Ordinanza n. 97/2021 – Con l’ordinanza (interlocutoria) “monito” che si annota, la Corte, a seguito di rinvio da parte della Corte di Cassazione, torna sulla dibattuta questione dell’ergastolo ostativo. La de-cisione della Corte con cui si perviene ad una censura dell’istituto - tanto rispetto al contesto evocato in giudizio, quanto rispetto ai diversi reati diversi da quelli di stampo mafioso cui la disciplina attuale pur si riferisce – quando inteso in termini incontestabilmente estesi, offrendo al legislatore i canoni cui ispirarsi per rivedere la normativa e un termine per adempiere, è già oggetto dell’attenta riflessione del-la dottrina.
Le questioni sollevate si mostrano, tuttavia, rilevanti specificamente sul piano delle fonti per le censure mosse all’art.4-bis, comma 1, 58-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento peni-tenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), e all’art. 2 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di traspa-renza e buon andamento dell’attività amministrativa), convertito, con modificazioni, nella legge 12 lu-glio 1991, n. 203, rispetto alla subordinazione (assoluta), che queste prevedono per la concessione della liberazione condizionale, alla “collaborazione” del condannato con l’autorità giudiziaria.
Tale questione coinvolge un complesso di fonti, atteso che l’ergastolo, in misura maggiore delle altre pene detentive che pur soggiacciono a specifici limiti, si pone al crocevia tra la necessaria difesa dell’ordinamento dalla potenziale perpetuazione di comportamenti anti-giuridici ed i principi ispirati al-la possibilità di rivedere – a distanza di tempo e di indici sensibili di risocializzazione – la decisione di infliggere una pena per la vita intera del condannato.
Essendo, dunque, pienamente ammessa la possibilità che la legge indichi taluni fattori che debbano es-sere attentamente valutati ai fini della liberazione condizionale del condannato, sembra infatti ragione-vole ipotizzare che il rifiuto di collaborare con la giustizia costituisca un indice (astrattamente) sfavore-vole al reo.
E, tuttavia, assolutizzare detta circostanza rischia oltre che di confliggere con le altre fonti che si occu-pano invece di individuare le possibili circostanze che permettano un seppur limitato reinserimento del detenuto nella società, anche di mancare gli stessi obbiettivi perseguiti dalla norma, nella misura in cui la collaborazione potrebbe essere ad esempio del tutto ingannevole, oppure potrebbe essere non con-cretamente realizzabile per mancanza di informazioni del detenuto e così via. In altri termini, la man-canza di collaborazione con la giustizia, dopo attenta riflessione, non sembra un indice certo della mancata rieducazione del detenuto se non valutata adeguatamente rispetto al caso specifico e posta a confronto con altre circostanze utili alla decisione.
Stressando la questione, il problema centrale che ne emerge riguarda, dunque, la compatibilità con il sistema nazionale (e sovranazionale) delle fonti di una normativa che ancori la decisione di mantenere la carcerazione ad una sola circostanza, ossia la collaborazione del detenuto con l’autorità giudiziaria. Facendo discendere direttamente dalla mancata collaborazione la non concedibilità del beneficio della liberazione condizionale anche in presenza di ulteriori elementi che potrebbero far propendere per il contrario.
Tra i profili di interesse emerge la compatibilità di siffatto sistema con l’art.3 della Convenzione Edu, e con la conseguente giurisprudenza della Corte di Strasburgo (in particolare v. Sentenza Viola contro Italia), che ha considerato non incompatibile con la fonte convenzionale la previsione della carcerazio-ne perpetua a condizione che la legislazione preveda in astratto mezzi di riducibilità della pena concre-tamente applicabili. Posizione, quest’ultima, peraltro convergente con una consolidata giurisprudenza costituzionale italiana che pure impone di non vanificare gli effetti rieducativi della pena in ragione di elementi che non possono essere intesi in senso univoco. Di tal che la stessa decisione di non collabo-rare del detenuto, è stata in un primo tempo considerata dalla stessa Corte come indice della volontà del detenuto di non recidere il collegamento mafioso (v. ad esempio, Corte cost, sent. 135/2003); ma, successivamente, si è corretto il tiro riconoscendo che tale indice non può essere considerato come inequivoco, così come la collaborazione non costituisce indice inequivoco di abbondono del legame mafioso (v., da ultimo, Corte cost., sent. 253/2019).
Ne deriva che la possibilità di contemperare l’influsso delle fonti e dei principi che interessano la ma-teria si lega alla necessità di provvedere all’elaborazione di un sistema normativo pur rigoroso che, tut-tavia, permetta al magistrato di sorveglianza di valutare compiutamente il percorso rieducativo del con-dannato; possibilità che non sembra esser offerta in presenza di presunzioni assolute come quella in-dubbiata.
La delicatezza della questione è, peraltro, palpabile nella misura in cui le considerazioni svolte in pas-sato dalla Corte riguardavano l’ipotesi ben meno rilevante del permesso premio e non un istituto che, in definitiva, potrebbe poi condurre alla liberazione del condannato.
Il che accresce la significatività del monito rivolto al legislatore (non foss’altro perché, in pratica, il su-peramento della presunzione correrebbe, all’opposto, il rischio di equiparare il trattamento dei detenuti non collaboranti a quello dei detenuti non collaboranti). Si può, dunque, osservare che sebbene la po-sizione della Corte propenda per una revisione radicale dell’attuale sistema, un intervento esclusiva-mente demolitorio della stessa pure avrebbe corso il rischio di infrangere il delicato equilibrio tra le opposte esigenze, che merita, invece, la più attenta riflessione del legislatore.
La necessità di un serrato confronto sul tema è, peraltro, evocata dalla stessa Corte che sottolinea come l’interlocuzione sul punto sia tutt’altro che interrotta: “Un resoconto delle conclusioni acquisite e del-le intenzioni di riforma maturate è offerto dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere -istituita con l’omonima legge 7 agosto 2018, n. 99-, che ha rassegnato, in data 20 maggio 2020, una «Relazione sull’istituto di cui all’articolo 4-bis della legge n. 354 del 1975 in materia di ordinamento penitenziario e sulle conseguenze derivanti dalla sentenza n. 253 del 2019 della Corte costituzionale». In argomento, inoltre, risultano presentate proposte di legge (XVIII legislatura, A.C. n. 1951), e anche il Governo, nel riferire per mezzo della Rappresentanza permanente d’Italia presso il Consiglio d’Europa circa lo stato di esecuzione del-la sentenza Viola contro Italia, ha evocato una situazione “dinamica” di sviluppo della disciplina in questione. Questi dati mostrano con eloquenza la necessità che l’intervento di modifica di aspetti es-senziali dell’ordinamento penale e penitenziario – che l’ordinanza di rimessione sollecita questa Corte a compiere – sia, in prima battuta, oggetto di una più complessiva, ponderata e coordinata valutazione legislativa”.
Ancora sul piano del necessario coordinamento legislativo in materia, una pronuncia immediatamente demolitoria della Corte avrebbe potuto creare gravi incongruenze sistematiche poiché l’art. 4 bis, or-din. penit., riguarda anche altri istituti premiali (parimenti non attivabili in base all’attuale normativa); ed anche ulteriori reati quali quelli legati al terrorismo e taluni reati sessuali per i quali è previsto il me-desimo trattamento.
In definitiva, dunque, la Corte da un lato evidenzia i profili di illegittimità dell’attuale normativa, e dall’altro riconosce al legislatore il compito di riordinare la materia; mentre il vero monito riguarda il proprio controllo ex post sui risultati che saranno poi offerti alla nuova, incombente, valutazione della Consulta.