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UE - Diritto al cognome, libera circolazione e ordine pubblico: la sentenza della Corte di giustizia nella causa C-208/09, Sayn-Wittgenstein (1/2011)

Con sentenza del 27 novembre 2003, la Corte costituzionale austriaca ha statuito che la legge nazionale sull’abolizione della nobiltà del 3 aprile 1919 osta a che un cittadino austriaco acquisisca un cognome comprendente un titolo nobiliare; ciò anche quando l’acquisizione è conseguenza della adozione da parte del cittadino di uno Stato membro che legittimamente porta tale titolo, quale elemento costitutivo del proprio cognome secondo il diritto dello Stato di cittadinanza.

La ricorrente nel procedimento che ha dato origine alla sentenza della Corte di giustizia in commento è una cittadina austriaca che, a seguito della adozione in età adulta da parte di un cittadino tedesco, ne ha acquisito il cognome, nella forma femminile di ‘Fürstin von Sayn-Wittgenstein’. In Germania, la Costituzione di Weimar ha abolito tutti i privilegi connessi alla nascita o allo status sociale. La norma che ha previsto l’abolizione, in forza dell’art. 123, n. 1 della Legge fondamentale, è tutt’ora in vigore con valore di legge ordinaria; tuttavia, è consentito mantenere il titolo nobiliare come componente del cognome. La ricorrente viveva già in Germania al momento della propria adozione, e prevalentemente lì, ma in parte anche al di fuori di tale Stato membro, esercitava da vari anni un’attività professionale nel settore degli immobili di lusso, intervenendo con il nome di ‘Ilonka Fürstin von Sayn-Wittgenstein’. A seguito della sentenza del 2003 della Corte costituzionale austriaca, la ricorrente veniva informata della intenzione di rettificare il suo cognome quale risultante dai registri dello stato civile (‘Fürstin von Sayn-Wittgenstein’) in ‘Sayn-Wittgenstein’. La ricorrente lamentava, quindi, dinanzi al giudice nazionale che il cambiamento del nome da essa acquisito per mezzo dell’adozione e utilizzato in via continuativa nella propria vita personale e professionale per quindici anni costituiva un ostacolo all’esercizio del proprio diritto alla libera circolazione (di cui all’art. 21 TFUE) – obbligandola a portare cognomi differenti nei diversi Stati membri –, nonché una violazione del suo diritto al rispetto della vita privata e familiare. In tale contesto, il giudice tedesco decideva di rivolgere alla Corte di giustizia una questione pregiudiziale, chiedendo se l’art. 21 TFUE deve essere interpretato nel senso che osta a che le autorità di uno Stato membro possano, in circostanze quali quelle del caso di specie, rifiutare di riconoscere il cognome di un cittadino di tale Stato, quale determinato in un altro Stato membro – quello di residenza del cittadino in questione – al momento della sua adozione da parte di un cittadino del secondo Stato membro, per il fatto che tale cognome contiene un titolo nobiliare non consentito nel primo Stato in base al suo diritto costituzionale.

La Corte ha, innanzitutto, ricordato che, sebbene allo stato attuale del diritto dell’Unione le norme che disciplinano il cognome di una persona e l’uso di titoli nobiliari rientrano nella competenza degli Stati membri, questi ultimi, nell’esercizio di tale competenza devono comunque rispettare il diritto dell’Unione (par. 38). Questa incidenza del diritto dell’Unione sull’attività «autonoma» del legislatore nazionale presuppone l’esistenza di un nesso qualificato tra la situazione concreta ed il diritto dell’Unione e comporta una estensione ratione materiae del diritto dell’Unione di tipo solo ostativo, non autorizzando, invece, un intervento positivo del legislatore dell’Unione nella disciplina positiva di situazioni rientranti nella competenza nazionale (su questo orientamento, a cui la Corte di giustizia fa sempre più frequentemente riferimento, si vedano, per analogia, per quanto riguarda l’ambito della previdenza sociale, sentenze 28 aprile 1998, causa C‑120/95, Decker, in Raccolta, 1998, p. I‑1831, par. 22 e 23, e causa C‑158/96, Kohll, in Raccolta, 1996, p. I‑1931, par. 18 e 19; per quanto riguarda la fiscalità diretta, sentenze 4 marzo 2004, causa C‑334/02, Commissione c. Francia, in Raccolta, 2004, p. I‑2229, par. 21, e 13 dicembre 2005, causa C‑446/03, Marks & Spencer, in Raccolta, 2005, p. I‑10837, par. 29, per quanto riguarda il diritto di sciopero, sentenza 11 dicembre 2007, causa 438/05, Viking, in Raccolta, 2007, p. I-10779, par. 40, per quanto riguarda il cognome, sentenza 14 ottobre 2008, causa C-353/06, Grunkin and Paul, in Raccolta, 2008, p. I-7639, par. 16, per quanto riguarda la revoca della cittadinanza nazionale, sentenza 2 marzo 2010, causa C-135/08, Rottman, non ancora pubblicata in Raccolta, par. 45). In questo caso, la Corte ha individuato il nesso nell’esercizio, da parte della ricorrente, in qualità di cittadina dell’Unione, della propria libertà di circolazione e soggiorno in un altro Stato membro; pertanto, essa è legittimata ad invocare le libertà riconosciute dall’art. 21 TFUE ad ogni cittadino dell’Unione (par. 39).

Dopo aver premesso che il nome di una persona è un elemento costitutivo della sua identità e della sua vita privata, la tutela della quale è garantita dall’art. 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (par. 52), la Corte ha ricordato di avere già avuto occasione di dichiarare (nella sentenza Grunkin e Paul, cit. supra, par. 21 e 22) che il fatto che una persona che ha esercitato il proprio diritto di circolare e soggiornare liberamente nel territorio di un altro Stato membro sia obbligata a portare, nello Stato membro di residenza del quale essa ha la cittadinanza, un nome differente da quello già attribuito e registrato nello Stato membro di nascita è idoneo ad ostacolare l’esercizio del diritto di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, sancito dall’art. 21 TFUE (par. 54). La Corte ha osservato che, nel caso di specie, il fatto che solo le autorità austriache fossero competenti a rilasciare documenti ufficiali alla ricorrente era tale da evitare, una volta effettuata la rettifica, future divergenze nei documenti della donna. Tuttavia, la Corte ha ritenuto che la rettifica non è sufficiente ad eliminare tutte le tracce formali del cognome risultante a seguito dell’adozione lasciate nella sfera sia pubblica che privata, né ad evitare dubbi nei casi in cui la ricorrente debba presentare congiuntamente documenti ottenuti prima e dopo la rettifica. Ad avviso della Corte, ogni volta che il cognome utilizzato in una situazione concreta non corrisponde a quello che figura nel documento presentato come prova dell’identità di una persona, o che il cognome figurante in due documenti presentati congiuntamente non è lo stesso, la divergenza di cognome è idonea a far sorgere dubbi in merito all’identità di tale persona e all’autenticità dei documenti prodotti o alla veridicità dei dati in essi contenuti (sentenza Grunkin e Paul, cit. supra, par. 28). Il rischio concreto, in circostanze quali quelle di cui alla causa principale, di dovere, a causa della diversità di nomi, dissipare dei dubbi quanto all’identità della propria persona costituisce una circostanza idonea ad ostacolare l’esercizio del diritto conferito dall’art. 21 TFUE (par. 69-70).

Tuttavia, secondo una giurisprudenza costante della Corte, un ostacolo alla libera circolazione delle persone può essere giustificato se è basato su considerazioni oggettive e se è proporzionato all’obiettivo legittimamente perseguito dalla normativa nazionale (si vedano le sentenze 18 luglio 2006, causa C‑406/04, De Cuyper, in Raccolta, 2006, p. I‑6947, par. 40; 11 settembre 2007, causa C‑76/05, Schwarz e Gootjes‑Schwarz, in Raccolta, p. I‑6849, par. 94; Grunkin e Paul, cit. supra, par. 29). Ad avviso della Corte, nel contesto della storia costituzionale austriaca, la legge sull’abolizione della nobiltà può essere considerata quale giustificazione attinente all’ordine pubblico (par. 86). La nozione di ordine pubblico, in quanto giustificazione di una deroga ad una libertà fondamentale, deve essere intesa in senso restrittivo e la sua portata non può essere determinata unilateralmente da ciascuno Stato membro senza il controllo delle istituzioni dell’Unione europea (si vedano le sentenze 14 ottobre 2004, causa C‑36/02, Omega, in Raccolta, 2004, p. I‑9609, par. 30, e 10 luglio 2008, causa C‑33/07, Jipa, in Raccolta, 2008, p. I‑5157, par. 23). Di conseguenza, l’ordine pubblico può essere invocato soltanto in caso di minaccia reale e sufficientemente grave ad uno degli interessi fondamentali della collettività (si veda la sentenza Omega, cit. supra, par. 30). Tuttavia, le circostanze specifiche atte a giustificare un’applicazione del limite dell’ordine pubblico possono variare da uno Stato membro all’altro e da un’epoca all’altra. Pertanto, deve essere riconosciuto, a tal riguardo, alle competenti autorità nazionali un certo margine di discrezionalità entro i limiti imposti dal Trattato (par. 87). Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che l’obiettivo della legge austriaca di realizzare il principio di uguaglianza tra i cittadini è sicuramente compatibile con il diritto dell’Unione, poiché l’Unione tende ad assicurare il rispetto del principio di uguaglianza in quanto principio generale del diritto, ora sancito dall’art. 20 della Carta dei diritti fondamentali (par. 89). Peraltro, ha precisato la Corte, non è indispensabile che la misura restrittiva adottata dalle autorità di uno Stato membro corrisponda ad una concezione condivisa da tutti gli Stati membri relativamente alle modalità di tutela del diritto fondamentale o del legittimo interesse in questione e che, anzi, la necessità e la proporzionalità delle disposizioni adottate in materia non sono escluse per il solo fatto che uno Stato membro abbia scelto un regime di tutela diverso da quello adottato da un altro Stato membro (si veda, per analogia, la sentenza Omega, cit. supra, par. 37 e 38); a tal proposito, la Corte ha anche ricordato che, a norma dell’art. 4, n. 2, TUE, l’Unione rispetta l’identità nazionale dei suoi Stati membri, nella quale è inclusa anche la forma repubblicana dello Stato (par. 91 e 92).

Per queste ragioni, la Corte ha risolto la questione proposta dal giudice tedesco nel senso che l’art. 21 TFUE non osta, in linea di principio, a che le autorità di uno Stato membro possano, in circostanze quali quelle di cui alla causa principale, rifiutare di riconoscere il cognome di un cittadino di tale Stato, quale determinato in un altro Stato membro – dove il predetto risiede – al momento della sua adozione in età adulta da parte di un cittadino di questo secondo Stato, per il fatto che tale cognome comprende un titolo nobiliare non consentito nel primo Stato in base al suo diritto costituzionale; ciò a condizione che le misure adottate dalle citate autorità siano giustificate da motivi attinenti all’ordine pubblico, vale a dire siano necessarie per la tutela degli interessi che esse mirano a garantire e siano proporzionate all’obiettivo legittimamente perseguito (par. 95).

 

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