Sentenza della Corte di giustizia (Grande Sezione) del 17 aprile 2018, Egenberger, ECLI:EU:C:2018:2571
Nella sentenza in oggetto, la Corte di giustizia si è pronunciata sul bilanciamento – nell’ambito dell’accesso al lavoro – tra diritti fondamentali concorrenti, in particolare il diritto all’autonomia delle Chiese e organizzazioni religiose affiliate e quello di ciascun individuo a non essere discriminato per motivi religiosi.
Per la prima volta, la Corte ha interpretato l’art. 4, par. 2, della direttiva 2000/78/CE, che consente agli Stati membri di mantenere disposizioni nazionali secondo cui, nel caso di attività professionali di Chiese o di altre organizzazioni pubbliche o private la cui etica è fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, una differenza di trattamento basata su tali fattori non costituisce discriminazione laddove questi ultimi rappresentino un requisito essenziale, legittimo e giustificato per lo svolgimento dell’attività, tenuto conto dell’etica dell’organizzazione. La Corte ha altresì affermato che, nel caso in cui la disparità di trattamento per motivi religiosi non possa essere giustificata in base ai criteri posti dalla direttiva 2000/78, la tutela effettiva del divieto di ogni discriminazione fondata sulla religione o convinzione personale potrà comunque essere invocato direttamente dai singoli sulla base degli articoli 21 e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che sanciscono, rispettivamente, il divieto di discriminazione per motivi religiosi e il diritto alla tutela giurisdizionale effettiva. Ad avviso della Corte, infatti, tali diritti sono idonei a produrre effetti diretti e non necessitano, pertanto, di essere precisati mediante disposizioni di diritto dell’Unione o del diritto nazionale per conferire ai singoli un diritto invocabile in quanto tale.
Nella sentenza Egenberger, la Corte di giustizia, nella formazione della Grande Sezione, è stata chiamata a pronunciarsi in via pregiudiziale sul difficile equilibrio fra la tutela del diritto delle organizzazioni religiose dell’Unione europea all’autonomia e all’autodeterminazione, sancito dall’art. 17 TFUE, e la necessità di un’effettiva applicazione del divieto di discriminazione per motivi religiosi, ai sensi del combinato disposto degli articoli 21 e 47 della Carta, anche nell’ambito di rapporti lavorativi (pur non ancora instaurati) tra privati.
La questione traeva origine dalla domanda di risarcimento proposta dalla sig.ra Egenberger davanti al giudice tedesco a motivo di una presunta discriminazione fondata sulla religione, realizzata nell’ambito di una procedura di assunzione promossa da un’organizzazione religiosa. Infatti, nel 2012, l’Evangelishes Werk für Diakonie und Entwicklung – associazione che perseguiva in via esclusiva fini di beneficienza, caritatevoli e religiosi, regolata dal diritto privato ed affiliata alla Chiesa Evangelica di Germania –, aveva pubblicato un’offerta di lavoro a tempo determinato per un progetto relativo alla stesura di una relazione sulla Convenzione delle Nazioni Unite sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale. Tra i requisiti che i candidati dovevano soddisfare figurava l’“appartenenza a una Chiesa evangelica oppure a una Chiesa rientrante nell’Associazione delle Chiese cristiane di Germania, nonché l’identificazione con la missione assistenziale- caritatevole della Diaconia” (par. 25). La confessione religiosa di appartenenza doveva essere quindi indicata all’interno del curriculum. La sig.ra Egenberger, pur non appartenendo a nessuna confessione religiosa, si era candidata per il posto e, sebbene facesse parte dei candidati a seguito di una prima selezione, l’interessata non era stata poi invitata al colloquio. Al contrario, il candidato alla fine risultato vincitore della selezione aveva indicato di essere “un cristiano evangelico appartenente alla Chiesa regionale di Berlino” (par. 26). La sig.ra Egenberger, ritenendo che la propria candidatura fosse stata respinta perché non apparteneva a nessuna confessione e di aver quindi subito una discriminazione per motivi religiosi, si era rivolta al giudice nazionale competente.
La questione sollevata dalla ricorrente rientrava nell’ambito applicativo della direttiva 2000/78/CE,2 che prevede un divieto di discriminazione per motivi religiosi anche in relazione alle procedure di assunzione; allo stesso tempo, essa lascia agli Stati membri la possibilità di mantenere o prevedere nella legislazione nazionale disposizioni in virtù delle quali, “nel caso di attività professionali di chiese o di altre organizzazioni pubbliche o private la cui etica è fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, una differenza di trattamento basata sulla religione o sulle convinzioni personali non costituisce discriminazione laddove, per la natura di tali attività, o per il contesto in cui vengono espletate, la religione o le convinzioni personali rappresentino un requisito essenziale, legittimo e giustificato per lo svolgimento dell’attività lavorativa, tenuto conto dell’etica dell’organizzazione” (art. 4 par. 2, direttiva 2000/78).
Il problema che si poneva al giudice nazionale riguardava quindi la compatibilità con il diritto dell’Unione della disparità di trattamento a motivo della religione operata dall’Evangelisches Werk al momento dell’assunzione, sulla base del diritto all’autodeterminazione della Chiesa, costituzionalmente tutelato e interpretato dalla Corte costituzionale federale, nonché della normativa nazionale in base alla quale, nel rapporto d’impiego con comunità religiose, istituzioni ad esse correlate, o associazioni che coltivano in comune una religione o convinzioni personali, è possibile “determinare che la religione costituisce, indipendentemente dalla natura dell’attività, un requisito giustificato per lo svolgimento dell’attività lavorativa, tenuto conto dell’etica di tale datore di lavoro, e che i giudici nazionali possano esercitare, al riguardo, solo un controllo di plausibilità” (par. 32).
La Corte di giustizia si è innanzitutto concentrata sulla questione se l’art. 4 par. 2 della direttiva 2000/78 può essere interpretato nel senso che una Chiesa o un’altra organizzazione la cui etica è fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, possa determinare essa stessa, ai fini dell’assunzione di un lavoratore, “le attività professionali con riferimento alle quali la religione costituisce, per la natura dell’attività di cui trattasi o per il contesto in cui viene espletata, un requisito essenziale, legittimo e giustificato per lo svolgimento dell’attività lavorativa, tenuto conto dell’etica di tale Chiesa o di tale organizzazione” (par. 42). A tal riguardo, la Corte ha ritenuto che fosse pacifico tra le parti del procedimento principale che “il rigetto della candidatura della sig.ra Egenberger per il fatto che quest’ultima non appartiene a nessuna confessione religiosa costituisce una differenza di trattamento basata sulla religione” (par. 43). Pertanto, tale differenza di trattamento potrà essere giustificata solo quando, “tenuto conto della natura dell’attività di cui trattasi o del contesto in cui essa è espletata, la religione o le convinzioni personali rappresentino un requisito essenziale legittimo e giustificato per lo svolgimento dell’attività lavorativa, tenuto conto dell’etica dell’organizzazione” (par. 45). Secondo la Corte, “il controllo del rispetto di tali criteri, qualora spettasse, in caso di dubbio, non a un’autorità indipendente, quale un giudice nazionale, bensì alla Chiesa o all’organizzazione che intende mettere in atto una differenza di trattamento basata sulla religione o sulle convinzioni personali, sarebbe svuotato di ogni significato” (par. 46).
La Corte ha poi proseguito evidenziando che la direttiva 2000/78 “mira a stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate, in particolare, sulla religione o sulle convinzioni personali per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro, al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento” (par. 47). Pertanto, tale direttiva concretizza, nell’ambito da essa coperto, “il principio generale di non discriminazione sancito ormai dall’articolo 21 della Carta” (ibid.). Per garantire il rispetto di questo principio generale, la direttiva “impone agli Stati membri di prevedere procedure, in particolare giurisdizionali, volte a far rispettare gli obblighi derivanti da tale direttiva” (par. 48). Inoltre la Carta, applicabile nel caso in esame, sancisce all’art. 47, “il diritto degli interessati a una tutela giurisdizionale effettiva dei loro diritti conferiti dal diritto dell’Unione” (par. 49).
Allo stesso tempo, il giudice dell’Unione ha precisato che, “sebbene la direttiva 2000/78 miri in tal modo a tutelare il diritto fondamentale dei lavoratori di non essere oggetto di una discriminazione fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, tuttavia, con il suo art. 4 par. 2, la suddetta direttiva intende anche tenere conto del diritto all’autonomia delle Chiese e delle altre organizzazioni pubbliche o private la cui etica è fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, come sancito dall’art. 17 TFUE e all’articolo 10 della Carta che corrisponde all’articolo 9 della Convenzione [EDU]” (par. 50). L’art. 4 par. 2 della direttiva ha quindi lo scopo di garantire il giusto equilibrio tra, da un lato, il diritto all’autonomia della Chiesa e delle organizzazioni ad essa collegate, e, dall’altro lato, il diritto dei lavoratori a non essere discriminati in base alla religione o alle convinzioni personali, in situazioni in cui tali diritti possono essere concorrenti. Ed è proprio tale disposizione che stabilisce i criteri “da prendere in considerazione nell’ambito del bilanciamento che occorre compiere per garantire un giusto equilibrio tra tali diritti eventualmente concorrenti” (par. 52).
Tuttavia, secondo la Corte, “in caso di controversia, un siffatto bilanciamento deve poter essere oggetto, se del caso, di un controllo da parte di un’autorità indipendente e, in ultimo luogo, di un giudice nazionale” (par. 53). Pertanto, l’art. 4 par. 2 della direttiva non può essere interpretato “nel senso che autorizza gli Stati membri a sottrarre ad un controllo giurisdizionale effettivo il rispetto dei criteri sanciti da tale disposizione” (par. 54). Né l’art. 17 TFUE costituisce ostacola a tale conclusione: infatti, secondo il giudice dell’Unione, tale disposizione “esprime la neutralità dell’Unione nei confronti dell’organizzazione, da parte degli Stati membri, dei loro rapporti con le Chiese e le associazioni o comunità religiose” (par. 58). L’art. 17 TFUE non ha dunque l’effetto di sottrarre “a un controllo giurisdizionale effettivo il rispetto dei criteri enunciati all’art. 4, par. 2, della direttiva 2000/78” (par. 58). Ne consegue che quest’ultima disposizione, letta in particolare in combinato disposto con l’art. 47 della Carta, deve essere interpretata nel senso che, qualora una Chiesa o un’organizzazione ad essa correlata alleghi che per la natura dell’attività lavorativa o per il contesto in cui tali attività devono essere espletate, “la religione costituisce un requisito essenziale, legittimo e giustificato per lo svolgimento dell’attività lavorativa, tenuto conto dell’etica di tale Chiesa o di tale organizzazione, una siffatta allegazione deve, se del caso, poter essere oggetto di un controllo giurisdizionale effettivo al fine di assicurarsi che, nel caso di specie, siano soddisfatti i criteri di cui all’articolo 4 paragrafo 2 della suddetta direttiva “ (par. 59).
Per quanto concerne l’interpretazione dei criteri di cui a tale articolo, la Corte di giustizia ha precisato che “gli Stati membri e le loro autorità, in particolare giurisdizionali, devono, salvo in casi del tutto eccezionali, astenersi dal valutare la legittimità dell’etica stessa della Chiesa o dell’organizzazione di cui trattasi” (par. 61). L’esame deve piuttosto mirare a verificare “se il requisito per lo svolgimento dell’attività lavorativa posto dalla Chiesa o dall’organizzazione di cui trattasi sia, per la natura delle attività di cui trattasi o per il contesto in cui vengono espletate, essenziale, legittimo e giustificato, tenuto conto dell’etica suddetta” (ibid.). A tal proposito, secondo la Corte, è in considerazione della natura delle attività o del contesto in cui esse vengono espletate che la religione o le convinzioni personali possono, eventualmente, costituire un requisito essenziale, legittimo e giustificato per lo svolgimento dell’attività lavorativa. Pertanto, “la legittimità (…) di una differenza di trattamento basata sulla religione o sulle convinzioni personali è subordinata all’esistenza oggettivamente verificabile di un nesso diretto tra il requisito per lo svolgimento dell’attività lavorativa imposto dal datore di lavoro e l’attività in questione” (par. 63). Un tale nesso potrà derivare sia dalla natura di tale attività sia dalle condizioni in cui essa deve essere svolta.
Inoltre, il requisito di appartenenza ad una determinata religione o convinzione personale per lo svolgimento dell’attività lavorativa deve essere “essenziale, legittimo e giustificato, tenuto conto dell’etica della Chiesa o dell’organizzazione” (par. 64). Sebbene non spetti ai giudici nazionali valutare l’etica, “tuttavia spetta loro determinare, caso per caso, se, tenuto conto di tale etica, questi tre criteri sono soddisfatti” (ibid.). Per quanto riguarda il carattere “essenziale”, secondo la Corte, “l’impiego di tale aggettivo significa che, per il legislatore dell’Unione, l’appartenenza alla religione o l’adesione alle convinzioni personali su cui si fonda l’etica della Chiesa o dell’organizzazione in questione deve apparire necessaria, a causa dell’importanza dell’attività professionale di cui trattasi, per l’affermazione di tale etica o l’esercizio da parte di tale Chiesa o di tale organizzazione del proprio diritto all’autonomia” (par. 65). Il carattere “legittimo”, invece, significa che il requisito dell’appartenenza alla religione o dell’adesione alle convinzioni personali su cui si fonda l’etica della Chiesa o dell’organizzazione non venga utilizzato “per un fine estraneo a tale etica o all’esercizio da parte di tale Chiesa o di tale organizzazione del proprio diritto all’autonomia” (par. 66). Infine, il carattere “giustificato” del requisito implica “non solo che il controllo del rispetto dei criteri di cui all’articolo 4 paragrafo 2 della direttiva 2000/78 possa essere effettuato da un giudice nazionale, ma anche che la Chiesa o l’organizzazione che ha stabilito tale requisito ha l’obbligo di dimostrare, alla luce delle circostanze di fatto del caso di specie, che il presunto rischio di lesione per la sua etica o il suo diritto all’autonomia è probabile e serio, di modo che l’introduzione di un siffatto requisito risulta essere effettivamente necessaria” (par. 67). Secondo la Corte, sebbene l’art. 4 par. 2 della direttiva non preveda espressamente che tale requisito, per poter essere giustificato, sia proporzionato, esso “dispone tuttavia che qualsiasi differenza di trattamento deve essere effettuata nel rispetto, in particolare, dei principi generali del diritto comunitario” (par. 68). Dal momento che il principio di proporzionalità rientra tra tali principi, “i giudici nazionali devono verificare che il requisito in questione sia appropriato e non vada al di là di quanto è necessario per conseguire l’obiettivo perseguito” (ibid.). Pertanto “il requisito essenziale, legittimo e giustificato per lo svolgimento dell’attività lavorativa (…) rinvia a un requisito necessario e oggettivamente dettato, tenuto conto dell’etica della Chiesa o dell’organizzazione di cui trattasi, della natura o dalle condizioni di esercizio dell’attività professionale in questione, e non può includere considerazioni estranee a tale etica o al diritto all’autonomia di detta Chiesa o di detta organizzazione” (par. 69). Tale requisito deve essere inoltre conforme al principio di proporzionalità.
La Corte di giustizia è stata infine chiamata a chiarire gli obblighi spettanti al giudice nazionale, nell’ambito di una controversia tra privati, nel caso in cui una normativa nazionale si rivelasse in contrasto con l’art. 4 par. 2 della direttiva, come interpretato dalla Corte. In primo luogo, il giudice dell’Unione ha ricordato che spetta al giudice nazionale valutare in quale misura una disposizione nazionale possa essere interpretata conformemente alla direttiva, con il limite di non procedere a un’interpretazione contra legem di tale disposizione nazionale. Inoltre, la Corte ha sottolineato “che l’esigenza di un’interpretazione conforme include l’obbligo per i giudici nazionali, di modificare, se del caso, una giurisprudenza consolidata se questa si basa su un’interpretazione del diritto nazionale incompatibile con gli scopi di una direttiva” (par. 72). Nel caso di specie, spetta al giudice nazionale verificare se sia possibile procedere ad un’interpretazione conforme alla direttiva, anche modificando la giurisprudenza consolidata di un giudice costituzionale.
Laddove ciò non sia possibile, la Corte ha ricordato che la direttiva 2000/78 “non sancisce essa stessa il principio della parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro” (par. 75), piuttosto ha il “solo obiettivo di stabilire, in queste stesse materie, un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate su diversi motivi, tra i quali la religione o le convinzioni personali” (ibid.). Dunque, sebbene l’effetto diretto delle disposizioni di una direttiva non possa essere invocato nell’ambito di una controversia tra privati, lo stesso non vale per “il divieto di ogni discriminazione fondata sulla religione o le convinzioni personali [, che] riveste carattere imperativo in quanto principio generale del diritto dell’Unione” (par. 76). Secondo la Corte, tale divieto, “sancito all’art. 21, par. 1 della Carta, (…) è di per sé sufficiente a conferire ai singoli un diritto invocabile in quanto tale nell’ambito di una controversia che li vede opposti in un settore disciplinato dal diritto dell’Unione” (ibid). In particolare, “riguardo l’effetto imperativo che esso esplica, l’art. 21 della Carta non si distingue, in linea di principio, dalle diverse diposizioni dei Trattati istitutivi che vietano le discriminazioni fondate su vari motivi, anche quando tali discriminazioni derivino da contratti conclusi tra privati” (par. 77). La stessa conclusione è stata raggiunta circa l’efficacia dell’art. 47 della Carta, relativo al diritto ad una tutela giurisdizionale effettiva, ritenuto anch’esso “sufficiente di per sé e [tale da non dover] essere precisato mediante disposizioni del diritto dell’Unione o del diritto nazionale per conferire ai singoli un diritto invocabile in quanto tale” (par. 78).
Il giudice nazionale è quindi tenuto ad assicurare, nell’ambito delle sue competenze, “la tutela giuridica spettante ai singoli in forza degli articoli 21 e 47 della Carta e a garantire la piena efficacia di tali articoli, disapplicando all’occorrenza qualsiasi disposizione nazionale contraria” (par. 79). Tale conclusione, secondo quanto precisato dalla Corte, “non è rimessa in discussione dalla circostanza che un giudice possa essere chiamato in una controversia tra privati, a contemperare diritti fondamentali concorrenti che le parti in causa traggono dalle disposizioni del Trattato FUE e della Carta e che sia addirittura tenuto, nell’ambito del controllo che deve effettuare, ad assicurarsi che il principio di proporzionalità sia rispettato” (par. 80). Al contrario, “un simile obbligo di stabilire un equilibrio tra i diversi interessi in gioco non incide in alcun modo sull’invocabilità, in una simile controversia, dei diritti in questione” (ibid.).