Sebbene il diritto dell’Unione non contempli, allo stato attuale, alcun principio generale che vieta la discriminazione per motivi di obesità in quanto tale, l’obesità può però rilevare ai fini della nozione di “handicap” di cui all’art. 19 TFUE e alla direttiva 2000/78/CE; in tal caso, incombe sulla parte convenuta l’onere di dimostrare che non vi è stata violazione del principio di parità di trattamento
Il signor Kaltoft ha lavorato per vari anni come babysitter presso una amministrazione pubblica danese, prima con contratto a tempo determinato e successivamente a tempo indeterminato. È un dato non contestato che durante questo periodo il lavoratore era affetto da obesità ai sensi della definizione della stessa fornita dall’Organizzazione mondiale della sanità. Quando il datore di lavoro procede al licenziamento, motivando in relazione al calo del numero dei bambini per i quali era richiesto il servizio di babysitting, il signor Kaltoft ha proposto ricorso lamentando il carattere discriminatorio del ricorso. A suo avviso, la scelta di licenziare lui piuttosto che un altro babysitter alle dipendenze della stessa pubblica amministrazione sarebbe stata determinata dalla sua condizione patologica di obesità.
Il giudice adito decideva di sospendere il procedimento per sottoporre alla Corte di giustizia quattro quesiti pregiudiziali. In particolare, chiedeva di chiarire se il diritto dell’Unione contempla un principio generale che vieta la discriminazione per motivi di obesità in materia di occupazione e condizioni di lavoro, e, in caso affermativo, se esso è direttamente applicabile nei rapporti tra un cittadino e il suo datore di lavoro pubblico. In caso contrario, il giudice domandava se la direttiva 2000/78/CE[2] deve essere interpretata nel senso che lo stato di obesità di un lavoratore può costituire un «handicap» ai sensi della stessa direttiva, e, eventualmente, secondo quali criteri deve stabilirsi se la persona in questione può beneficiare della tutela prevista da questa direttiva contro la discriminazione fondata sulla disabilità.
La Corte ha affermato che, sebbene “nel novero dei diritti fondamentali che costituiscono parte integrante dei principi generali del diritto dell’Unione compare segnatamente il divieto generale di discriminazione[, che] vincola quindi gli Stati membri allorché la situazione nazionale (…) rientra nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione”, l’obesità non figura tra i motivi per i quali detto diritto vieta la discriminazione (paragrafi 32 e 33). Infatti, nessun riferimento a tale ipotetico motivo è fatto dalle rilevanti disposizioni del Trattato, segnatamente gli artt. 10 e 19 TFUE. La prima disposizione stabilisce un obbligo generale e di carattere trasversale a carico dell’Unione, che, “[n]ella definizione e nell'attuazione delle sue politiche e azioni, (…) mira [deve mirare] a combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l'origine etnica, la religione o le convinzioni personali, la disabilità, l'età o l'orientamento sessuale”. L’art. 19 TFUE, invece, consente al legislatore UE di adottare, nell'ambito delle competenze dell'Unione, i provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni fondate sugli stessi motivi enunciati dalla precedente disposizione, tra i quali, quindi, non rientra l’obesità. L’art. 19 TFUE costituisce, appunto, la base giuridica della direttiva 2000/78/CE, che vieta le discriminazioni dirette e indirette fondate sulla religione o le convinzioni personali, l’handicap, l’età o le tendenze sessuali in materia di occupazione e condizioni di lavoro, a prescindere dalla natura pubblica o privata del datore di lavoro. A tal proposito, la Corte ha ricordato la propria giurisprudenza secondo cui “l’ambito di applicazione della direttiva 2000/78 non deve essere esteso per analogia al di là delle discriminazioni fondate sui motivi elencati tassativamente nell’articolo 1 di quest’ultima[, cosicché] l’obesità in quanto tale non può essere considerata un motivo che si aggiunge a quelli in base ai quali la direttiva (…) vieta qualsiasi discriminazione” (cfr. la sent. 11 luglio 2006, causa C-13/05, Chacón Navas, in Raccolta, p. I-6467, paragrafi 56 e 57: qui).
La Corte ha invece ritenuto che la condizione patologica di obesità viene in rilievo rispetto alla direttiva 2000/78/CE quando costituisce un «handicap» ai sensi di tale direttiva. A seguito della ratifica della convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità da parte dell’Unione,[3] tale nozione si riferisce a “una limitazione risultante segnatamente da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature, la quale, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori” (par. 53; cfr. anche le sentenze 26 settembre 2013, causa C-476/11, HK Danmark, qui il testo e qui una sintesi, paragrafi da 37 a 39, 18 marzo 2014, causa C-363/12, Z., par. 76, qui il testo e qui una sintesi, e 22 maggio 2014, causa C-356/12, Glatzel, par. 45, qui il testo). Tale limitazione non deve necessariamente tradursi in una impossibilità ad esercitare un’attività professionale, essendo invece sufficiente che essa crei un ostacolo a svolgere tale attività (par. 54); né è rilevante la causa che conduce a tale limitazione (par. 55).
Dunque, se di per sé l’obesità non costituisce, in quanto tale, un «handicap» ai sensi della direttiva, “[t]ale sarebbe il caso (…) se [essa] ostasse alla piena ed effettiva partecipazione [del lavoratore] alla vita professionale sulla base di uguaglianza con gli altri lavoratori in ragione di una mobilità ridotta o dell’insorgenza, in tale persona, di patologie che le impediscono di svolgere il suo lavoro o che determinano una difficoltà nell’esercizio della sua attività professionale” (par. 60).
La Corte ha rimesso al giudice nazionale la valutazione della sussistenza di una tale situazione, precisando che, in caso affermativo, l’art. 10 della direttiva richiede agli Stati membri di prendere i provvedimenti necessari affinché, quando le persone che si ritengono vittime di una discriminazione ai sensi della direttiva espongono, dinanzi a un tribunale o a un’altra autorità competente, fatti dai quali si può presumere che vi sia stata una discriminazione diretta o indiretta, incomba alla parte convenuta provare che non vi è stata violazione del principio della parità di trattamento. È fatta salva la possibilità per gli Stati membri di prevedere disposizioni in materia di onere della prova più favorevoli alle parti attrici (par. 63).