Mario Draghi, nel simposio dei banchieri a Jackson Hole dello scorso agosto, ha posto come condizione di una politica monetaria favorevole dell'UE, che gli Stati apprestino "riforme strutturali" ed ancora pochi giorni fa, in un'audizione al Parlamento europeo, ha ribadito che la ripresa economica dipende anche dalla realizzazione di riforme strutturali che in alcuni Paesi tardano a realizzarsi. In Italia i settori che richiedono un intervento innovatore sono sicuramente plurimi: dalla riforma del lavoro, a quella dell'amministrazione, dalla riforma della giustizia, a quella fiscale.
Nonostante queste oggettive priorità per il superamento di una crisi economica ormai da troppo tempo protrattasi in area EURO ed in particolare in Italia, si continua a parlare della centralità della riforma costituzionale ed elettorale come aspetto preliminare e, se si vuole, anche condizionante tutti gli altri interventi di riforma.
Questa particolare attenzione alle riforme costituzionali che proviene dal Presidente della Repubblica, dal Presidente del Consiglio e da varie sedi istituzionali, vede forse "tiepido" quello stesso Parlamento che deve provvedervi, ma che è anche il destinatario primo dell'innovazione. L'innata contraddizione derivante dall'immedesimazione fra riformatore e riformato rende complesso e non privo di ostacoli e freni tutto il processo di riforma costituzionale.
Ciò non ha escluso al Senato di approvare in prima lettura il testo del disegno di legge costituzionale presentato dal Governo, con una forte compressione dei lavori dell'Aula durante tutto il mese di luglio ed il completamento della discussione e delle votazioni l'8 agosto (S. 1429).
Il testo del disegno di legge, ora in discussione alla Camera (C. 2613), costituisce pertanto l'oggetto principale dei lavori raccolti in questo numero della Rivista.
L'occasione per il dibattito su questi temi è stato un nuovo incontro, svoltosi a Pisa l'8 settembre scorso, fra i docenti delle università toscane (Firenze, Pisa e Siena) sulla falsariga di quanto già avvenuto a Firenze nel mese di maggio, i cui contributi sono già stati pubblicati nel precedente numero di questa Rivista. Mentre nel primo incontro l'oggetto del dibattito era il disegno di riforma presentato dal governo e in fase di discussione in Commissione Affari costituzionali, nell'incontro di settembre l'oggetto era cambiato in modo significativo, prima con la nuova stesura uscita dalla Commissione e poi con gli emendamenti apportati in Aula.
La discussione è stata ovviamente ampia, non limitata al nuovo testo approvato, ma più in generale sul metodo e sull'opportunità della riforma, anche se la parte principale del dibattito e poi dei contributi pubblicati è costituita dall'individuazione dei profili che non convincono della riforma. L'obiettivo principale dell'incontro, ed ora della Rivista, è infatti quello di fornire un contributo al miglioramento del progetto di riforma in discussione alla Camera dei Deputati.
Le opinioni e le proposte di riforma del disegno di legge costituzionale sostenute dai vari relatori sono plurime e talvolta anche divergenti, ma un aspetto che forse accomuna molti interventi è quello della necessità di una maggiore chiarezza nella formulazione del testo, sia per la qualità lessicale usata, sia per la lunghezza delle norme, sia ed in particolare per la disomogeneità o incoerenza nella stesura di alcuni articoli. A questo riguardo, il lavoro di Saulle Panizza è indirizzato in modo specifico ad analizzare i punti di criticità sotto il profilo formale ed a cercare di fare chiarezza in ordine alla sistematica utilizzata, sottolineando la necessità di coordinamento tra le norme preesistenti e riformate (particolare attenzione su questi profili è contenuta anche nel contributo di Roberto Zaccaria).
Vi è poi prevalente accordo sull'inopportunità, o meglio illogicità di alcune modifiche introdotte con emendamenti in Aula, quale, ad esempio, la previsione di una competenza legislativa piena al Senato nelle "materie di cui all'articoli 29 e 32, secondo comma" (nuovo art. 55 comma 4), e sulle leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali di tutela delle minoranze linguistiche (nuovo art. 70). In particolare paiono irragionevoli tali emendamenti, perché la scelta di rendere bicamerali alcune materie, fra le tante possibili, non pare giustificata (Grisolia), o forse addirittura casuale, come ad esempio il riferimento non tanto al comma 1 dell'art. 32, ossia alla materia della salute in generale, che poteva avere un senso in quanto settore di competenza legislativa regionale, quanto invece quella dei trattamenti sanitari obbligatori, sui quali l'intervento dei rappresentanti dei Consigli regionali e comunali è privo di logica.
Quindi, se da un lato molti auspicano che si proceda a cambiamenti sostanziali sugli obiettivi della riforma, in ogni caso questa nuova fase dovrà costituire l'occasione per riformulare in modo più adeguato il testo anche solo da un punto di vista di drafting legislativo, in quanto, forse, in sede di coordinamento finale, contraddizioni, imprecisioni o non corrette formulazioni non potranno essere superate. Cosicché questa è la fase in cui, oltre alle modifiche sostanziali che verranno fatte e che molti dei relatori hanno auspicato e precisato, occorre porre particolare attenzione anche ai profili formali e di tecnica normativa.
I molti dubbi sollevati dai relatori sia di natura formale che sostanziale, spesso anche particolarmente critici, non hanno escluso che tutto il lavoro seminariale si sia rivolto ad un'attività collaborativa per individuare, sulla base del testo approvato al Senato, le proposte di modifica.
Come si è detto, potrebbe apparire un controsenso, dinanzi alle tante carenze della legislazione e più in generale di tutta la situazione italiana, bloccare l'attività di un Parlamento già in sofferenza con un processo di riforma costituzionale. In realtà proprio tale riforma ed in particolare il superamento del bicameralismo possono costituire lo strumento per raggiungere anche quelle riforme strutturali a cui si faceva prima riferimento. Pare quasi scontata l'affermazione che l'attuale assetto e rapporto fra gli organi non consentono un buon funzionamento del potere legislativo e quindi una difficoltà per le decisioni politiche di realizzarsi. In particolare la presenza di una seconda Camera che non è più solo Camera di ripensamento, ma spesso Camera di "rallentamento", contribuisce a rendere la "politica" priva di potere decisorio e quindi qualsiasi progetto strutturale significativo risulta di difficile realizzazione.
Nonostante l'apparente ovvietà di tali affermazioni la strada delle riforme costituzionali è sicuramente in salita, come risulta dalle innumerevoli Commissioni bicamerali nominate ad hoc o dai Comitati e Commissioni che hanno lavorato sul tema senza arrivare ad un esito definitivo. Questo non significa ovviamente che il dibattito, i lavori e la ricerca delle soluzioni possa essere considerato improduttivo, ma anzi proprio il fatto che dal 1983, ossia dalla Commissione Bozzi, siano state evidenziate carenze, deve indurre a ritenere che la questione delle riforme costituzionali non solo permanga al centro dell'agenda parlamentare, ma anzi che sia necessario che sia impressa ad essa un'accelerazione.
Più volte ed in altre sedi ho manifestato il mio convincimento sull'opportunità di varie soluzioni contenute nel progetto di riforma: dall'attribuzione alla sola Camera del voto di fiducia, al conferimento al Senato di un ruolo completamente diverso da quello attuale, ossia di camera di rappresentanza delle autonomie e di incontro fra i diversi interessi locali e statali, ma nello stesso tempo anche camera di compensazione con prevalenti funzioni consultive. Ed ancora la soppressione del CNEL, l'incremento degli strumenti di democrazia diretta con la previsione di referendum popolari propositivi e d'indirizzo, la maggiore possibilità di esito positivo ai referendum abrogativi sostenuti da una richiesta di 800 mila elettori, l'introduzione del giudizio preventivo di legittimità costituzionale delle leggi elettorali, la previsione di un procedimento abbreviato di approvazione di disegni di legge di iniziativa del governo al fine anche di ridurre in modo significativo i decreti legge ed, ancora, l'introduzione di una clausola di supremazia statale rispetto alla competenza legislativa regionale.
Particolarmente apprezzabile, a mio avviso, è anche la nuova formulazione dell'art. 55, comma 2, Cost. introdotta nel testo approvato dal Senato in prima lettura, apparentemente solo ripetitiva del contenuto dell'art. 51 Cost. La sua collocazione nel capo I della seconda parte della Costituzione attribuisce, infatti, a tale norma un rilievo specifico e diretto in fase di elezione del Parlamento, quindi non più una generica affermazione di un'attività di promozione delle pari opportunità nelle strutture pubbliche, ma in modo più specifico in fase elettorale. In altre parole, l'inserimento di questo comma, avendo come finalità specifica una situazione di "equilibrio tra donne e uomini nella rappresentanza", legittima costituzionalmente l'inserimento di strumenti normativi antidiscriminatori nella legislazione elettorale e, direi di più, rafforza il principio secondo cui leggi elettorali che non prendano in considerazione il problema dell'equilibrio di genere siano illegittime costituzionalmente. Da qui ne consegue la portata innovativa del comma introdotto e non semplicemente ripetitiva del contenuto dell'art. 51 Cost.
L'aspetto sicuramente più delicato di tutto il progetto di riforma, sul quale, peraltro, sono intervenuti tutti i partecipanti al seminario, è quello della composizione del Senato e, di conseguenza, sul ruolo che dovrà esercitare.
Mi pare che l'esclusione della soluzione più radicale, ossia l'introduzione del monocameralismo (soluzione questa che con il tempo vede sempre più fautori, specialmente dinanzi a molte incongruenze che il progetto sul nuovo Senato presenta) e, viceversa, il convincimento della necessità della conservazione di tale organo possa essere giustificato solo se gli si attribuisce il ruolo di Camera di rappresentanza delle regioni ed in parte anche delle autonomie locali. Il Senato, in altre parole, deve diventare la Camera dove si affrontano e si risolvono le problematiche attinenti alle funzioni legislative regionali, evitando così un intervento della Corte costituzionale non solo di interprete delle norme costituzionali sulla competenza legislativa, ma, talvolta, anche di effettivo dominus della stessa attribuzione di competenza.
Tutto ciò non esclude poi che, pur in questa composizione e finalità specifica, il Senato possa svolgere anche il ruolo di camera di ripensamento con funzione prevalentemente consultiva, che consente, tuttavia alla Camera dei Deputati, che esercita la funzione d'indirizzo politico, di prendere in considerazione le valutazioni, i suggerimenti, le proposte emerse in Senato, se utili.
Se questo deve essere il ruolo e la funzione del futuro Senato, ne deriva come conseguenza inevitabile che debba essere formato da rappresentanti regionali e, se si vuole, locali, che conoscano le problematiche della funzione legislativa esercitata nelle proprie regioni e possano anche essere portatori e rappresentanti delle scelte e degli interessi localmente affermati. Pertanto i suoi componenti non potranno non essere che nominati dallo stesso ente che rappresentano. Quindi la nomina indiretta ha una sua logica in un Senato composto da soggetti che siano non tanto e non solo portatori di una volontà politica propria, ma rappresentanti e responsabili del potere legislativo regionale. Soggetti che potranno così operare all'interno dei due organi, Consiglio regionale, dove si svolge la funzione legislativa locale e dove si pongono i problemi di conflitto/collaborazione con quella nazionale e in Senato dove le leggi nazionali, che hanno riflessi sulla competenza regionale, devono essere appunto approvate. Sia chiaro, la presenza di una rappresentanza dei Comuni potrebbe apparire irragionevole in tale disegno se non si avesse nello stesso tempo presente che la funzione legislativa regionale è strettamente connessa o, meglio, condizionata in modo significativo dall'attività amministrativa che era e permane, anche con questa riforma, in capo ai Comuni. Da qui la necessità di una rappresentanza ed una collaborazione fra i rappresentanti dei due enti locali.
Questo determina come ulteriore conseguenza, la prevista assenza d'indennità dei futuri Senatori. La decisione è da molti criticata: si dice infatti che è estraneo alle caratteristiche dei moderni Stati democratici escludere che i componenti di un organo legislativo, pur con competenze ridotte, non abbiano un'indennità. O comunque, si è affermato che il mantenimento della sola indennità attribuita dall'ente regionale o locale di appartenenza equivale ad ipotizzare che possa funzionare un organo collegiale i cui componenti avrebbero indennità fra loro differenziate anche in modo significativo (a seconda delle diverse Regioni e dei diversi Comuni).
In realtà, personalmente, non riesco a vedere il vizio di tale previsione, se si inquadra il ruolo dei futuri senatori/consiglieri regionali come espressione di un'unica funzione e di un'unica finalità da raggiungere. I consiglieri regionali hanno già un riconoscimento economico e, come prima erano chiamati i Presidenti di Regione a partecipare alle riunioni della Conferenza Stato/Regioni, così lo possono fare i Consiglieri per i lavori del Senato. Fra l'altro occorre osservare che la determinazione delle cifre degli emolumenti ai consiglieri regionali può essere ora unificata con la nuova formulazione dell'art. 122 comma 1 che affida alla legge della Repubblica – bicamerale art. 70 comma 1 - la determinazione degli emolumenti dei consiglieri regionali, emolumenti che in ogni caso trovano un limite nell'importo che può essere attribuito ai sindaci di capoluoghi di regione. Comunque, la presenza all'interno di uno stesso organo di soggetti che hanno un'indennità diversa non parrebbe irragionevole e fra l'altro si verifica con riguardo ai componenti del Parlamento europeo. Situazione opposta si potrebbe poi verificare, qualora fosse previsto un ulteriore emolumento come Senatore, con riguardo al Consiglio regionale di appartenenza dove vi sarebbero consiglieri con "doppio stipendio", accanto a quelli che ne hanno uno solo. Cosa diversa poi sarà il rimborso spese che dovrà essere in ogni caso regolato ed erogato direttamente dal Senato, tenendo conto del maggior onere effettivo derivante dalla partecipazione ai lavori del Senato.
La valutazione sostanzialmente positiva, forse più al testo emerso in Commissione, rispetto a quello approvato dall'Aula, non esclude che non vi siano aspetti da rivedere e norme sul cui contenuto possono essere espressi forti dubbi.
E' già stato fatto in precedenza riferimento alla non buona scrittura del testo, in parte presente nel disegno di legge governativo originario e aggravata con le votazioni sugli emendamenti. Qui si potrebbe aprire una parentesi sul metodo delle riforme e sui problemi che derivano dall'applicazione dell'art. 138 Cost. quando si opera non una riforma puntuale di una norma costituzionale, ma s'interviene in modo più sistematico su una parte significativa della Costituzione, ma su questo punto si rinvia a quanto già espresso in altra sede (Dalla Commissione Balladur alla Commissione per le riforme costituzionali: fra problematiche procedurali di revisione costituzionale e superamento del bicameralismo paritario, in A. Cardone, a cura di, Le proposte di riforma della Costituzione, ESI, Napoli 2014, 9 ss.). La strada seguita non esclude comunque che sia necessario un intervento di un comitato di revisione finale, come avvenne in seno all'Assemblea costituente, che pur prevedendo un passaggio poi definitivo dall'organo politico, potrebbe sanare le incongruenze e l'inappropriata, complessa e spesso oscura formulazione delle norme. In particolare non risulta sicuramente chiaro il testo in ordine all'individuazione delle leggi bicamerali (art. 70) e più in generale al procedimento legislativo (artt. 71 e 72), alla determinazione delle competenze esclusive dello Stato e quanto e come possono intervenire le Regioni ed ancora (art. 117), manca un coordinamento normativo in ordine al procedimento di nomina dei giudici della Corte costituzionale scelti dal Parlamento (senza entrare sul problema poi dell'opportunità politica di consentire al Senato di scegliere due giudici costituzionali, introducendo così una sorta di rappresentanza d'interessi che altererebbe il ruolo super partes che dovrebbero avere i giudici costituzionali).
Si potrebbe quindi pensare ad una maggiore attenzione al problema del drafting legislativo già in questa fase di discussione in Commissione alla Camera e poi prima della votazione finale dell'Aula, con un controllo ed un assestamento degli articoli eventualmente emendati.
Quello che pare invece irragionevole è l'attribuzione di un ruolo (in realtà solo apparentemente) significativo al Senato in fase di approvazione del contenuto della legge di bilancio. Si tratta di uno degli emendamenti fatti dall'Aula e non coordinati con la parte restante del disegno di legge, cosicché attualmente mal formulato. Da un lato infatti, nell'art. 81 si dice che la legge di bilancio ed il rendiconto consuntivo sono approvati dalla sola Camera dei Deputati, conformemente alla scelta iniziale di attribuire solo a questa Camera la determinazione dell'indirizzo politico. Si dice anche, al comma 6 dello stesso art. 81, che "il contenuto della legge di bilancio, le norme fondamentali e i criteri volti ad assicurare l'equilibrio fra le entrate e le spese... sono stabiliti con legge approvata a maggioranza assoluta dei componenti della Camera dei Deputati nel rispetto dei principi definiti con legge costituzionale", sempre confermando il ruolo primario della Camera, avendo già introdotto con la riforma costituzionale del 2012 un procedimento rinforzato di approvazione. Dall'altro invece, con il nuovo art. 70, comma 4, nell'elencare le materie che richiedono una maggioranza assoluta della Camera, per disattendere il parere contrario del Senato, si individua anche tutte quelle leggi menzionate nel predetto comma 6 dell'art. 81 sulla materia di bilancio, norma che abbiamo detto già impone tale maggioranza nel suo iter aggravato.
Due sono le ipotesi dinanzi a tanta confusione: che nella procedura parlamentare di approvazione degli emendamenti non ci sia resi conto della contraddizione (ed in questo caso sarebbe facile per la Camera procedere ad una mera soppressione dell'inciso contenuto nell'art. 70 comma 4), ovvero, e questa è la ipotesi più temibile, di avere cercato di far "rientrare dalla finestra quello che era uscito dalla porta", ossia di attribuire un ruolo significativo al Senato sulle problematiche connesse al bilancio, alterando così la scelta primaria di tutta la riforma costituzionale.
Un altro aspetto della riforma costituzionale che non mi convince è l'attribuzione al Presidente della Repubblica della possibilità di nominare cinque senatori che rimangono in carica per sette anni. Non si comprende bene la ratio di tale nomina.
Da un lato tale potere potrebbe apparire come il prolungamento del vecchio retaggio della nomina reale dei senatori, che, ovviamente, sarebbe irragionevole, dall'altro si potrebbe giustificare solo in base alla necessità che vi sia anche una rappresentanza di soggetti che per la loro preparazione e per le loro capacità siano rappresentativi della "parte migliore" del Paese. In realtà visto il numero non particolarmente significativo dei componenti del Senato e la difficoltà di una rappresentanza adeguata delle varie forze politiche presenti in Regione (come più puntualmente viene analizzato nel contributo di Passaglia), pare che si attribuisca al Presidente della Repubblica un "partito" autonomo all'interno del Senato, "partito" ancor più forte vista la durata del loro mandato superiore rispetto ai vari rappresentanti regionali. A ciò si aggiunge un'incongruenza fra la permanenza di Senatori a vita (art. 38 comma 7 del ddlc) che permangono nella carica, "ad ogni effetto" (come è stato previsto con gli emendamenti d'Aula), compresa l'indennità, e Senatori nominati dal Presidente che invece sono senza emolumenti.
Un ultimo, ma in realtà centrale rilievo, ritengo di dover muovere a quella norma transitoria che prevede la non applicazione della riforma costituzionale in attesa dell'approvazione degli statuti regionali (art. 38 comma 11), statuti che verranno approvati "in base ad intese" con le Regioni e le Province di Trento e Bolzano. Si tratta di una norma che cambia in modo sostanziale i rapporti di forza fra Stato e Regioni speciali, perché l'eventuale iniziativa statale non è più sottoposta, come prescrive ora la legge cost. n. 2 del 2001 al parere della Regione, bensì ad una vera e propria "intesa", con tutte le problematiche connesse al concetto di intesa forte/debole. Pare, quindi, che questa norma abbia come obbiettivo primario quello di incentivare l'inerzia delle Regioni speciali, escludendo che vi sia un qualsiasi interesse della Regione a modificare uno statuto che garantisce una situazione di particolare favore quale è quella disciplinata negli statuti attualmente vigenti.
Questa integrazione, fatta nel testo elaborato in Commissione, della subordinazione ad una "intesa" per l'approvazione dello Statuto, pare che costituisca un'ulteriore espressione della forte capacità di influenza che le Regioni speciali, ed alcune in particolare, hanno sempre avuto e continuano ad avere in Italia. Influenza che si traduce nella previsione di norme di favore che si possono riscontrare in molti articoli di questo disegno di legge costituzionale: nell'art. 70, ad esempio, si prevede che siano leggi bicamerali quelle in materia di minoranze linguistiche, nell'art. 57 si prevede una rappresentanza della Regione Trentino Alto Adige di quattro senatori, riducendo di fatto la rappresentanza delle altre Regioni con una popolazione nettamente superiore e, aspetto, ancor più preoccupante, non vi sia alcuna norma e neppure si sia aperto un dibattito sulla necessità di parificare da un punto di vista economico tutte le Regioni. Il trend che può seguire è veramente irragionevole, come, da ultimo, la richiesta in Commissione affari costituzionali della Camera di un Senatore per la minoranza di lingua slovena in Friuli Venezia Giulia, che dovrebbe rappresentare solo un numero limitatissimo di cittadini presenti sul territorio italiano.
Molti altri rilievi sono poi stati prospettati nei vari contributi pubblicati in questo numero della Rivista, da un dubbio generale sull'esistenza stessa di una "direzione di marcia" unitaria a tutto il processo di riforma che ora è stato approvato (Cheli), ad una forte critica nell'elencazione delle materie fatta nel nuovo art. 117 (Caretti), dalla constatazione di una disciplina confusa sul procedimento legislativo (Rossi, Cheli, Zaccaria), alla verifica sulle difficoltà di equilibrio dei meccanismi di bilanciamento fra "pesi e contrappesi" (Azzena e Bindi), in particolare con riguardo all'elezione del Presidente della Repubblica (Puccini) e, ancora, a molti dubbi sui criteri di rappresentanza previsti per il Senato (Passaglia).
In questo numero della Rivista infine vengono pubblicati anche tre saggi, di cui due strettamente collegati al procedimento di riforma costituzionale: quello di Giusto Puccini, affronta in modo completo ed analitico tutti i "nodi" del processo di riforma ed in particolare i dubbi in ordine alla compatibilità fra soluzioni scelte e principi costituzionali generali, ipotizzando poi proposte di modifica del testo e comunque obbiettivi da raggiungere con il procedimento ora in atto. Il saggio di Luca Bartolucci analizza il ruolo che, a Costituzione invariata, hanno i Consigli regionali dopo il Trattato di Lisbona sugli affari dell'Unione Europea ed in particolare la loro partecipazione alla c.d. "fase ascendente" di formazione degli atti normativi comunitari, esprimendo una valutazione di preoccupata constatazione dell'esiguo coinvolgimento dei Consigli regionali nel controllo di sussidiarietà all'interno delle funzioni svolte attualmente dalla Camera dei Deputati e, viceversa, constatando i buoni risultati delle procedure sperimentali create dall'accordo tra la Commissione delle politiche dell'Unione europea del Senato e la Conferenza dei Presidenti dei Consigli regionali. Anche in questo saggio vi sono proposte interessanti di modifica del disegno di legge costituzionale al fine di incrementare il ruolo europeo del Senato.
Il terzo saggio, esterno al seminario pisano sulle riforme, è quello di Anna Alberti di carattere prevalentemente teorico sul difficile tema della legge come norma sulla produzione di nuove fonti normative, che parte da un dubbio amletico: la legge può istituire fonti primarie concorrenziali? Analizzando, poi, in modo dettagliato gli atti aventi forza di legge ed il ruolo che stanno assumendo nel sistema delle fonti, si chiede se tutto ciò incida anche su una "destrutturazione" della nostra forma di governo.