Sent n. 110/2023 – giudizio di legittimità costituzionale in via principale
Deposito del 05/06/2023 – Pubblicazione in G.U. del 07/06/2023, n. 23
Motivo della segnalazione
La sentenza in commento è resa nell’ambito di un ricorso in via principale, promosso dallo Stato nei confronti degli artt. 4; 7, commi da 5 a 14 e 18; e 11 della legge della Regione Molise 24 maggio 2022, n. 8 (Legge di stabilità regionale anno 2022).
L’impugnazione dello Stato si rivolge a quattro distinte questioni, tutte accolte dal Giudice delle leggi, che ha l’occasione sia di confermare importanti principi, più o meno recentemente già sanciti, sia di intervenire in maniera innovativa sul tema del rapporto tra contenuto vago/oscuro della legge e principio di uguaglianza. Dal punto di vista delle fonti, proprio l’ultimo aspetto richiamato merita particolare attenzione in quanto nell’annullare la disposizione impugnata la Corte utilizza il parametro dell’art. 3 cost., sub specie di difetto di ragionevolezza, in maniera autonoma e più ampia che in passato.
La difesa statale, provvedeva ad impugnare l’art. 7, comma 18, della legge regionale là dove prevedeva che: “nelle fasce di rispetto di tutte le zone e di tutte le aree di piano, in presenza di opere già realizzate e ubicate tra l’elemento da tutelare e l’intervento da realizzare, quest'ultimo è ammissibile previa V. A. per il tematismo che ha prodotto la fascia di rispetto, purché lo stesso intervento non ecceda, in proiezione ortogonale, le dimensioni delle opere preesistenti o sia compreso in un’area circoscritta nel raggio di mt. 50 dal baricentro di insediamenti consolidati preesistenti”. Norma, quest’ultima, impugnata dallo Stato in riferimento al principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., nonché agli artt. 9 e 117, secondo comma, lettera s), Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 135, 143 e 145 cod. beni culturali.
Invero, in questo particolare caso, le osservazioni della Corte, che pur sono espresse in materia sensibile quale la tutela dell’ambiente e del paesaggio, esulano dalla materia oggetto di scrutinio per rivolgersi direttamente, censurandolo, al drafting legislativo, colpito da radicali e innovative censure di illegittimità.
Testimonianza di ciò è ictu oculi rinvenibile nel fatto che la Corte ritiene “assorbite le questioni formulate in riferimento agli artt. 9 e 117, secondo comma, lettera s), Cost., il vaglio della cui fondatezza presupporrebbe d’altronde un chiarimento interpretativo circa la portata della disposizione, che è però impossibile”. In altri termini, ad indurre la Corte all’annullamento non è la violazione di uno specifico parametro costituzionale che regola la materia, nel caso la tutela del paesaggio o dell’ambiente ovvero la ripartizione delle competenze Stato/regioni, in quanto tale esame risulta del tutto impedito da una formulazione della norma talmente inintellegibile da rendere non praticabile ogni vaglio di costituzionalità che consegua dalla comparazione degli interessi costituzionali in gioco.
Facendo un passo indietro, infatti, la difesa statale, impugnava la norma prima di tutto per violazione dell’art.3 Cost. e del principio di ragionevolezza, in quanto essa risultava di oscura comprensione tanto che il ricorrente, prima dell’impugnazione, aveva provveduto a richiedere chiarimenti circa il significato da attribuire ad espressioni contenute nella norma quali “piano”, “opere da realizzare e ubicate tra l’elemento da tutelare e l’intervento da realizzare”, “tematismo”, “V.A.” (valutazione impatto ambientale o valutazione ambientale strategica?, poi addirittura divenuta nelle spiegazioni articolate in udienza dalla difesa regionale “Verifica di Ammissibilità” ). A tali puntuali richieste seguivano, in effetti, delucidazioni (da parte della regione) ancor più incomprensibili che, a giudizio del ricorrente, supportavano norme dal “significato non intellegibile, in aperto contrasto con il canone della ragionevolezza, imposto dall’art.3 della Costituzione”.
A giudizio della Corte tale oscurità, già stata oggetto di dibattito e rilievi nel corso di approvazione della legge in Consiglio regionale, permane anche a seguito del deposito della difesa regionale e della discussione d’udienza, non considerando affatto irrilevante la circostanza che la norma in questione “non modifica né si inserisce in alcuna legge regionale preesistente, dettando una disciplina che appare consentire nuovi interventi edilizi in deroga ai piani esistenti”.
A questo proposito si può rilevare come, con un atteggiamento di self restraint nei confronti del legislatore, la Corte non abbia omesso di considerare quanto sostenuto nella difesa regionale, ossia che la “difficoltà di lettura” della norma non costituirebbe motivo di illegittimità costituzionale ma “presupposto per l’attività dell’interprete nell’applicazione della legge”. Osservazione questa, a parere di chi scrive, non destituita di fondamento in un sistema legislativo (e amministrativo) che è andato oggettivamente complicandosi, anche per la frammentazione e confusione tra fonti, in cui lo stesso intervento del giudice bouche de la loi assume il significato non di (sufficientemente prevedibile) dichiarazione del contenuto delle leggi bensì, sempre più, di imprevedibile interpretazione di leggi che si fanno sempre più oscure, con forse eccessiva valorizzazione del ruolo “creativo” del giudice.
Proprio la fondamentale funzione di interpretazione, nel suo rapporto con la legge scritta, viene tenuto presente dalla Corte nel caso di specie, per concludere per il radicale contrasto della norma indubbiata con il generale parametro della ragionevolezza contenuto nell’art.3 della Costituzione.
La Consulta si cura, infatti, di riaffermare il principio secondo cui il contenuto precettivo di una norma può evincersi anche alla luce dei lavori preparatori al fine di cogliere l’intenzione del legislatore, di altre norme che vi si riconnettono (cosa che qui non accade), ma deve soprattutto derivare dal “significato proprio delle parole secondo la connessione di esse” (art.11 Preleggi), e pertanto sancisce come ogni attività di interpretazione risulti impraticabile quando una disposizione abbia un significato tanto inintellegibile da violare il principio di ragionevolezza di cui all’art.3 della Costituzione.
Questa posizione risulta di estremo interesse soprattutto in quanto i precedenti della Corte sul punto, anche risalenti, riguardano essenzialmente norme penali rispetto alle quali il principio del favor rei impone una maggiore chiarezza nel definire il precetto della norma incriminatrice (Corte cost., sent. 96/1981; sent.185/1992; sent.34/1995; sent.25/2019), e si pone nel solco delle pronunce riguardanti l’incertezza normativa soprattutto derivante da leggi regionali inidonee ad indicare all’amministrazione la disciplina effettivamente vigente (Corte cost., sent.364/210; sent.70/2013).
La discontinuità rispetto anche al recente passato va, dunque, individuata nel fatto che la Corte aveva optato per l’annullamento di quelle sole leggi oscure, perlopiù nei casi in cui la difesa del principio di legalità e della certezza del diritto risultasse connessa alle materie in cui entrano in gioco le libertà personali, declinando il ruolo di garante della coerenza e intellegibilità del sistema normativo (Corte cost., sent 182/2007). Con ciò facendo intendere che l’intervento censoreo della Corte si rende necessario in presenza di norme che incidano negativamente su diritti e materie coperti dalla protezione costituzionale, e per la non sussistenza di un generale parametro/obbligo (invero, vago) di ragionevolezza della legge in sé desumibile dall’art.3 della Costituzione.
Sotto questo profilo, in effetti, la pronuncia in parola segna un’evoluzione i cui esiti non appaiono prevedibili in quanto collegati alla maggiore o minore volontà della Consulta di intervenire sul sistema delle leggi anche al di là dell’annullamento di una singola norma dal contenuto oscuro. Possibilità che non sembra intravedersi all’orizzonte anche per la opinabilità degli stessi concetti di “oscurità” e “inintellegibilità” che probabilmente impediranno alla Corte di entrare in conflitto con il legislatore se non nei casi più gravi, circoscritti e conclamati.
Ciononostante, la Corte ha, comunque, modo di enunciare un punto fermo che vale anche da monito per il legislatore nella misura in cui afferma che “l’esigenza di standard minimi di intellegibilità delle proposizioni normative” sia particolarmente stringente nella materia penale (e delle misure di prevenzione), ma ciò non esclude affatto che la medesima esigenza non sussista anche per le norme che regolano i rapporti pubblica amministrazione/cittadini e per quelle che regolano i rapporti reciproci tra i cittadini.
Ne consegue che il parametro della ragionevolezza ex art.3 Cost. può essere generalmente utilizzato, sebbene con i limiti di cui abbiamo appena detto, a tutela della legittima aspettativa dei cittadini a che “la legge definisca ex ante, e in maniera ragionevolmente affidabile, i limiti entro i quali i loro diritti e interessi legittimi possono trovare tutela”.
A sostegno di questa posizione la Corte osserva che una legge radicalmente oscura, come quella offerta al suo esame, non vincola affatto il potere amministrativo e quello giudiziario così violando gli stessi principi di legalità e separazione dei poteri con conseguente violazione del principio di parità di trattamento dei consociati consacrato nell’art.3 Cost., oltreché di quello della certezza del diritto.
Nel dichiarare, dunque, di non voler affatto contraddire né il processo giurisprudenziale di specificazione di leggi anche necessariamente complesse né, a ben vedere, il dipanarsi della discrezionalità amministrativa anch’essa spesso alle prese con concetti giuridici vaghi (sul tema v. già H. Ehmke, “Discrezionalità” e “concetto giuridico indeterminato” nel diritto amministrativo, Napoli, 2011), la Corte rivendica a sé la possibilità di dichiarare l’illegittimità costituzionale di norme talmente oscure da risultare (a suo giudizio) non sottoponibili a tali processi ermeneutici in quanto prive dei “requisiti minimi di razionalità dell’azione legislativa”.
La forza innovativa della pronuncia in esame può, dunque, essere individuata in un più esteso utilizzo del parametro della ragionevolezza della legge ex art. 3 Cost, sub specie di divieto di eccessiva oscurità della stessa, anche a prescindere dalla sussistenza della violazione di altri parametri costituzionali riguardanti la materia, sulla base della considerazione che l’assoluta assenza di intellegibilità della norma costituisce un vizio di legittimità costituzionale autonomo. Tuttavia, prima di proseguire, pare opportuno segnalare che la Corte appare ben conscia che un siffatto parametro sarebbe di difficile gestione da parte della stessa Consulta e, dunque, sembra voler circoscriverne il possibile utilizzo ai casi, quali quello sottoposto al suo esame, in cui risulti del tutto conclamata l’assoluta e radicale inintellegibilità della norma; come si dirà in conclusione, allora, il senso della pronuncia più che ad ampliare il sindacato della Corte a questioni che sfuggono alla propria capacità di risoluzione, va ricercato nel monito che, in senso ampio, la Corte rivolge al legislatore.
E difatti, la Corte sancisce, con ogni cautela del caso e rivolgendo forse non a caso le proprie censure ad una ipotesi che interessa il legislatore regionale (e non quello nazionale), che il vizio in questione è rilevabile anche al di fuori dei casi che riguardano più da vicino le libertà personali.
Del resto, val la pena di osservare come, in presenza di un disposto normativo dalla vaghezza estrema, non sia nemmeno possibile escludere a priori che questo, magari combinandosi con altri, nelle operazioni ermeneutiche che, pur guidate dai criteri delle Preleggi, possono sempre condurre a esiti non preventivati, finisca per incidere, ledendoli, su diritti fondamentali (tutelati al pari di quelli che presidiano la materia penale).
E, forse, per fornire di maggiore autorevolezza tale assunto la Corte avverte il bisogno di richiamare esperienze costituzionali che pure hanno percorso la medesima strada come il Conseil costitutionnel francese e il Tribunale costituzionale federale tedesco che da tempo censurano disposizione normative prive di requisiti minimi di intellegibilità per il cittadino, la pubblica amministrazione, il giudice.
Esperienze, peraltro, da situarsi in un quadro europeo caratterizzato da una giurisprudenza che, nel definire il principio di legalità, guarda ai requisiti sostanziali di qualità della legge, identificati nella sua accessibilità, prevedibilità e determinatezza (ex multis Corte di giustizia Ue, GC, 8 aprile 2014, cause riunite C‑293/12 e C‑594/12, Digital Rights Ireland; 5 dicembre 2017, causa C-42/17, M.A.S. (Taricco II)).
Significativo anche il fatto che la Corte sottolinei che la norma in parola, in quanto radicalmente oscura, determina illegittimità che si dispiegano in senso pluridirezionale. Nei confronti dell’amministrazione in quanto le impediscono di poter contare su un criterio guida che indichi con certo grado di precisione se assentire o meno ad un’istanza del privato, in violazione del principio della legalità amministrativa; nei confronti del cittadino, appunto, per le conseguenze discriminatorie in termini di parità di trattamento che possono derivare da una applicazione non univoca della legge; sul versante giurisdizionale in quanto al cittadino è precluso contrastare efficacemente l’eventuale uso arbitrario della discrezionalità amministrativa, il che a ben vedere si riversa sulla stessa attività del giudice, da una parte troppo libero di “interpretare”, dall’altra non messo nelle condizioni minime di applicare una legge dal contenuto non chiaro (v., sul versante della giustizia amministrativa, F. Monceri, Complessità e semplificazione amministrativa, Napoli, 2020, 38; A. Travi, Per un nuovo dialogo fra la dottrina e la giustizia amministrativa, in RTDP, 2/2015, 691 s.).
Il vizio della legge censurato dal giudice costituzionale richiama quello che il giudice amministrativo rileva nei casi di eccesso di potere per perplessità del provvedimento, così rimarcando come nel nostro ordinamento il tradizionale principio di legalità fondante il potere amministrativo si declina anche come principio di legalità costituzionale, fondamento e limite del potere legislativo.
L’indubbia rilevanza della pronuncia, attraverso la quale la Corte lancia un monito piuttosto severo al legislatore, per ora quello regionale, offre chiavi di lettura che si ricollegano al problema del peggioramento del drafting normativo e, più in generale, della qualità della normazione.
Un problema che la Corte costituzionale può invero segnalare o, persino in limitati casi risolvere, seppur con i mezzi che le sono consentiti dal ruolo che svolge nell’ordinamento e dalle pressanti regole che sovrintendono al suo funzionamento.
A questo proposito si può dire che il caso di specie riguarda una disposizione specifica talmente incomprensibile dall’offrire lo spunto per segnalare, annullandola per violazione dell’art.3 Costituzione, un problema che è in realtà assai più ampio.
In effetti, l’oscurità di una singola norma in un quadro legislativo denotato da un certo livello di chiarezza complessivo rappresenterebbe un problema minore e non stupisce che il Giudice delle leggi possa ravvisarne l’incostituzionalità ex art.3 Cost.
In realtà il problema è assai più vasto ed è forse, per questo, che la pronuncia in discorso può essere considerata come un monito rivolto a tutto campo al legislatore affinché si adoperi per recuperare una chiarezza di sistema che è andata da tempo perdendosi.
La complicazione del sistema delle leggi non riguarda, infatti, singole norme ma intere materie rispetto alle quali il quadro legislativo appare sempre più difficile da ricostruire per lo stratificarsi di discipline sempre più sparse in un sistema di fonti anche informali (e sovranazionali) che si fa sempre più fluido ed inintellegibile tanto per i cittadini che per il giudice. La semplificazione normativa, la delegificazione, e tutti gli altri strumenti che si sono tentati per reagire a questa situazione quali riassetti normativi, “testunificazione” e così via hanno ottenuto scarsi risultati, laddove nonostante i tentativi di stimolare i controlli sulla qualità della normazione la tecnica legislativa è andata peggiorando.
Tali problemi si sono amplificati sul versante della normazione amministrativa, e per conseguenza sulla stessa azione amministrativa, che da tempo incide profondamente sui diritti dei cittadini così come sull’attività imprenditoriale, problemi che si riversano negativamente sul versante giurisdizionale dando origine al c.d. rischio amministrativo.
Un problema di sistema che non può certo essere risolto con il pur sacrosanto annullamento di una singola norma inintellegibile da parte della Corte costituzionale cui va, comunque, riconosciuto il merito di aver voluto sollecitare il legislatore a prestare maggiore attenzione alla qualità della propria legislazione.