L’art. 21 TFUE e la direttiva 2004/38/CE non si applica alle visite del un capo di Stato di uno Stato membro in un altro Stato membro:
«Inadempimento di uno Stato – Articolo 259 TFUE – Cittadinanza dell’Unione – Articolo 21 TFUE – Direttiva 2004/38/CE – Diritto di circolazione nel territorio degli Stati membri – Presidente dell’Ungheria – Divieto di ingresso nel territorio della Repubblica slovacca – Relazioni diplomatiche tra Stati membri»
La sentenza in esame è stata deliberata dalla Grande Sezione della Corte di giustizia a conclusione di uno dei non frequenti ricorsi per infrazione promossi da uno Stato membro.[1] Secondo quanto previsto dall’art. 259 TFUE, lo Stato che intende iniziare il ricorso deve prima rivolgersi alla Commissione, che dispone di un termine di tre mesi per formulare un parere motivato, dopo aver messo gli Stati membri interessati nelle condizioni di presentare in contraddittorio le loro osservazioni scritte e orali. Se la Commissione non emette il parere entro il termine, oppure se si esprime nel senso che non sussiste la violazione, lo Stato membro può comunque proporre il ricorso dinanzi alla Corte.[2]
Il ricorso che si è concluso con la sentenza in esame traeva origine dal divieto opposto dalla Repubblica slovacca all’ingresso nel proprio territorio del Presidente ungherese, che era stato chiamato a presenziare una cerimonia di inaugurazione di una statua di Santo Stefano nella città slovacca di Komàrno il 21 agosto 2009. Il 20 agosto in Ungheria si celebra Santo Stefano, fondatore e primo re dello stato ungherese. Il 21 agosto ricorre invece l’anniversario dell’invasione della Repubblica socialista cecoslovacca da parte delle forze armate di cinque paesi del Patto di Varsavia, tra cui l’Ungheria. Il Presidente ungherese, già in viaggio verso la Slovacchia, veniva informato di una nota verbale trasmessa lo stesso 21 agosto 2009 all’ambasciatore ungherese in Slovacchia dal Ministero degli affari esteri slovacco, con la quale si vietava l’ingresso del Presidente in Slovacchia, invocando a giustificazione la possibilità di limitare la libera circolazione dei cittadini dell’Unione, secondo quanto previsto dalla direttiva 2004/38/CE. Ad avviso dell’Ungheria, così facendo la Repubblica slovacca aveva violato l’art. 21, par. 1, TFUE - che attribuisce ai cittadini UE il diritto di circolare e soggiornare nel territorio degli Stati membri, fatti salvi i limiti previsti dal Trattato e dal diritto derivato UE che ad essi dà attuazione -, nonché la direttiva 2004/38/CE, che si assumeva essere stata invocata non correttamente e, anzi, abusivamente. Nel suo parere motivato, richiesto dall’Ungheria in conformità all’art. 259 TFUE, la Commissione aveva ritenuto non sussistente un inadempimento del diritto dell’Unione da parte della Repubblica slovacca: ciò in quanto, ad avviso della Commissione, l’articolo 21, par. 1, TFUE e la direttiva 2004/38 non erano applicabili alle visite effettuate dal capo di uno Stato membro nel territorio di un altro Stato membro. L’Ungheria nondimeno decideva di presentare un ricorso per infrazione dinanzi alla Corte, alla quale chiedeva di dichiarare: i- che la Repubblica slovacca era venuta meno agli obblighi ad essa incombenti ai sensi dell’art. 21, par. 1, TFUE e della direttiva 2004/38/CE; ii- che era incompatibile con l’art. 21, par. 1, TFEU la posizione mantenuta dalla Repubblica slovacca fino alla proposizione del ricorso e consistente nel considerare conforme alla direttiva 2004/38/CE il divieto di ingresso, in tal modo conservando la possibilità di reiterare il comportamento illecito; iii- che la Repubblica slovacca aveva invocato in modo abusivo il diritto UE per impedire l’ingresso nel suo territorio del Presidente ungherese. Per l’ipotesi in cui la Corte avesse ritenuto di poter limitare l’ambito ratione personae della direttiva 2004/38/CE in base ad una norma di diritto internazionale, si chiedeva ulteriormente di chiarire limiti e portata della deroga.
La Corte di giustizia, replicando all’eccezione di incompetenza sollevata dalla Repubblica slovacca in ragione della pretesa inapplicabilità alla fattispecie del diritto UE, affermava invece la propria competenza sulla base del rilievo che essa era chiamata a pronunciarsi proprio sull’an della applicabilità del diritto UE e, senza dubbio, «la questione se il diritto dell’Unione sia applicabile alla fattispecie rientra pienamente nelle competenze della Corte, in particolare in conformità dell’articolo 259 TFUE, a pronunciarsi circa la sussistenza di un eventuale inadempimento di tale diritto» (paragrafi 24-25).
Con riferimento alla prima censura, la Corte ha in primo luogo osservato che, in quanto cittadino di uno Stato membro, il Presidente ungherese gode «incontestabilmente» dello status di cittadino dell’Unione e, quindi, del diritto «fondamentale e individuale» di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, di cui all’art. 21, par. 1, TFUE (paragrafi 40-43). Tuttavia, la Corte ha aggiunto che «occorre ricordare che il diritto dell’Unione deve essere interpretato alla luce delle norme pertinenti di diritto internazionale, poiché tale diritto è parte dell’ordinamento giuridico dell’Unione e vincola le istituzioni di quest’ultima» (par. 44; cf. anche le sentenze nelle cause C-162/96, Racke [1998], Raccolta, p. I-3655, paragrafi 45 e 46, e C‑402/05 P e C‑415/05 P, Kadi e Al Barakaat International Foundation c. Consiglio e Commissione [2008], Raccolta, p. I‑6351, par. 291). A questo proposito, la Corte ha richiamato l’art. 1 della Convenzione di New York del 14 dicembre 1973 sulla prevenzione e la punizione dei crimini contro le persone protette a livello internazionale, in base al quale qualsiasi capo di Stato gode di tale protezione quando si trova nel territorio di uno Stato estero (par. 47). La Corte ha dunque osservato che «[l]o status di capo di Stato presenta quindi una specificità, derivante dal fatto di essere regolato dal diritto internazionale, con la conseguenza che i comportamenti di tale capo di Stato sul piano internazionale, ad esempio la sua presenza all’estero, rientrano nell’ambito di tale diritto, e in particolare del diritto delle relazioni diplomatiche»; tale specificità ha come conseguenza che «la circostanza che un cittadino dell’Unione ricopra la funzione di capo di Stato è idonea a giustificare una limitazione, fondata sul diritto internazionale, all’esercizio del diritto di circolazione che l’articolo 21 TFUE gli conferisce» (paragrafi 49 e 51). Quindi, la Corte ha ritenuto infondata la prima censura del ricorso, poiché né l’art. 21, par. 1, TFUE, né la direttiva 2004/38/CE facevano obbligo alla Repubblica slovacca di consentire l’ingresso nel suo territorio del Presidente ungherese.
La Corte di giustizia ha poi ritenuto infondata anche la censura (terza) relativa al preteso uso abusivo della direttiva da parte della Repubblica slovacca. Pur riconoscendo che quest’ultima aveva invocato erroneamente la direttiva - come peraltro successivamente riconosciuto dallo stesso Stato membro -, la Corte ha ritenuto insussistenti entrambe le condizioni necessarie per ravvisare una prassi abusiva, ovvero, da una parte, un insieme di circostanze oggettive dalle quali risulta che nonostante il rispetto formale delle condizioni previste dalla normativa UE, l’obiettivo previsto da quest’ultima non è stato raggiunto; dall’altra, un elemento soggettivo consistente nella volontà di ottenere un vantaggio derivante dalla normativa dell’Unione mediante la creazione artificiosa delle condizioni necessarie per il suo ottenimento (par. 58; cf. anche le sentenze rese nelle cause C‑110/99, Emsland-Stärke [2000], Raccolta, p. I‑11569, paragrafi 52 e 53, e C-515/03, Eichsfelder Schlachtbetrieb [2005], Raccolta, p. I‑7355, par. 39).
Da ultimo, la Corte ha dichiarato l’irricevibilità della seconda e della quarta censura, sulla base del rilievo che «poiché l’obiettivo del Trattato è di giungere all’effettiva eliminazione degli inadempimenti degli Stati membri e delle loro conseguenze, è irricevibile un ricorso a norma dell’articolo 259 TFUE che riguardi inadempimenti futuri ed eventuali o che si limiti a chiedere un’interpretazione del diritto dell’Unione» (par. 68; cf. anche la sentenza nella causa 70/72, Commissione c. Germania [1973], Raccolta, p. 813, par. 13).
[2] Di seguito, si riporta il testo integrale dell’art. 259 TFUE: «Ciascuno degli Stati membri può adire la Corte di giustizia dell'Unione europea quando reputi che un altro Stato membro ha mancato a uno degli obblighi a lui incombenti in virtù dei trattati. Uno Stato membro, prima di proporre contro un altro Stato membro un ricorso fondato su una pretesa violazione degli obblighi che a quest'ultimo incombono in virtù dei trattati, deve rivolgersi alla Commissione. La Commissione emette un parere motivato dopo che gli Stati interessati siano posti in condizione di presentare in contraddittorio le loro osservazioni scritte e orali. Qualora la Commissione non abbia formulato il parere nel termine di tre mesi dalla domanda, la mancanza del parere non osta alla facoltà di ricorso alla Corte».