolare, considerato che il sistema delle fonti primarie è strettamente legato al principio di rappresentanza e che «la forma di esercizio del potere normativo prevista nella norma contestata» non trova fondamento in alcuna previsione costituzionale.

A fronte di tali rilievi la Corte dichiara la questione, per come prospettata dal giudice a quo, inammissibile, non essendo stata adeguatamente argomentata la sussistenza del presupposto delle impugnazioni, ovvero dell'asserita delineazione, ad opera della disposizione censurata, di un procedimento di delegificazione.

A supporto della dichiarazione di inammissibilità della questione, il giudice delle leggi ricostruisce, in primo luogo, il significato del fenomeno della delegificazione, in tutte le sue diverse forme, elemento comune alle quali è il «trasferimento della funzione normativa (su materie e attività determinate) dalla sede legislativa ad altra sede», trasferimento che, «necessariamente operato con legge, determina che un soggetto, un organo, diverso da quello cui spetta ordinariamente l'esercizio della funzione legislativa, abbia la facoltà di regolare una determinata materia, adottando una disciplina sostitutiva di quella già dettata dalla legge» (punto 2.2. del Considerato in diritto), senza che la legge che autorizza la delegificazione privi della loro forza le leggi destinate ad essere sostituite dai regolamenti, limitandosi a predeterminarne l'abrogazione, a fare data dall'entrata in vigore dei regolamenti.

Passando a prendere in considerazione la specifica questione sottoposta alla sua attenzione, la Corte si sofferma sui contenuti della disposizione censurata, la quale prevede che, nel rispetto dei principi in questa indicati, la Regione disciplini con regolamento di attuazione i procedimenti di formazione degli accordi di programma, di una serie di piani territoriali e urbanistici e delle modalità di stipula delle convenzioni tra enti pubblici e soggetti privati.

La Corte nega però la natura delegificatoria del procedimento a cui sopra si è fatto riferimento, che dovrebbe, eventualmente, desumersi dalla lettura non solo della disposizione impugnata, ma anche di altre disposizioni, non richiamate dal giudice rimettente. Il riferimento è, in primo luogo, alla disposizione che stabilisce che il regolamento di attuazione cui fa riferimento la previsione impugnata deve essere emanato entro centocinquanta giorni dall'entrata in vigore della legge che ne prevede l'emanazione. Rileva, in secondo luogo, la previsione legislativa che sancisce l'abrogazione di alcune disposizioni contenute nella legge regionale n. 16 del 2004, ma con effetto «a decorrere dal centocinquantunesimo giorno successivo alla data di entrata in vigore della presente legge» (punto 2.3. del Considerato in diritto).

Alla luce di ciò – rileva la Corte - «la disposizione censurata [...] si limita a prevedere che la Regione disciplini con regolamento di attuazione i procedimenti di pianificazione», mentre «l'effetto abrogativo previsto dal "meccanismo" prefigurato dalla legge regionale n. 1 del 2011 si produce, dunque, indipendentemente dall'entrata in vigore del regolamento regionale», effetto abrogativo che si produrrebbe, quindi, comunque al decorso del centocinquantunesimo giorno dall'entrata in vigore della legge, cosa in effetti accaduta. Le previste abrogazioni non sono affatto riferite, ai sensi della legge impugnata, all'entrata in vigore del regolamento, non potendosi, quindi, riscontrare, nel caso di specie, quella identità temporale tra effetto abrogativo ed entrata in vigore del regolamento che è «tipica» del procedimento di delegificazione come delineato dall'art. 17, comma 2, della legge n. 400/1988.

Conseguentemente, secondo la Corte, il regolamento regionale, dovendosi limitare ad attuare quanto previsto a livello legislativo, potrebbe formare oggetto di sindacato ad opera del giudice comune, in presenza dei presupposti a tal fine necessari. Il giudice delle leggi, richiamando sua precedente giurisprudenza in materia (sent. n. 427/200), afferma che «qualora [...] il vizio sia proprio ed esclusivo del regolamento, la garanzia è da ricercare non già nel sindacato della Corte costituzionale, bensì "nell'àmbito dei poteri spettanti ai giudici ordinari o amministrativi"».

Accertata la mancanza dei presupposti perché possa parlarsi di delegificazione, oltre alla questione relativa alla violazione dell'art. 123 Cost. (mediata dalla violazione di una norma statutaria), cadono anche le altre censure mosse alla legge impugnata, dovendosi procedere, in mancanza dell'individuazione da parte del rimettente dei presupposti perché possa parlarsi di delegificazione, ad una dichiarazione di inammissibilità della questione sollevata.

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