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La sentenza nelle Cause riunite c-424/10 e c-425/10, Ziolkowski e A. (1/2012)

 La Corte chiarisce i requisiti per l'acquisizione del diritto al soggiorno permanente sancito dall'art. 16 della direttiva 2004/38/CE[1]

"Il diritto di soggiorno permanente sancito dalla direttiva 2004/38/CE non può essere riconosciuto qualora il soggiorno ultraquinquennale sia regolare dal punto di vista del diritto dello Stato membro ospitante, ma non soddisfi i requisiti stabiliti dal diritto dell’Unione".

Con la sentenza nei procedimenti riuniti C-424/10 e 425/10, Ziolkowski e a., la Corte di Giustizia ha fornito alcuni significativi chiarimenti sul diritto di soggiorno permanente sancito dalla direttiva 2004/38/CE, relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri.[2] L’art. 16 della direttiva recita:

«1. Il cittadino dell’Unione che abbia soggiornato legalmente ed in via continuativa per cinque anni nello Stato membro ospitante ha diritto al soggiorno permanente in detto Stato. Tale diritto non è subordinato alle condizioni di cui al capo III.

2. Le disposizioni del paragrafo 1 si applicano anche ai familiari non aventi la cittadinanza di uno Stato membro che abbiano soggiornato legalmente in via continuativa per cinque anni assieme al cittadino dell’Unione nello Stato membro ospitante.

3. La continuità della residenza non è pregiudicata da assenze temporanee che non superino complessivamente sei mesi all’anno né da assenze di durata superiore per l’assolvimento degli obblighi militari né da un’assenza di dodici mesi consecutivi al massimo dovuta a motivi rilevanti, quali gravidanza e maternità, malattia grave, studi o formazione professionale o il distacco per motivi di lavoro in un altro Stato membro o in un paese terzo.

4. Una volta acquisito, il diritto di soggiorno permanente si perde soltanto a seguito di assenze dallo Stato membro ospitante di durata superiore a due anni consecutivi».

I ricorrenti nel caso di specie erano due cittadini polacchi entrati in Germania alla fine degli anni ’80, dunque prima dell’adesione della Polonia all’Unione europea (avvenuta il 1° maggio 2004). Ad entrambi, il Land Berlin aveva negato il riconoscimento del diritto di soggiorno permanente ai sensi dell’art. 16 della direttiva 2004/38, dal momento che essi non erano occupati né in grado di provare di poter provare di provvedere al proprio sostentamento. Il Verwaltungsgericht (Tribunale amministrativo) accoglieva i ricorsi proposti dai due cittadini, dichiarando che il diritto di cui sopra deve essere riconosciuto a qualsiasi cittadino dell’Unione che ha soggiornato regolarmente in un altro Stato membro per un periodo superiore a cinque anni, senza necessità di verificare che egli disponga di risorse sufficienti. La sentenza veniva successivamente riformulata dall’Oberverwaltungsgericht Berlin-Brandeburg (Tribunale amministrativo superiore dei Länder di Berlino e del Brandeburgo). Quest’ultimo affermava che, ai fini del soddisfacimento del requisito temporale, dovevano computarsi esclusivamente i periodi di soggiorno successivi alla adesione dello Stato di origine all’Unione. Sosteneva, inoltre, che la regolarità del soggiorno doveva essere valutata con riferimento al solo diritto nazionale. Dal momento che alla data di adesione del loro Stato di origine all’Unione i ricorrenti non erano lavoratori né disponevano di risorse sufficienti per poter provvedere al proprio sostentamento,  questi non avevano acquisito - a detta del giudice dell’appello - il diritto di soggiorno permanente.

Avverso quest’ultima sentenza veniva proposto un ricorso in cassazione dinanzi al Bundesverwaltungsericht, che decideva di sottoporre due questioni pregiudiziali alla Corte di giustizia. Con la prima domanda, si chiedeva, in sostanza, di chiarire se il diritto di soggiorno permanente deve essere riconosciuto al cittadino dell’Unione che ha soggiornato in un altro Stato membro per un periodo superiore a cinque anni soddisfacendo solo i requisiti richiesti dal diritto nazionale, ma non anche quelli previsti dall’art. 7, n. 1 della direttiva. Quest’ultimo, stabilisce le condizioni per il riconoscimento di un diritto di soggiorno per un periodo superiore a tre mesi. In particolare, il diritto anzidetto è riconosciuto ad ogni cittadino dell’Unione che

a - sia un lavoratore subordinato o autonomo nello Stato membro ospitante; ovvero

b- disponga, per se stesso e per i propri familiari, di risorse economiche sufficienti affinché non divenga un onere a carico dell’assistenza sociale dello Stato membro ospitante durante il periodo di soggiorno, e di un’assicurazione malattia che copra tutti i rischi nello Stato membro ospitante; ovvero

c - sia iscritto presso un istituto pubblico o privato, riconosciuto o finanziato dallo Stato membro ospitante in base alla sua legislazione o prassi amministrativa, per seguirvi a titolo principale un corso di studi inclusa una formazione professionale; e

disponga di un’assicurazione malattia che copre tutti i rischi nello Stato membro ospitante e di assicurare all’autorità nazionale competente, con una dichiarazione o con altro mezzo di sua scelta equivalente, di disporre, per se stesso e per i propri familiari, di risorse economiche sufficienti, affinché non divenga un onere a carico dell’assistenza sociale dello Stato membro ospitante durante il suo periodo di soggiorno; ovvero

d - sia un familiare che accompagna o raggiunge un cittadino dell’Unione rispondente alle condizioni di cui ai precedenti punti a, b o c.[3]

In breve, il giudice del rinvio chiedeva alla Corte se un soggiorno di oltre cinque anni regolare in base alla normativa dello Stato membro ospitante sia di per sé sufficiente ai fini del riconoscimento del diritto di soggiorno permanente in quest’ultimo Stato membro. La seconda questione mirava, invece, a stabilire se possano rilevare, ai fini dell’acquisizione del diritto in questione, anche i periodi di soggiorno compiuti dal cittadino[4] prima dell’adesione del proprio Stato di origine all’Unione europea.

Quanto alla prima domanda, effettivamente l’art. 16 della direttiva non precisa se la regolarità del soggiorno debba essere valutata in base al diritto dell’Unione o alla normativa interna dello Stato membro ospitante. Tuttavia, secondo una giurisprudenza ormai consolidata della Corte, una disposizione di diritto dell’Unione che non contiene un richiamo espresso al diritto degli Stati membri per quanto riguarda la determinazione del suo senso e della sua portata designa «una nozione autonoma del diritto dell’Unione, da interpretare in modo uniforme nel territorio della totalità degli Stati membri» (paragrafi 32-33; si vedano anche sentenze 19 settembre 2000, causa C-287/98, Linster, in Raccolta, p. I-6917, par. 43, e 18 ottobre 2011, causa C–34/10, Brüstle, non ancora pubblicata in Raccolta, par. 25). In particolare, «la determinazione del significato e della portata dei termini per i quali il diritto dell’Unione non fornisce alcuna definizione va operata segnatamente tenendo conto del contesto in cui essi sono utilizzati e degli scopi perseguiti dalla normativa di cui fanno parte» (par. 34; cf. anche sentenze 10 marzo 2005, causa C-336/03, easyCar, in Raccolta, p. I-1947, par. 21; 22 dicembre 2008, causa C–549/07, Wallentin-Hermann, in Raccolta, p. I-11061, par. 17; 29 luglio 2010, causa C-151/09, UGT-FSP, non ancora pubblicata in Raccolta, par. 39, e Brüstle, cit., par. 31). Alla luce dello scopo della direttiva (paragrafi 35-37), del suo contesto complessivo e specifico (paragrafi 38-43), nonché dell’interpretazione sistematica delle sue disposizioni (paragrafi 44-45), la Corte ha concluso che «la nozione di soggiorno legale sottesa ai termini ‘che abbia soggiornato legalmente’, di cui all’art. 16, n. 1, della direttiva 2004/38, deve intendersi come corrispondente ad un soggiorno conforme alle condizioni previste da detta direttiva e, segnatamente, quelle previste all’art. 7, n. 1, della stessa» (par. 46). Ne consegue che il diritto di soggiorno permanente non può essere riconosciuto laddove il soggiorno ultraquinquennale è regolare dal punto di vista del diritto dello Stato membro ospitante, ma non soddisfa i requisiti stabiliti dal diritto dell’Unione.

Riguardo alla seconda domanda, invece, la Corte ha innanzitutto ricordato che l’adesione di un nuovo Stato all’Unione «si fonda essenzialmente sul principio generale dell’applicazione immediata e integrale delle disposizioni del diritto dell’Unione a tale Stato, mentre deroghe sono ammesse solo e in quanto previste espressamente da disposizioni transitorie» (par. 56).; si veda, anche per ulteriore giurisprudenza, la sentenza 28 aprile 2009, causa C–420/07, Apostolides, in Raccolta, p. I-3571, par. 33). Pertanto, in assenza di tali disposizioni transitorie, le norme del Trattato «devono ritenersi immediatamente applicabili e vincolanti nei confronti di detto Stato membro a decorrere dalla data della sua adesione all’Unione, cosicché da tale data i detti articoli possono essere invocati dai cittadini provenienti da tutti gli Stati membri e possono trovare applicazione con riferimento agli effetti presenti e futuri di situazioni sorte anteriormente all’adesione di detto Stato all’Unione» (par. 57; cf. anche sentenze 2 ottobre 1997, causa C–122/96, Saldanha e MTS, in Raccolta, p. I-5325, par. 14; 30 novembre 2000, causa C–195/98, Österreichischer Gewerkschaftsbund, in Raccolta, p I-10497, par. 55, nonché 18 aprile 2002, causa C-290/00, Duchon, in Raccolta, p. I‑3567, par. 44). Inoltre, anche le disposizioni in materia di cittadinanza dell’Unione sono applicabili sin dal momento della loro entrata in vigore e trovano applicazione agli effetti presenti di situazioni sorte anteriormente (par. 58; cf. sentenze 11 luglio 2002, causa C-224/98, D’Hoop, in Raccolta, p. I-6191, par. 25). Dal momento che l’atto di adesione della Polonia non contiene disposizioni transitorie rilevanti al riguardo (par. 59), «le disposizioni di cui all’art. 16, n. 1, della direttiva 2004/38 possono essere invocate da cittadini dell’Unione ed essere applicate agli effetti attuali e futuri di situazioni sorte anteriormente all’adesione della Repubblica di Polonia all’Unione» (par. 60). Da ultimo, la Corte ha precisato che, sebbene i periodi di soggiorno compiuti dal cittadino prima dell’adesione del proprio Stato di origine ricadevano soltanto nell’ambito del diritto nazionale (par. 61), tuttavia «nei limiti in cui l’interessato è in grado di dimostrare che tali periodi sono stati effettuati conformemente alle condizioni di cui all’art. 7, n. 1, della direttiva 2004/38, la presa in considerazione dei detti periodi, a partire dalla data di adesione dello Stato interessato all’Unione ha come conseguenza non di conferire all’art. 16 di detta direttiva un effetto retroattivo, bensì semplicemente di attribuire un effetto presente a situazioni createsi anteriormente alla data di trasposizione di tale direttiva» (par. 62).

                                                                                                                              



[1] Sentenza del 21 dicembre 2011, Grande sezione.

[2] In G.U. L 158, p. 77 ss., e rettifiche in G.U. L 229, p. 35 ss.

[3] L’art. 7 stabilisce, inoltre, al paragrafo 2, che il diritto di soggiorno permanente è riconosciuto anche ai familiari non aventi la cittadinanza di uno Stato membro che accompagnano o raggiungono nello Stato membro ospitante il cittadino dell’Unione, purché questi risponda alle condizioni di cui ai punti a, b o c. Infine, il paragrafo 3 elenca una serie di casi in cui il cittadino dell’Unione che ha cessato di essere lavoratore subordinato o autonomo conserva comunque la qualità di lavoratore subordinato o autonomo.

[4] Il riferimento è, quindi, al cittadino che, all’inizio del proprio soggiorno, deve considerarsi cittadino di Stato terzo, e che acquisisce successivamente la cittadinanza dell’Unione al momento dell’adesione a quest’ultima del proprio Stato di origine.

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