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La sentenza nella causa C-583/11 P. Inuit Tapiriit Kanatami e altri c. Parlamento europeo e Consiglio dell’Unione europea (3/2013)

La Corte di giustizia conferma l'interpretazione (restrittiva) della nozione di «atto regolamentare» di cui all'art. 263(4) TFUE accolta dal Tribunale

Una tra le più lungamente attese novità introdotte dal Trattato di Lisbona è sicuramente l’ampliamento (benché moderato) dei requisiti di ricevibilità dei ricorsi di annullamento proposti da persone fisiche e giuridiche. L’articolo 230, quarto comma, TCE recitava: «[q]ualsiasi persona fisica o giuridica può proporre, alle stesse condizioni, un ricorso contro le decisioni prese nei suoi confronti e contro le decisioni che, pur apparendo come un regolamento o una decisione presa nei confronti di altre persone, la riguardano direttamente ed individualmente».

Il requisito secondo cui il ricorrente deve essere riguardato in modo individuale dall’atto di cui chiede l’annullamento e, in particolare, il modo in cui esso è stato declinato dalla Corte di giustizia in una giurisprudenza costante a partire dal 1963 - ossia, nel senso che «chi non sia destinatario di una decisione può sostenere che questa lo riguarda individualmente soltanto qualora il provvedimento lo tocchi a causa di determinate qualità personali, ovvero di particolari circostanza atte a distinguerlo dalla generalità, e quindi lo identifichi alla stessa stregua dei destinatari» -[1] è stato oggetto delle critiche di una parte della dottrina, e di inviti, se non veri tentativi, di superamento ‘dall’interno’ della Corte di giustizia dell’Unione europea stessa, tutti incentrati sul difficoltoso rapporto tra quel requisito - nell’interpretazione fornita dalla Corte - ed il principio della tutela giurisdizionale effettiva.[2] La Corte di giustizia ha tuttavia respinto le critiche, affermando, da un lato, che la possibilità di far valere ‘indirettamente’ l’invalidità di un atto UE attraverso il rinvio pregiudiziale ovvia al carattere restrittivo dei requisiti di ricevibilità dei ricorsi delle persone fisiche e giuridiche, e, dall’altro, che una modifica di questi requisiti non potrebbe essere introdotta per via giudiziaria, ma solo tramite una revisione dei Trattati. In realtà, entrambe le giustificazioni addotte sono almeno in parte contestabili: il rinvio pregiudiziale, oltre a non poter essere considerato un “rimedio” del tutto equivalente rispetto all’impugnazione, si rivela ad ogni modo inefficace rispetto agli atti di portata generale che non necessitano di misure di esecuzione; d’altrocanto, non sarebbe il primo caso in cui la Corte di giustizia interviene in modo sostanziale sui requisiti di ricevibilità del ricorso diretto. [3] 

Il Trattato di Lisbona, raccogliendo anche su questo punto l’‘eredità’ della Costituzione europea, è finalmente intervenuto nella materia. Il nuovo articolo dedicato al ricorso di annullamento - l’art. 263 TFUE - recita al paragrafo quarto che «[q]ualsiasi persona fisica o giuridica può proporre, alle condizioni previste al primo e secondo comma, un ricorso contro gli atti adottati nei suoi confronti o che la riguardano direttamente e individualmente, e contro gli atti regolamentari che la riguardano direttamente e che non comportano alcuna misura d'esecuzione». La principale novità[4] consiste dunque nell’ultima frase, che enuclea una nuova categoria di atti: gli atti ‘regolamentari’ (primo requisito) che ‘non comportano alcuna misura di esecuzione’ (secondo requisito). Rispetto a tali atti la ricevibilità del ricorso proposto da una persona fisica o giuridica è subordinata alla sola dimostrazione che l’atto riguarda il ricorrente in modo diretto. Per gli atti diversi da quelli appena individuati che non sono decisioni adottate nei confronti del ricorrente (sempre legittimato ai sensi della prima ipotesi prevista dall’art. 263(4) TFUE) rimane ferma la regola per cui la ricevibilità del ricorso è subordinata alla dimostrazione che il ricorrente è riguardato in modo diretto e individuale dall’atto.

Dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona l’attesa si era concentrata sulla Corte di giustizia, sulla quale ricadeva il compito di precisare l’effettiva portata della novità chiarendo il significato della nozione ‘atti regolamentari’, che non è definita né dall’art. 263 TFUE stesso né da diverse disposizioni dei Trattati. Il dubbio posto da questa nozione riguarda(va) la possibilità di includervi, oltre agli atti non legislativi di portata generale, anche quelli legislativi (in altre parole, tutti gli atti aventi portata generale e che ‘non comportano misure di esecuzione’, quando riguardano il ricorrente in modo diretto). A tal proposito, occorre precisare che nei Trattati post-Lisbona la distinzione tra atti legislativi e non legislativi poggia esclusivamente sulla modalità di adozione dell’atto: l’atto legislativo è quello adottato seguendo la procedura legislativa ordinaria o speciale (cfr. art. 289(3) TFUE).

La prima occasione per un chiarimento si è presentata con la causa C-583/11 P, Inuit Tapiriit Kanatami e altri c. Parlamento europeo e Consiglio dell’Unione europea, in cui la Corte di giustizia è stata chiamata a pronunciarsi sulla correttezza dell’interpretazione del primo requisito (quello relativo all’atto regolamentare) fornita dal Tribunale nella sua ordinanza del 6 settembre 2011 (causa T-18/10, Raccolta II-5599, http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=CELEX:62010TO0018(04):IT:HTML; si veda anche, nello stesso senso, la sentenza del 25 ottobre 2011, causa T-262/10, Microban International Ltd e Microban (Europe) Ltd c. Commissione europea, Raccolta II-7697,http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=CELEX:62010TJ0262:IT:HTML). Ad avviso del Tribunale, «la nozione di ‘atto regolamentare’ ai sensi dell’art. 263, quarto comma, TFUE deve essere interpretata nel senso che include qualsiasi atto di portata generale ad eccezione degli atti legislativi» (par. 56). La qualificazione come atto legislativo o regolamentare ai sensi del Trattato FUE è basata sul criterio della procedura, legislativa o meno, che ha portato alla sua adozione (par. 65).[5] La Grande sezione della Corte di giustizia, seguendo l’AG Kokott, ha confermato la correttezza dell’interpretazione accolta dal Tribunale, decidendo, con sentenza del 3 ottobre 2013, sull’impugnazione proposta contro l’ordinanza del 6 settembre 2011.

La Corte ha basato la sua decisione sul punto essenzialmente su due argomenti, uno di carattere testuale-sistematico e uno basato sui lavori preparatori della disposizione - dello stesso tenore dell’art. 263(4) TFUE - prevista dall’art. III-365(4) della Costituzione europea. Quanto al primo argomento, la Corte ha affermato che la nozione «atti regolamentari» non può essere intesa come comprensiva di tutti gli atti di portata generale, poiché ciò priverebbe di senso la nozione «atti» utilizzata nella prima parte del comma quarto, e che si riferisce a «tutti gli atti dell’unione produttivi di effetti giuridici obbligatori (...) quindi gli atti di portata generale, di natura legislativa o di altra natura, e gli atti individuali» (paragrafi 56 e 58). Che la nozione di «atti regolamentari» individua «una categoria più ristretta degli atti di [portata generale]» sarebbe poi confermato dai lavori preparatori: secondo quanto affermato dalla Corte, «se è vero che la modifica dell’articolo 230, quarto comma, CE era destinata ad ampliare i requisiti di ricevibilità del ricorso di annullamento per quanto riguarda le persone fisiche e giuridiche, le condizioni di ricevibilità previste dall’articolo 230, quarto comma, CE e riguardanti gli atti legislativi non dovevano tuttavia essere modificate. In tal senso, l’impiego dei termini «atti regolamentari» nel progetto di modifica di tale disposizione consentiva di designare la categoria di atti che da quel momento in poi potevano costituire oggetto di un ricorso di annullamento a condizioni meno restrittive di prima, al contempo mantenendo «un’impostazione restrittiva per i ricorsi proposti da persone fisiche o giuridiche contro atti legislativi (per i quali la condizione di riguardare “direttamente e individualmente il ricorrente” resta d’applicazione)» (v., in particolare, Segretariato della Convenzione europea, Relazione finale del circolo di discussione sul funzionamento della Corte di giustizia, del 25 marzo 2003, CONV 636/03, punto 22, e nota di trasmissione del Praesidium della Convenzione del 12 maggio 2003, CONV 734/03, pag. 20)» (par. 59).

Come conseguenza dell’interpretazione accolta dalla Corte di giustizia, il requisito per cui il ricorrente deve essere toccato individualmente dall’atto cade solo per gli atti non legislativi aventi portata generale e che non comportano misure di esecuzione (dunque, atti delegati e di esecuzione - fatta eccezione delle direttive, che richiedono misure di esecuzione -, e, secondo quanto suggerito dalla Commissione - cfr. par. 41 della sentenza - «gli atti non legislativi di portata generale adottati sul fondamento di basi giuridiche speciali, quali gli articoli 43, paragrafo 3, TFUE, 109 TFUE e 215, paragrafo 1, TFUE, nonché gli atti di portata generale adottati dai vari altri ‘organi e organismi’ di cui al primo comma dell’articolo 263 TFUE»). Gli atti legislativi - intesi come gli atti adottati attraverso la procedura legislativa ordinaria o speciale (cfr. art. 289(3) TFUE) -, così come gli atti regolamentari che comportano misure di esecuzione, potranno essere validamente impugnati solo dal ricorrente che sia in grado di dimostrare di essere riguardato dagli stessi in modo diretto e individuale.

Questa netta differenza di regime all’interno degli atti generali che non comportano misure di esecuzione, basata esclusivamente sul dato formale della procedura seguita per l’adozione dello stesso, genera qualche perplessità, poiché sacrifica il principio - ben consolidato in materia di ricevibilità dei ricorsi diretti, ed ora sostanzialmente ‘codificato’ dallo stesso art. 263(4) TFUE -[6] della prevalenza della sostanza sulla forma. L’argomento formulato in questo senso dai ricorrenti[7]  è stato respinto dalla Corte di giustizia sulla base del solito argomento del carattere ‘integrato’ del sistema di tutela giurisdizionale dell’Unione - all’interno del quale rivestono un ruolo chiave i giudici nazionali e lo strumento del rinvio pregiudiziale -, ‘rafforzato’ dall’esplicita menzione dell’art. 19(1) TFUE - secondo cui «[g]li Stati membri stabiliscono i rimedi giurisdizionali necessari per assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell'Unione» - e da un argomento basato sulla spiegazione dell’art. 47 della Carta. A quest’ultimo proposito la Corte ha osservato che «detto articolo non ha ad oggetto di modificare il sistema di controllo giurisdizionale previsto dai Trattati, ed in particolare le norme relative alla ricevibilità dei ricorsi proposti direttamente dinanzi al giudice dell’Unione europea, come si evince altresì dalle spiegazioni relative a tale articolo 47, le quali, conformemente agli articoli 6, paragrafo 1, terzo comma, TUE e 52, paragrafo 7, della Carta, devono essere prese in considerazione ai fini dell’interpretazione di quest’ultima» (par. 97).[8]

Si deve peraltro evidenziare che la Corte non sembra d’altrocanto disposta ad ‘allentare’ il requisito del carattere individuale. Essa ha infatti affermato che, poiché «il tenore del requisito dell’incidenza individuale da parte dell’atto di cui è chiesto l’annullamento, quale interpretato dalla Corte nella sua giurisprudenza costante a partire dalla (...) sentenza Plaumann/Commissione, non è stato modificato dal Trattato di Lisbona (...)[,] il Tribunale non ha commesso alcun errore di diritto nell’applicare i criteri di valutazione previsti da tale giurisprudenza» (par. 71). Anche questa conclusione non è esente da perplessità. Se è vero quanto affermato dalla Corte di giustizia sui limiti della potenziale incidenza dell’art. 47 della Carta sull’interpretazione dei requisiti di ricevibilità delle impugnazioni - limiti che si impongono per l’esigenza di evitare un ‘aggiramento’ in via giudiziaria delle procedure per la revisione dei Trattati, prima che per effetto delle Spiegazioni e dell’obbligo posto dal diritto primario di tenere in considerazione le indicazioni dalle stesse fornite -, si può comunque notare che non si tratterebbe necessariamente di ‘cancellare’ in via interpretativa un requisito espressamente previsto dal Trattato. Il vero punctum dolens non è tanto  (o, almeno, non soltanto) questo requisito, ma l’interpretazione che ne ha fornito la Corte di giustizia. Come affermato dall’AG Jacobs, «[n]on vi è nessun obbligo di interpretare tale nozione nel senso che un singolo che intenda impugnare un atto di portata generale deve distinguersi da tutti coloro che sono colpiti in modo analogo, alla stessa stregua del destinatario».[9] Neanche può dirsi che un tale obbligo discenda ora dalla spiegazione dell’art. 47 della Carta, in cui nessun riferimento di natura ‘codificatoria’ è fatto alla giurisprudenza Plaumann. L’opzione per l’interpretazione di una norma di diritto primario (quale, ad esempio, l’art. 263(4) TFUE) che, tra le varie possibile, maggiormente realizza le esigenze della protezione dei diritti fondamentali (in questo caso, il diritto alla tutela giurisdizionale effettiva) è invece coerente con il rango di diritto primario dei diritti fondamentali richiamati dall’art. 6, paragrafi 1 e 3, TUE. 

A ‘sostegno’ dell’approccio restrittivo abbracciato dalla Corte di giustizia si potrebbe osservare  che soluzioni che avrebbero consentito un ben più significativo ‘allentamento’ dei requisiti di ricevibilità dei ricorsi proposti dalle persone fisiche e giuridiche sono state vagliate e scartate durante i lavori preparatori della Costituzione europea.[10] In altre parole, dopo essersi astenuta dall’intervenire direttamente, invitando piuttosto gli Stati membri a provvedere, la Corte di giustizia si starebbe ora attenendo alla volontà espressa da questi ultimi. Certo, come già è stato evidenziato, non mancherebbero alla Corte gli spazi, le ragioni e gli strumenti per assicurare una maggiore coerenza di quella volontà con il principio - ormai indiscutibilmente di rango primario - della tutela giurisdizionale effettiva. Considerazioni pragmatiche quali l’esigenza di evitare un notevole incremento del carico di lavoro in conseguenza della maggiore apertura dei requisiti di ricevibilità dei ricorsi diretti sembrano essere alla base di questa sentenza (come dell’orientamento pre-Lisbona) più del problema del rispetto del confine - talvolta, invero, molto labile - tra interpretazione e sostanziale revisione dei Trattati.

 



[1] Sent. 15 luglio 1963, causa 25-62, Plaumann & Co. c. Commissione della Comunità economica europea [1963], Raccolta 197.

 [2] Si vedano, in particolare, le conclusioni dell’AG Jacobs, 21 marzo 2002, causa C-50/00 P, Unión de Pequeños Agricultores c. Consiglio dell'Unione europea [2002] Raccolta I-6677, paragrafi 35 ss., e soprattutto 59 e 60: «59. La chiave per risolvere il problema relativo alla tutela dei singoli contro atti comunitari illegittimi è quindi contenuta, a mio avviso, nel concetto di interesse individuale di cui all'art. 230, quarto comma, CE. Non vi è nessun obbligo di interpretare tale nozione nel senso che un singolo che intenda impugnare un atto di portata generale deve distinguersi da tutti coloro che sono colpiti in modo analogo, alla stessa stregua del destinatario. Secondo questa interpretazione, più elevato è il numero delle persone toccate da un atto, minore è la possibilità di un sindacato giurisdizionale ai sensi dell'art. 230, quarto comma, CE. A mio parere, tuttavia, il fatto che un atto leda un gran numero di soggetti, causando un danno diffuso anziché limitato, fornisce una ragione indiscutibile per ammettere ricorsi diretti da parte di uno o più singoli. 60. A mio avviso, pertanto, si dovrebbe ammettere che un soggetto sia considerato individualmente riguardato da un atto comunitario nel caso in cui, in ragione delle circostanze di fatto a lui peculiari, tale atto pregiudichi o possa pregiudicare in modo sostanziale i suoi interessi». In posizione di aperto contrasto rispetto all’orientamento della Corte di giustizia, Tribunale di primo grado (Prima Sezione ampliata), sent. 3 maggio 2002, causa T-177/01, Jégo-Quéré & Cie SA c. Commissione delle Comunità europee [2002] Raccolta II-2365. Sulla dottrina in materia si rimanda ai riferimenti in  E. Fontana, ‘Il ricorso di annullamento dei privati nel Trattato di Lisbona’, Il Diritto dell’Unione Europea, 2010(1), p. 53 ss., e L. Calzolari, ‘La nozione di «atti regolamentari» ex art. 253(4) TFUE nelle prime sentenze del Tribunale dell’Unione europea’, ibid., 2012(3), p. 523 ss.

 [3] Cfr. sent. 23 aprile 1986, causa 294/83, Parti écologiste "Les Verts" c. Parlamento europeo [1986] Raccolta 1339. Per un’ipotesi di intervento estensivo sull’oggetto del rinvio pregiudiziale, si veda la sent. 27 febbraio 2007, Causa C-355/04 P, Segi, Araitz Zubimendi Izaga e Aritza Galarraga c. Consiglio dell'Unione europea [2007] Raccolta I-1657.

 [4] Dalla comparazione tra la nuova disposizione e l’art. 230(4) TCE si possono invero identificare due ulteriori novità, che codificano il medesimo principio di elaborazione giurisprudenziale della prevalenza della sostanza sulla forma dell’atto: non si parla infatti più, rispetto alle due ipotesi mutuate dall’art. 230(4) TCE, rispettivamente, di «decisioni prese nei suoi confronti» e di «decisioni che, pur apparendo come un regolamento o una decisione presa nei confronti di altre persone», ma più genericamente di «atti».

 [5] Per dei commenti - in larga misura critici - sulla soluzione accolta dal Tribunale in Inuit e Microban, si vedano M. Wathelet, J. Wildemeersch, ‘Recours en annulation: une première interprétation restrictive du droit d’action élargi des particuliers?’, Journal des tribunaux/droit européen, 2012, n. 187, p. 75, e S. Peers, M. Costa, ‘Judicial Review of EU Acts after the Treaty of Lisbon; Order of 6 September 2011, Case T-18/10 Inuit Tapiriit Kanatami and Others v. Commission & Judgment of 25 October 2011, Case T-262/10 Microban v. Commission’, European Constitutional Law Review, 2012, p. 82. 

 [6] Si veda la nota 4.

 [7] Questi lamentavano che «[l]’interpretazione dell’articolo 263, quarto comma, TFUE nell’ordinanza impugnata rappresenterebbe addirittura una regressione rispetto alla situazione esistente prima dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona [poiché p]rima dell’entrata in vigore di detto Trattato, i giudici dell’Unione avrebbero applicato un criterio sostanziale al fine di accertare la legittimazione delle persone fisiche e giuridiche ad agire per l’annullamento, mentre ormai sarebbe applicato un criterio puramente formale» (par. 87).

 [8] La spiegazione dell’art. 47 della Carta precisa infatti che «[l]'inserimento [della] giurisprudenza [sul principio della tutela giurisdizionale effettiva] nella Carta non era inteso a modificare il sistema di controllo giurisdizionale previsto dai trattati e, in particolare, le norme in materia di ricevibilità per i ricorsi diretti dinanzi alla Corte di giustizia dell’Unione europea».

 [9] Si veda più ampiamente la nota 2.

 [10] Per un’analisi approfondita dei lavori preparatori, si rimanda a E. Fontana, cit., spec. sezioni III e IV.

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