Pizzorusso, studioso delle fonti del diritto
1. Lo scorso 13 dicembre Alessandro Pizzorusso ci ha lasciato. Non è mia intenzione qui ricordarne la figura scientifica ed umana che altri molto meglio di me avrà occasione di fare nei mesi che verranno. Con queste brevi note, tenendo conto dell’indirizzo specifico dell’”Osservatorio”, vorrei richiamare l’attenzione sul contributo di straordinario rilievo che Pizzorusso ha dato allo studio del sistema delle fonti normative.
A questo tema egli ha dedicato gran parte del suo impegno scientifico, il quale si è tradotto, oltre che in innumerevoli saggi, in due opere fondamentali: i due Commenti agli artt. 1-9 delle Disposizioni sulla legge in generale, nel quadro del Commentario del Codice Civile a cura di Antonio Scialoja e Giuseppe Branca: il primo edito nel 1977, il secondo nel 2011 (Zanichelli – Il foro Italiano). Credo che non ci sia studioso che occupandosi di fonti non abbia tratto da questi due testi preziose indicazioni, spunti di riflessione, stimoli ad ulteriori approfondimenti. Ma, più che un esame del merito delle tesi sostenute da Pizzorusso ciò che vorrei sottolineare sono soprattutto i tratti principali del suo insegnamento metodologico, le linee guida che fin dal primo commento tracciava per i futuri studiosi: innanzitutto l’esigenza di adottare una prospettiva non solo sincronica, ma diacronica; in secondo luogo, l’esigenza di tener conto dell’esperienza di altri ordinamenti in una prospettiva comparata (non a caso, uno dei primi paragrafi del secondo commento è intitolato “diacronia, sincronia e comparazione”); in terzo luogo, l’esigenza di ancorare lo studio delle fonti al diritto costituzionale e, più in particolare, allo studio della forma di governo.
Quanto al primo aspetto (prospettiva storica), Pizzorusso, facendo propria la lezione di Paolo Grossi e in linea con le sue sollecitazioni agli studiosi di diritto positivo, pone sempre alla base dell’analisi dei problemi dell’oggi la puntuale ricostruzione della genesi delle singole fonti, alla luce degli sviluppi della prassi, della giurisprudenza e degli sviluppi dottrinali che le hanno riguardate nelle diverse fasi della nostra storia costituzionale, a partire dal periodo statutario, per venire al periodo fascista tra le due guerre e, infine al periodo post-costituzionale.
Quanto al secondo aspetto (prospettiva comparata), Pizzorusso, rivelando da subito un interesse culturale che lo porterà non solo ad insegnare diritto pubblico comparato per una stagione non breve della sua carriera di docente (è la stagione trascorsa nell’Ateneo fiorentino) ma a diventare uno dei massimi cultori della materia, orienta costantemente la sua analisi a misurare analogie e differenze tra le vicende del nostro ordinamento e l’esperienza di altri ordinamenti, soprattutto di quelli a noi più prossimi per tradizione giuridica. Si sentono qui chiari i riflessi del Santi Romano della pluralità degli ordinamenti giuridici, il cui insegnamento Pizzorusso ribalta sul piano della comparazione, nella convinzione che non abbia ormai più senso studiare gli sviluppi di un singolo ordinamento senza tener conto che questi si spiegano solo se si tiene conto del contesto più generale nel quale essi si collocano, in una trama di reciproci condizionamenti ed interrelazioni.
Quanto, infine, al terzo aspetto (prospettiva costituzionale), Pizzorusso vede nella Costituzione repubblicana non solo una svolta storica decisiva del nostro sistema costituzionale complessivamente considerato, ma il punto di riferimento ineludibile per ogni indagine volta a ricostruire il sistema delle fonti normative, in un’ottica che ben poco ha a che fare con le disposizioni delle Preleggi al codice civile. Una Costituzione che ha natura di fonte normativa, che contiene numerose disposizioni sulle fonti (soprattutto quelle primarie); una Costituzione rigida anche per la parte dedicata al riparto dei poteri normativi tra Parlamento e altri poteri pubblici (non solo il Governo, ma anche le Regioni) sono tutti elementi che spingono nella direzione indicata da Pizzorusso. In quest’ottica, ciò che rileva è soprattutto il rapporto tra fonti e sovranità, tra fonti e il modo di distribuzione della sovranità tra i vari organi costituzionali, in una parola, il rapporto tra fonti e forma di governo. Sia consentito spendere al riguardo qualche ulteriore parola, posto che a mio parere questo rappresenta l’indirizzo metodologico più innovativo della lezione di Pizzorusso.
Oggi appare a tutti noi scontato che lo studio delle fonti costituisca una parte fondamentale del diritto costituzionale proprio per questo suo strettissimo rapporto con la forma di governo. Ma così non era nel momento in cui (1977) Pizzorusso pubblica il suo primo Commento alle Preleggi. Come lui stesso nota, quella tendenza della dottrina giuridica precedente l’avvento della Costituzione ad affrontare il tema delle fonti sganciato da quello della divisione dei poteri aveva proiettato i suoi riflessi ben oltre l’entrata in vigore della Carta. Si tratta di una tradizione non a caso formatasi nel corso della nostra esperienza autoritaria, caratterizzata, per ciò che qui interessa, dal permanere di una formale distinzione tra legge e altre fonti normative primarie, ma anche da una sostanziale riconduzione di ogni indirizzo legislativo al Capo del Governo e al suo Esecutivo, con conseguente accentuata “confusione” di tale distinzione. Di qui l’affermarsi del tema delle fonti quale oggetto precipuo, anche se non esclusivo, degli studi di diritto privato, volti a cogliere essenzialmente i riflessi dello sviluppo e delle relazioni tra le diverse fonti normative nei rapporti tra i soggetti privati, a tutela delle loro posizioni soggettive. Osserva al riguardo Pizzorusso: “ l’analisi delle fonti del diritto è stata per lungo tempo ritenuta compito precipuo, anche se non esclusivo, dei cultori del diritto privato, i quali ovviamente lo conducevano in modo distaccato dallo studio delle strutture politiche e della forma di governo esistenti nel Paese di cui si occupavano “ (cfr. Delle Fonti del Diritto, Bologna, Zanichelli; Roma, Il Foro Italiano, 1977, p-179, n.4). Solo negli anni in cui Pizzorusso dà alle stampe il suo primo Commento le cose cominciano a cambiare grazie a studiosi quali Donati, Giannini, Cassese, Cheli, Carlassare ed altri. A questo nuovo indirizzo culturale Pizzorusso ha dato un contributo decisivo, recuperando al nuovo diritto costituzionale una “materia” per troppo tempo trascurata e orientandone lo studio a partire dal nesso inscindibile che lega l’assetto del sistema delle fonti a quello della forma di governo.
2. Volendo operare una verifica di come queste tre indicazioni metodologiche abbiano giocato nell’orientare lo studio delle fonti da parte di Pizzorusso ci si può qui riferire, sia pure in estrema sintesi, al tema, centrale nell’ottica da lui prescelta, dei poteri normativi primari del Governo. La sua analisi parte innanzitutto a quell’art. 5 dello Statuto Albertino che, nell’intento di riequilibrare, nel quadro di una forma di governo dualista, i poteri normativi delle Camere, manteneva in capo al Sovrano una serie di poteri che, insieme, costituivano quella che era chiamata la “ prerogativa regia “. Nell’ambito di questi poteri, dottrina e giurisprudenza avevano finito per ricomprendere anche poteri normativi primari esercitabili dal Sovrano, tramite regi decreti, in determinate materie (nobiliare, militare, coloniale) e soggetti a controfirma ministeriale, così da rispettare formalmente il principio dell’irresponsabilità regia.
A questi poteri si aggiungevano poi quelli che il Governo poteva esercitare o sulla base di un’apposita delega del Parlamento o in presenza di ragioni di necessità ed urgenza. Ipotesi, queste ultime, sconosciute al dettato statutario, ma che erano venute affermandosi in via di prassi. Così, la delegazione legislativa, nata per le esigenze belliche (delega al Governo dei pieni poteri) viene poi estesa a situazioni che con quelle esigenze non avevano nulla a che fare e nelle più diverse materie, traducendosi nella maggioranza dei casi in una sorta di delega in bianco all’Esecutivo, in assenza della predisposizione di limiti da parte del Parlamento delegante. Allo stesso modo, la decretazione d’urgenza, anch’essa ignota allo Statuto, nata in origine per far fronte a calamità naturali, venne successivamente utilizzata dall’Esecutivo nelle più svariate occasioni anziché procedere per la via maestra dell’approvazione di disegni di legge.
Sia con riferimento alla delegazione legislativa che alla decretazione d’urgenza, Pizzorusso dà conto delle polemiche e delle discussioni che si ebbero in quel periodo, alimentate soprattutto da coloro che denunciavano il progressivo venir meno della distinzione, chiara nello Statuto, tra ruolo del Parlamento e ruolo dell’Esecutivo nell’esercizio del potere di normazione primaria. Di qui le interpretazioni di parte della dottrina del tempo volte quanto meno a sottoporre a limiti i due istituti, in modo da evitare una sostanziale esautorazione del Parlamento proprio sul terreno della regolazione di rango primario, tipico dell’azione di ogni assemblea rappresentativa: così, ad esempio, la tesi del necessaria sottoposizione a limiti sostanziali del potere normativo delegato, nonché quella dell’altrettanto necessario assoggettamento a successiva conversione in legge dei decreti adottati in base all’urgenza a provvedere, ovvero quella della loro sindacabilità da parte del giudice. Si tratta di una prassi e di un dibattito che in qualche modo preludono alla prima codificazione dei due istituti ad opera del legislatore fascista con la legge n.100 del 1926. E infatti, da un lato tale legge avvia quel processo di sostanziale unificazione del potere normativo primario in capo all’Esecutivo o ad organi controllati dal medesimo (processo che troverà il suo culmine nel 1939 con l’eliminazione del principio elettivo per la Camera dei Deputati, trasformata in Camera dei Fasci e delle Corporazioni) di cui si è detto, dall’altro, e contestualmente, offre una risposta, sia pure minimale, a quanti in precedenza avevano lamentato il ricorso indiscriminato e libero da ogni limite sia alla delegazione legislativa che alla decretazione d’urgenza.
Così, come è noto, si prevedeva che la delega (art.3, c.1, n.1) fosse esercitata dal Governo nel rispetto dei limiti posti dal Parlamento, ma non imponeva affatto a quest’ultimo di inserirli nella legge di delegazione. Così, quanto alla decretazione d’urgenza, si prevedeva l’obbligo, a pena di decadenza, della loro presentazione alle Camere per la conversione in legge non oltre la terza seduta successiva alla pubblicazione (termine poi portato a 60 giorni per alcune specifiche tipologie di decreti : quelli adottati per esigenze belliche, finanziarie o adottati in sostituzione di disegni di legge non approvati dalle commissioni della Camera dei Fasci e delle Corporazioni nei termini loro prescritti), ma l’eventuale esplicito rifiuto di conversione aveva solo la conseguenza di far decadere il decreto ex nunc, mentre la mancata conversione per decorso del tempo produceva la decadenza del decreto solo allo scadere del termine di due anni dalla sua pubblicazione (art. 3, u.c.). Un disegno che si completava con la previsione di altri due elementi. Il primo rappresentato dall’introduzione di un tipo di regolamenti abilitati a disciplinare determinate materie (l’uso delle facoltà spettanti al potere esecutivo, l’organizzazione e il funzionamento delle Amministrazioni dello Stato, l’ordinamento del personale da esse adottato, l’ordinamento degli enti e istituti pubblici, con alcune eccezioni) “ quand’anche si tratti di materie fino ad oggi regolate per legge” (art.1, n.2). Il secondo rappresentato dal potere di ordinanza che riceve una particolare valorizzazione ad opera del t.u. delle leggi di pubblica sicurezza del 1931 ; una valorizzazione a tal punto accentuata dall’interpretazione che ne fu data da dottrina e giurisprudenza da farne una ulteriore fonte di formazione primaria a disposizione del Governo o di altre autorità amministrative.
Veniva così a realizzarsi una sorta di paradosso che Pizzorusso segnala giustamente: proprio nel momento in cui, almeno formalmente, si punta a ripristinare una distinzione tra la legge parlamentare e le altre fonti di formazione primaria, ciò che si realizza in realtà è una sostanziale “confusione” e “fungibilità” nel ricorso all’una o all’altra fonte, determinate dal mutamento della forma di Governo, ormai lontana dal vecchio dualismo e saldamente orientata verso un monismo in cui è il Capo del Governo e il suo (non più del Re) Esecutivo a determinare senza possibilità di interferenze l’intero indirizzo normativo. In realtà si tratta di un paradosso solo apparente. Così come nel periodo liberale post-unitario “ la mancanza di schieramenti politici organizzati…. e la conseguente mancanza di una contrapposizione vera fra Parlamento e Governo, come centri di potere distinti ed eventualmente contrapposti, fece sì che la distinzione giuridica fra attività legislativa del Parlamento ed attività normativa dell’esecutivo restasse quasi del tutto priva di giustificazioni sul piano politico-sociale” (cfr. Delle Fonti del diritto, 1977, cit, p. 179); così nella forma di governo che si instaura nel periodo fascista è la riconduzione ad un unico centro decisionale dell’indirizzo politico legislativo a determinare conseguenze del tutto analoghe.
Con l’avvento della Costituzione repubblicana si registra il tentativo di superare la “confusione” tra fonti normative primarie che aveva caratterizzato l’esperienza precostituzionale. Militano in questa direzione una pluralità di elementi: dalla ribadita centralità della legge parlamentare nel sistema delle fonti (una legge che certo deve fare i conti ora con una fonte di livello superiore rappresentata dalla Costituzione e con fonti di pari grado riferite ad altri soggetti istituzionali come le Regioni), la quale è chiamata a convivere con le tradizionali fonti primarie che fanno capo all’Esecutivo, disciplinate direttamente dalla Carta e concepite in termini di eccezionalità rispetto ad una regola che conferma al Parlamento la titolarità “ordinaria” del potere normativo primario (basterebbe pensare alla fitta rete di “riserve” che percorre l’intero testo costituzionale . Un’eccezionalità sottolineata dalla previsione di una serie di limiti procedurali e sostanziali: per la delega, i limiti dei principi e dei criteri direttivi, del tempo limitato e degli oggetti definiti (art. 76); per la decretazione d’urgenza, la sussistenza dei presupposti di necessità e di urgenza a provvedere e l’obbligo di presentazione alle Camere del decreto lo stesso giorno della loro adozione per la conversione in legge entro 60 giorni, pena la loro decadenza ex tunc, a sottolineare la responsabilità che il Governo si assume nel ricorrere a tale fonte primaria.
L’intento è dunque quello di marcare una netta distinzione tra legge e altre fonti primarie da ricondurre al carattere diretto della rappresentatività parlamentare e a quella solo indiretta dell’Esecutivo. Ma, sottolinea Pizzorusso, questa impostazione e’ stata ben presto tradita dalla prassi che si e’ instaurata fin dalle prime legislature e destinata, come sappiamo bene, a rafforzarsi nel tempo, caratterizzata da un uso promiscuo delle fonti di normazione primaria. Ancora una volta, sono gli sviluppi della nostra forma di governo parlamentare a favorire una prassi di questo tipo: il venir meno di una netta distinzione tra Parlamento e Governo e la tendenza alla commistione di ruoli e di poteri e’ alla base di fenomeni come quello delle c.d. “leggine” su un versante e quello della progressiva perdita dell’eccezionalità del ricorso alla delegazione legislativa e alla decretazione d’urgenza sull’altro. Una evoluzione che Pizzorusso addebita ad un sistema politico ancora largamente affetto dal vizio del trasformismo ed inquinato da interferenze varie di tipo lobbistico; tutti elementi che hanno profondamente inciso, a suo avviso, sulla capacità della legge di svolgere davvero a pieno la sua funzione fondamentale di strumento di manifestazione della volontà popolare , in vista della realizzazione di quelle profonde riforme legislative che la società italiana si aspettava all’indomani dell’entrata in vigore della Costituzione.
E’ in questa situazione che va allontanandosi dal disegno costituzionale che, secondo Pizzorusso, possono trovare una parziale giustificazione alcuni aspetti presenti nella prassi di quegli anni. Così, ad esempio, a fronte delle insufficienze della produzione legislativa parlamentare appare non del tutto condannabile l’uso del decreto legge come “atto di iniziativa legislativa privilegiata” (secondo la nota definizione di Predieri) per promuovere riforme di settore; allo stesso modo, quasi a bilanciare questa perdita di eccezionalità del ricorso alla decretazione d’urgenza, non appare sindacabile l’ampio potere emendativo esercitato dal Parlamento in sede di conversione. Due aspetti che testimoniano di quella confusione di ruoli (e di fonti) che il Costituente aveva inteso evitare per distinguersi dall’esperienza precedente, ma che, nelle diverse condizioni date, impongono all’interprete e allo studioso uno sforzo di razionalizzazione. E’ chiara anche a questo riguardo la sottolineatura operata da Pizzorusso tra sviluppo della forma di governo e corrispondente sviluppo del sistema delle fonti: è il cattivo funzionamento della forma di governo parlamentare a produrre una torsione nel ricorso alla decretazione d’urgenza rispetto a quanto disposto dall’art. 77 Cost.; una torsione da intendersi come una sorta di “ necessario surrogato” in chiave sostitutiva della legge del Parlamento, al quale tuttavia va conservato in sede di conversione un ruolo in qualche modo assimilabile a quello di co-legisltore (fenomeno questo che in anni a noi più vicini interesserà soprattutto l’istituto della delegazione legislativa). Ed è sempre il riferimento a questo nesso fondamentale (fonti/forma di governo) che, invece, viene denunciata come inammissibile un’altra grave distorsione emersa nella prassi, ossia quella della sostanziale inoperatività della responsabilità del Governo in ordine all’eventuale mancata conversione di un decreto: è il tipo particolare di forma di governo parlamentare che è andato affermandosi in Italia, a parere di Pizzorusso, caratterizzata da un vincolo forte tra azione della maggioranza parlamentare e quella del Governo (a sua volta condizionata dalle segreterie dei partiti) a spingere nella direzione di rendere anziché ordinaria del tutto straordinaria l’eventualità di un vero dibattito su questo profilo della responsabilità politica dell’Esecutivo.
Se quelli ora sinteticamente richiamati sono i tratti essenziali dell’evoluzione dei poteri normativi primari del Governo, disegnati con grande maestria da Pizzorusso, e i principali problemi che egli analizza in relazione all’esperienza più recente del nostro ordinamento, non manca il riferimento a quanto è avvenuto e avviene in altri ordinamenti. Questo sguardo aperto alla storia e allo sviluppo del sistema delle fonti anche in altri contesti non è certo fine a sé stesso, ma strettamente funzionale al confronto e alla rilevazione di assonanze e dissonanze utili ad arricchire lo studio del diritto nazionale. Al riguardo Pizzorusso rileva, in primo luogo come l’esperienza italiana, si inscriva in una tendenza più generale che ha interessato un po’ tutti gli ordinamenti europei a partire dalla fine dell’800 ma soprattutto nei decenni tra le due guerre mondiali e rappresentata dall’espansione dei poteri normativi non solo secondari, ma anche primari del Governo. Si tratta di una tendenza che si manifesta anche in Paesi non toccati da vicende autoritarie come quelle che hanno interessato il nostro Paese e che è dovuta essenzialmente a ragioni di tipo pratico, legate alla provata impossibilità della legge parlamentare a fungere davvero, secondo teorizzazioni risalenti alla tradizione francese, da fonte pressoché esaustiva di ogni esigenza di regolazione in ordinamenti sempre più complessi e nei quali l’estendersi dell’attività dei pubblici poteri ai più diversi settori della vita sociale rende sempre più forti tali esigenze.
Ma, una volta sottolineata questa matrice comune, non sfugge a Pizzorusso la profonda diversità che distingue la nostra da altre esperienze; una diversità legata proprio a quelle torsioni del disegno costituzionale indotte dalla prassi e dovute, come viene più volte sottolineato, ad un assetto debole del nostro sistema politico-partitico e ai conseguenti riflessi che questa fragilità produce sul funzionamento della nostra forma di governo parlamentare (emblematica al riguardo la posizione espressa da Pizzorusso nel saggio “ The Law-Making Process as a Juridical and Political Activity contenuto nel volume “ Law in the Making. A comparative Survey, Berlino, Springer, 1988, che ancora oggi rappresenta uno degli studi comparatistici più interessanti in tema di fonti).
3. Le brevi notazioni che precedono (e che si riferiscono soprattutto al primo Commento alle Preleggi del 1977, quello che a me pare contenere il contributo più innovativo) non pretendono certo di restituire in modo esaustivo tutta la complessità e la ricchezza del pensiero di Pizzorusso in relazione agli sviluppi delle fonti di normazione primaria, ai loro reciproci rapporti, ai problemi interpretativi che esse nel corso del tempo hanno posto agli studiosi. Tuttavia, mi pare che siano sufficienti a lasciare intendere quale sia stata la strada maestra battuta, anche quando le novità che più di recente si sono registrate nel nostro sistema delle fonti (dai poteri normativi delle Autorità amministrative indipendenti, all’ingresso pervasivo del diritto comunitario, all’affermarsi delle fonti di c.d. “ soft- law”, alle varie forme di autoregolamentazione indotte dal fenomeno della globalizzazione) rendevano assai meno agevole ragionare di fonti in termini di un “sistema” ancorato ad alcuni principi stabili, anche se sottoposti dalle prassi a torsioni di vario tipo. La prospettiva che Pizzorusso privilegia mi pare che sia quella di mantenere, nell’affrontare le innumerevoli questioni sul tappeto, un equilibrio ragionevole tra il necessario rispetto del nucleo essenziale dei criteri formali di disciplina e distinzione tra le diverse fonti (legge parlamentare e atti normativi primari del Governo o di altri organismi pubblici) e l’altrettanto necessaria attenzione a criteri di natura sostanziale, attenti agli svolgimenti della prassi. Un equilibrio non sempre facile da mantenere e che sconta il rischio permanente di cadere in una sopravvalutazione del dato sostanziale a danno di quello formale e viceversa. In ciò consiste , a mio parere, un’ ulteriore lezione metodologica che Pizzorusso ci lascia e che può aiutarci ad affrontare in modo corretto i problemi sempre più complessi dell’oggi. Di fronte ad una prassi (mi riferisco sempre al rapporto tra legge parlamentare e altri atti di formazione primaria) che a volte appare incontrollabile e frutto più di una sorta di perversa fantasia istituzionale che di una utilizzazione delle fonti che risponda ad uno standard minimo di razionalità, Pizzorusso ci invita a non cedere alla tentazione di limitare lo studio delle fonti ad una mera registrazione dei dati fattuali che il contesto attuale presenta alla nostra attenzione, rinunciando ad una analisi sistematica della complessità assunta dal sistema alla luce dei criteri ordinatori fissati dal dettato costituzionale. Al contrario, mi pare che la sua indicazione sia nel senso di tentare di distinguere in tale complessità i fenomeni che possiamo considerare patologici da quelli che invece possono essere considerati sviluppi fisiologici del sistema e come tali riconducibili a quei criteri di ordine generale.
Naturalmente, come già osservato, si tratta di un approccio non privo di insidie e che richiede una capacità di operare dei distinguo non sempre agevoli in concreto e comunque opinabili, ma forse l’unico che ci consente di evitare l’abbandono definitivo di quei criteri in nome di una prassi inarrestabile e ad essi irriducibile che va nella direzione di una sempre più accentuata sostanziale fungibilità tra le fonti normative primarie. Si tratta, del resto della linea fatta propria, ma solo negli anni più recenti, dagli organi di controllo sull’esercizio dei poteri di formazione primaria da parte del Governo, sia da parte del Capo dello Stato in sede di emanazione dei decreti governativi, sia da parte della Corte costituzionale in sede di controllo successivo: quella, appunto, di muoversi nella direzione far salvo il nucleo essenziale di quei criteri distintivi, da sottoporre a continua reinterpretazione alla luce di quelli che si possono ritenere gli sviluppi stabili e non transeunti della nostra forma di governo parlamentare.