Sent. n. 137/2021 - giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale
Deposito del 02/07/2021; Pubblicazione in G. U. 07/07/2021 n. 27.
Il rimettente premette che le questioni traggono origine dal giudizio concernente la legittimità dei provvedimenti di sospensione, prima, e di revoca, poi, delle prestazioni assistenziali concesse, adottati dall’INPS ai sensi dell’art. 2, comma 61, della legge n. 92 del 2012, giudizio in cui la parte ricorrente ha sollevato la questione di legittimità costituzionale della suindicata disposizione sotto diversi profili.
Con tale sentenza la Corte costituzionale ha riconosciuto lo “statuto d’indegnità” definito dal legislatore che pone in pericolo la stessa sopravvivenza dignitosa del condannato, privandolo del minimo vitale, in violazione dei principi costituzionali (artt. 2, 3 e 38 Cost.), su cui si fonda il diritto all’assistenza.
L’art. 38 Cost., infatti, prevede che ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale, dettando un principio assoluto che non ammetterebbe deroghe o eccezioni, in stretto collegamento con l’art. 2 Cost., che tutela e garantisce i diritti inviolabili della persona, imponendo un dovere di solidarietà economica e sociale non solo agli individui, ma anche e soprattutto allo Stato.
È pur vero che i condannati per i reati di cui all’art. 2, comma 58, della legge n. 92 del 2012 hanno gravemente violato il patto di solidarietà sociale che è alla base della convivenza civile. Tuttavia, attiene a questa stessa convivenza civile che ad essi siano comunque assicurati i mezzi necessari per vivere. Ciò non accade qualora la revoca riguardi il condannato ammesso a scontare la pena in regime alternativo al carcere, che deve quindi sopportare le spese per il proprio mantenimento, le quali, ove egli sia privo di mezzi adeguati, potrebbero essere garantite solo dalle ricordate provvidenze pubbliche.
Proprio tale diversità di effetti della revoca delle prestazioni sociali su chi si trova in stato di detenzione domiciliare (o in altra forma alternativa di espiazione della pena) rispetto a chi è detenuto in carcere determina una violazione anche dell’art. 3 Cost., trattando allo stesso modo situazioni soggettive del tutto differenti.
Tener conto di tale diversità di situazioni, anzi, risulta presumibilmente coerente con la stessa volontà dell’intervento legislativo, che ha stabilito l’incompatibilità tra determinate provvidenze pubbliche e l’essere stati condannati in via definitiva per reati giudicati particolarmente gravi. È ben possibile, infatti, che per tali reati il legislatore abbia pensato alla sola detenzione in carcere come regime di espiazione della pena, senza quindi prevedere deroghe allorché ricorrano peculiari situazioni, legate all’età avanzata del condannato, alla presenza di precarie condizioni di salute, nonché, per particolari reati quali quelli di cui al giudizio a quo, anche alla collaborazione con la giustizia.
Risulta così violato lo stesso principio di ragionevolezza, perché l’ordinamento valuta un soggetto meritevole di accedere forme alternative di detenzione, ma lo priva poi dei mezzi per vivere, ottenibili, in virtù dello stato di bisogno, solo dalle prestazioni assistenziali.
La Corte, pertanto, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 61, della legge n. 92 del 2012, nella parte in cui – richiamando il comma 58, primo periodo – prevede la revoca delle prestazioni, comunque denominate in base alla legislazione vigente, quali l’indennità di disoccupazione, l’assegno sociale, la pensione sociale e la pensione per gli invalidi civili, nei confronti di coloro che scontino la pena in regime alternativo alla detenzione in carcere.