Sentenza della Corte di giustizia (Seconda Sezione) del 13 ottobre 2022, S.C.R.L., Causa C‑344/20, ECLI:EU:C:2022:774
Specificando quanto già affermato nelle precedenti sentenze Achbita e WABE, la Corte di Giustizia è tornata sul tema della compatibilità con il diritto UE del divieto di indossare simboli religiosi imposto dal regolamento interno di un’impresa. In particolare, essa ha chiarito che la religione e le convinzioni personali non possono considerarsi due motivi di discriminazione distinti ai sensi della direttiva 2000/78, relativa alla parità di trattamento in materia di occupazione e di lavoro, ma costituiscono invece un solo e unico motivo di discriminazione. Inoltre, la Corte ha specificato che, nonostante la direttiva ponga dei requisiti minimi e consenta agli Stati membri di mantenere o introdurre nel proprio ordinamento disposizioni più favorevoli, questo margine di discrezionalità non può estendersi fino a consentire agli Stati membri di qualificare, nella propria normativa nazionale di trasposizione della direttiva, la religione e le convinzioni filosofiche come due motivi di discriminazione distinti.
La sentenza in commento si colloca nella ormai significativa giurisprudenza, inaugurata con le pronunce Achbita[1] e Bougnaoui[2] e successivamente sviluppata con la sentenza WABE[3], in cui la Corte di Giustizia si è pronunciata in relazione alla compatibilità con il diritto dell’UE e in particolare con la direttiva 2000/78[4] in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, del divieto imposto dal regolamento di un datore di lavoro privato di indossare simboli religiosi sui luoghi di lavoro. La decisione qui commentata trae origine dalla vicenda di LF, una donna musulmana abituata ad indossare il velo islamico che, durante il colloquio per lo svolgimento di uno stage non retribuito nell’ambito degli studi di un’azienda operante nell’ambito di servizi informativi (S.C.R.L.), aveva dichiarato di non essere disposta a togliersi il velo per rispettare la disposizione del regolamento aziendale che vietava a tutti i dipendenti di astenersi da qualsiasi manifestazione, verbale o tramite l’abbigliamento, delle proprie convinzioni religiose, filosofiche o politiche. A fronte della mancanza di qualsiasi riscontro circa l’esito del colloquio, la donna si era dichiarata disposta a indossare un diverso tipo di copricapo, ma tale offerta non era stata accolta dall’azienda; LF aveva quindi presentato ricorso davanti al giudice del rinvio lamentando che la mancata conclusione del contratto di tirocinio costituisse una discriminazione basata sulle proprie convinzioni religiose.
Pur richiamando la precedente giurisprudenza in materia, il giudice del rinvio chiedeva alla Corte di Giustizia di svolgere alcune ulteriori precisazioni. In particolare, con la sua prima questione pregiudiziale, egli chiedeva alla Corte di specificare se, ai fini dell’art. 1 della direttiva[5], le convinzioni religiose e filosofiche siano da qualificarsi come un unico motivo di discriminazione o se, al contrario, esse costituiscano due criteri distinti. La questione appare di particolare rilevanza poiché, come correttamente evidenziato dal giudice a quo, essa incide sulle modalità di individuazione della cerchia delle persone tra le quali svolgere la comparazione necessaria ad accertare l’esistenza di una discriminazione diretta.
La Corte ha risolto la questione statuendo che la religione e le convinzioni personali devono considerarsi «un solo e unico motivo di discriminazione» ricomprendente tanto le une quanto le altre (punto 29). Per giungere a tale conclusione, essa ha fatto innanzitutto riferimento alla formulazione dell’art. 1 della direttiva 2000/78 nonché delle disposizioni di diritto primario rilevanti, quali gli artt. 19 TFUE e 21 della Carta, in cui si menzionano «la religione o le convinzioni personali». Peraltro, già nella sentenza WABE, tali considerazioni avevano indotto la Corte a evidenziare come la religione o le convinzioni personali costituiscano due facce del medesimo e univo motivo di discriminazione.
Con la terza questione pregiudiziale, affrontata dalla Corte per seconda, il giudice del rinvio chiedeva se la disposizione di un regolamento aziendale quale quella rilevante nel caso di specie costituisca una discriminazione diretta basata sulla religione nei confronti di quei lavoratori che manifestino la propria religione indossando un particolare simbolo o un abbigliamento. Confermando quanto già affermato nelle sentenze Achbita e WABE, la Corte ha ribadito che, stante il fatto che ognuno può avere una convinzione religiosa o filosofica, qualora la disposizione del regolamento aziendale – come nel caso di specie – riguardi «in maniera generale e indiscriminata» la manifestazione di ogni convinzione religiosa o personale e sia applicata in modo identico a tutti i dipendenti, essa non costituisce una discriminazione diretta vietata dall’art. 2, par. 2, lett. a) della direttiva 2000/78 (punto 33)[6]. Richiamando la propria precedente giurisprudenza, la Corte ha ribadito che un divieto quale quello imposto dalla S.C.R.L. ai propri dipendenti può, tuttavia, costituire una discriminazione indiretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, vietata dall’art. 2, par. 2, lett. b) della direttiva[7], qualora risulti che il divieto, pur essendo apparentemente neutro, comporti un particolare svantaggio per gli appartenenti a una determinata religione. Nel solco di quanto già statuito in Achbita e WABE, la Corte ha confermato che tale differenza di trattamento non costituisce una discriminazione indiretta qualora risulti oggettivamente giustificata da una finalità legittima e sia perseguita con mezzi appropriati e necessari. Per quanto concerne in particolare tale legittima finalità, la volontà del datore di lavoro di assicurare una politica aziendale di neutralità politica, religiosa e filosofica, deve ritenersi legittima in quanto riconducibile alla libertà di impresa, protetta dall’art. 16 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE. Ciononostante, tale volontà non è di per sé sola sufficiente a giustificare l’esistenza di una discriminazione indiretta poiché è necessario che sussista un’esigenza reale del datore di lavoro che quest’ultimo è tenuto a dimostrare. In tal modo, con la sentenza qui commentata la Corte ha nuovamente ribadito l’approccio particolarmente restrittivo, inaugurato nelle sentenze Achbita e WABE, in relazione al divieto di utilizzare simboli religiosi sancito da un regolamento aziendale. A differenza di tali pronunce, nella decisione qui commentata la Corte ha evidenziato che la necessità di ravvisare un’esigenza reale del datore di lavoro di perseguire una politica aziendale di neutralità, quale condizione perché una discriminazione indiretta possa considerarsi oggettivamente giustificata, costituisce un’interpretazione «ispirata dall’intento di incoraggiare per principio la tolleranza e il rispetto, nonché l’accettazione di un maggior grado di diversità» (punto 41). Si tratta di una precisazione con cui i giudici di Lussemburgo hanno colto un interessante spunto delle Conclusioni dell’Avvocato generale Medina[8] e, pur mantenendo la prospettiva restrittiva di cui si è detto, sembrano aver avvertito la necessità di dover tenere conto delle conseguenze che la soluzione adottata può avere nei confronti dei lavoratori i cui precetti religiosi impongono di utilizzare un determinato abbigliamento religioso.
Con la seconda questione pregiudiziale, esaminata per ultima dalla Corte, quest’ultima è stata chiamata a pronunciarsi in relazione al margine di discrezionalità di cui gli Stati membri godono rispetto alla materia disciplinata dalla direttiva. Come emerge dalle sue disposizioni, essa mira infatti a definire requisiti minimi riguardo alla parità di trattamento, rispetto ai quali gli Stati membri mantengono la facoltà di introdurre o mantenere disposizioni più favorevoli di quelle previste (considerando 28 e art. 8). Più specificatamente, il giudice del rinvio chiedeva di chiarire se il diritto UE e, in particolare l’art. 1 della direttiva 2000/78, consenta di qualificare come disposizione più favorevole, rientrante nella discrezionalità riconosciuta agli Stati membri, una normativa nazionale di trasposizione che qualifichi le convinzioni religiose e le convinzioni filosofiche come motivi di discriminazione distinti.
Anche la risposta a tale questione si inserisce nel solco della sentenza WABE di cui costituisce una ulteriore e rilevante specificazione. In quell’occasione, infatti, la Grande Sezione della Corte aveva chiarito che le norme costituzionali nazionali in materia di tutela della libertà religiosa sono qualificabili come disposizioni più favorevoli, ai sensi della direttiva, e possano rilevare come tali nell’ambito della valutazione che il giudice nazionale è chiamato a compiere al fine di valutare l’esistenza di una giustificazione legittima a fronte di una discriminazione indirettamente basata sulla religione. La Corte aveva infatti evidenziato che, stante i diversi approcci esistenti tra gli Stati membri circa il ruolo da riconoscere alla religione e alle convinzioni personali, la conciliazione tra la tutela della libertà di pensiero, di coscienza e di religione e gli obiettivi legittimi che possono giustificare una disparità di trattamento non è stata definita dal legislatore dell’Unione, bensì lasciata agli Stati membri e, in particolare, ai giudici nazionali. In tale quadro, la Corte aveva pertanto concluso che, nell’ambito della ponderazione tra i diversi interessi coinvolti, la direttiva 2000/78 non preclude a un giudice nazionale di riconoscere, in ragione del proprio diritto interno, una tutela maggiore alla libertà di religione e coscienza rispetto alla libertà di impresa di cui all’art. 16 della Carta cui, come già richiamato, deve ricondursi altresì la volontà del datore di lavoro di perseguire una politica di neutralità aziendale.
Con la sentenza S.C.R.L., la Corte ha chiarito che il margine di discrezionalità riconosciuto agli Stati membri non può estendersi fino a consentire ai giudici nazionali di qualificare come motivi di discriminazione differenti la religione e le convinzioni personali che, come chiarito in risposta alla prima questione, devono invece considerarsi un unico motivo di discriminazione. Richiamando la natura tassativa dei motivi elencati dall’art. 1 della direttiva 2000/78, la Corte ha evidenziato che tale scissione, ad opera del giudice nazionale, metterebbe in discussione «il testo, il contesto e la finalità» dell’unico motivo cui sono riconducibili la religione e le convinzioni personali (punto 54). La soluzione opposta andrebbe, infatti, a introdurre «un approccio segmentato» rispetto al motivo de qua, creando dei «sottogruppi di dipendenti» e pregiudicando il quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro definito dalla direttiva (punto 55).
Ad avviso della Corte, tale interpretazione non comporta un abbassamento del livello di tutela nei confronti delle discriminazioni religiose in ragione del fatto che, in sede di ponderazione dei diversi interessi in gioco, i giudici nazionali possono interpretare le disposizioni nazionali nel senso di riconoscere alle convinzioni religiose lo stesso livello di tutela assicurato alle convinzioni filosofiche. Più specificatamente, la Corte ha respinto l’argomentazione del giudice del rinvio secondo cui la qualificazione delle convinzioni religiose e personali come unico motivo di discriminazione comporterebbe una riduzione della tutela poiché, nell’ambito dell’accertamento relativo all’esistenza di un trattamento discriminatorio, precluderebbe di operare un confronto tra i lavoratori con una convinzione religiosa, da un lato, e i lavoratori con una convinzione filosofica, dall’altro. A questo proposito, oltre ad aver evidenziato che tale aspetto rileva solo nel caso di una discriminazione diretta – ipotesi, invece, ritenuta inesistente nel caso di specie – la Corte ha evidenziato come nella sentenza WABE, richiamando l’approccio adottato nella pronuncia VL[9], essa abbia affermato che l’esistenza di una discriminazione basata sulla religione o le convinzioni personali presuppone esclusivamente che il trattamento sfavorevole o lo svantaggio sofferto siano tali «in funzione» della religione o delle convinzioni personali. Al contrario, l’obiettivo perseguito dalla direttiva non preclude che la cerchia di persone rispetto alle quali sia effettuata la comparazione, al fine di individuare l’esistenza di una discriminazione fondata sulla religione o le convinzioni personali, sia limitata alle sole persone che non aderiscono a nessuna religione o convinzione personale. Ne consegue che la qualificazione della religione e delle convinzioni personali come criterio unico non osta allo svolgimento del giudizio comparativo né tra dipendenti con una convinzione religiosa e quelli con convinzioni personali, né tra dipendenti con convinzioni religiose diverse.
Al di là di tali considerazioni, la Corte è giunta a limitare il margine di discrezionalità riconosciuto agli Stati membri dalla direttiva, escludendo che esso possa estendersi fino a consentire a una normativa nazionale di attuazione della direttiva di qualificare la religione e le convinzioni filosofiche come due motivi di discriminazione distinti, con una argomentazione che appare estremamente stringata. In particolare, al contrario dell’Avvocato generale[10], la Corte non ha in alcun modo considerato l’incidenza che la protezione autonoma della religione quale criterio autonomo di discriminazione può avere sulla competenza degli Stati membri nel definire il proprio approccio rispetto al ruolo riconosciuto alla religione e alle convinzioni religiose all’interno società e nell’assicurare, in tal modo, un maggiore favor nei confronti della diversità religiosa. Più in generale, stupisce l’assenza di qualsiasi riferimento ai criteri individuati nella sentenza Melloni[11] circa il rapporto tra gli standard di tutela definiti dal legislatore dell’Unione e da quello nazionale.
[1] Corte di Giustizia, sentenza del 14 marzo 2017, G4S Secure Solutions, Causa C‑157/15, ECLI:EU:C:2017:203.
[2] Corte di Giustizia, sentenza del 14 marzo 2017, Bougnaoui e ADDH, Causa C-188/15, ECLI:EU:C:2017:204.
[3] Corte di Giustizia, sentenza del 15 luglio 2011, WABE, Cause riunite C-804/18 e C-341/19, ECLI:EU:C:2021:594.
[4] Direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.
[5] Art. 1, direttiva 2000/78/CE: «La presente direttiva mira a stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l'età o le tendenze sessuali, per quanto concerne l'occupazione e le condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento».
[6] Art. 2, par. 2, lett. a) della direttiva 2000/78: «sussiste discriminazione diretta quando, sulla base di uno qualsiasi dei motivi di cui all'articolo 1, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra in una situazione analoga».
[7] Art. 2, par. 2, lett. b) della direttiva 2000/78 «sussiste discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di un particolare handicap, le persone di una particolare età o di una particolare tendenza sessuale, rispetto ad altre persone, a meno che: i) tale disposizione, tale criterio o tale prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari; o che ii) nel caso di persone portatrici di un particolare handicap, il datore di lavoro o qualsiasi persona o organizzazione a cui si applica la presente direttiva sia obbligato dalla legislazione nazionale ad adottare misure adeguate, conformemente ai principi di cui all'articolo 5, per ovviare agli svantaggi provocati da tale disposizione, tale criterio o tale prassi».
[8] Conclusioni dell’Avvocato Generale Laila Medina, presentate il 28 aprile 2022, Causa C‑344/20, LF contro SCRL, ECLI:EU:C:2022:328, punto 59.
[9] Corte di Giustizia, sentenza del 26 gennaio 2011, VL contro Szpital Kliniczny im. dra J. Babińskiego Samodzielny Publiczny Zakład Opieki Zdrowotnej w Krakowie, Causa C-16/19, ECLI:EU:C:2021:64.
[10] Conclusioni dell’Avvocato Generale Laila Medina, cit., punto 59.
[11] Corte di Giustizia, sentenza del 26 febbraio 2013, Melloni, Causa C‑399/11, ECLI:EU:C:2013:107, punto 60.