Continuano anche su questo numero le riflessioni sollecitate da Andrea Simoncini sui problemi che ruotano intorno al confuso evolversi del nostro sistema delle fonti.
Alle prime eloquenti, quanto preoccupate, risposte fornite da Franco Modugno e Antonio Ruggeri nel n. 3/09 dell’Osservatorio, si aggiunge ora l’intervento di Paolo Caretti.
Ancora centrale e ribadita la preoccupazione per l’ormai certa crisi della legge e del ruolo ad essa assegnato di fonte di regolazione primaria.
Più articolato, invece, l’esame delle cause e dei rimedi da approntare a tale fenomeno.
Così, Caretti, invertendo il metodo di analisi dei primi interventi, pone l’accento, prima ancora che sui possibili rimedi (siano questi affidati alla fonte costituzionale, siano, invece, affidati a quella ordinaria, come, rispettivamente, proposto da Antonio Ruggeri e Franco Modugno), sugli aspetti più propriamente strutturali, legati all’attuale evoluzione della nostra forma di governo, rinviando ogni soluzione definitiva al momento di un più stabile e sicuro assetto istituzionale.
In tale ottica (e a breve termine), egli opta per modifiche che incidono più che all’”esterno”, all’ “interno” del fenomeno legislativo. L’obbiettivo viene puntato su riforme le quali, sfruttando al massimo i margini di manovra consentiti dall’art. 72 Cost., producano un rafforzamento del ruolo legislativo svolto dalle commissioni parlamentari. Viste, quest’ultime, quali organismi capaci di esercitare, attraverso le ampie capacità di mediazione che esse tradizionalmente sono in grado di svolgere, un sensibile recupero del prodotto legislativo. Un prodotto che, nato dalla attività collaborativa compiuta dalle commissioni, non solo possa restituire funzionalità ed efficienza al processo di produzione normativa, ma sia anche dotato della stabilità necessaria per resistere al continuo mutare delle maggioranze parlamentari.
Molto ricchi i contributi che compaiono ne “I saggi”.
All’intricato susseguirsi di leggi delega e decreti delegati sono dedicati i lavori di Elisabetta Catelani, Alfredo Corpaci e Marcello Cecchetti.
Il saggio della Catelani si sofferma su una delle più importanti - per vastità ed oggetti - legge di delega approvata dal Parlamento: la legge 18 giugno 2009 n. 69, recante “Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile”, soffermandosi, in particolare, sui profili legati alle non del tutto chiare disposizioni in materia di riordino della disciplina del processo amministrativo (art. 44) .
Che le deleghe varate negli ultimi anni “pecchino” per difetto dei requisiti essenziali richiesti dall’art. 76 Cost. è cosa ormai nota, oltre che avallata dalla stessa Corte costituzionale che ne ha legittimato l’esercizio attraverso una lettura assai estensiva dei principi costituzionali.
Anche in questo caso vengono in discussione la vastità dell’oggetto, la genericità dei principi direttivi, il discutibile rinvio a decreti correttivi ed integrativi. Ma, oltre a ciò, quello che più appare discutibile è la mancanza della necessaria chiarezza circa le stesse modalità attraverso le quali pervenire al riordino della materia, fino ad oggi regolata da una pluralità di interventi normativi.
In virtù di ciò il Governo (rectius la commissione istituita dal Consiglio di Stato) ha adottato un meccanismo di attuazione del tutto “sui generis” che, secondo la Catelani, produce una serie di conseguenze che rendono più difficile l’applicazione dei principi dettati dal legislatore ed espongono la materia, quella legata alla giustizia amministrativa, a pericolose operazioni di inadeguatezza quanto a coerenza ed unità.
Non alle modalità della delega, ma alla sua attuazione, è dedicato, poi, il saggio di Corpaci che si sofferma sulle molte novità contenute nel recente decreto legislativo n. 150 del 2009 in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico ed efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni.
Molte le novità, dicevamo, contenute in questo provvedimento che si autoqualifica per “riforma organica della disciplina del rapporto di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche”.
Quel che più qui interessa è, tuttavia, la nuova relazione che intercorre fra le fonti abilitate alla regolamentazione del rapporto di lavoro.
Se, infatti, indiscussa rimane la scelta a suo tempo operata circa la privatizzazione di questo rapporto, la cui disciplina resta sostanzialmente affidata alla contrattazione collettiva, muta, invece, in modo consistente, la relazione tra la fonte contrattuale e quella legislativa, oggi in grado, secondo Corpaci, di riacquistare gran parte degli spazi che le erano stati preclusi.
E, tuttavia, nonostante ciò, non del tutto negativo il giudizio dell’autore, che vede in tale aspetto più che un contrasto con il principio di privatizzazione, una realistica rivisitazione di forse eccessive aperture di credito sulle capacità della contrattazione collettiva di gestire le complesse dinamiche legate al rapporto di lavoro nella P.A. Un giudizio naturalmente sospeso nelle more che ci separano dalla concreta attuazione della normativa in esame.
Infine, il saggio di Cecchetti riguarda la complessa procedura attivata dalla delega prevista al comma 14 dell’art. 14 della l. n. 246 del 2005 (così come modificato dall’art. 4 della l. n. 69 del 2009: c.d. “salva leggi”) per evitare l’abrogazione generalizzata delle disposizioni legislative anteriori al 1970 che scatterà alla fine di questo anno.
Il saggio si dilunga nell’esame di questo complesso intervento normativo, destinato a produrre effetti assai dannosi sul nostro sistema delle fonti, se mal esercitato, e ne mette bene in rilievo i pregi, ma soprattutto le ambiguità e le incertezze, oltre che i possibili profili di illegittimità. Da tali valutazioni Cecchetti, tuttavia, trae spunto per ulteriori considerazioni dirette a tracciare le linee del futuro percorso normativo così da garantire un risultato finale in grado di soddisfare al meglio quelle esigenze di semplificazione del nostro sistema che l’intero processo è stato chiamato ad assolvere.
L’ ampio e documentato saggio di Cristina Fasone dà conto, invece, dell’ancora insufficiente adeguamento dell’ordinamento italiano alle importanti novità introdotte dal trattato di Lisbona per quanto riguarda il ruolo dei parlamenti nazionali nell’Unione europea.
Vero è che il 6 ottobre 2009 - in attesa dell’entrata in vigore del Trattato - la Giunta per il regolamento della Camera aveva già approvato una procedura sperimentale per disciplinare la trasmissione dei documenti dall’ Unione alla Camera e il loro esame (al Senato, invece, ci si era limitati all’invio, da parte del Presidente, di una missiva di indirizzo ai presidenti di commissione).
Al di là, tuttavia, di questo provvedimento, che rimane del tutto marginale, mancano ancora le necessarie modiche parlamentari e legislative, ad oggi affidate ad una serie di proposte ancora in fase di discussione, oltre che ai limitati interventi previsti dall’attuale legge comunitaria in approvazione alla Camera.
Un ritardo, questo, che se in realtà accomuna lo Stato italiano con la grande maggioranza degli altri stati membri (allo stesso modo inadempienti), non per questo appare più giustificabile.
A tacere dell’importanza dei nuovi principi varati a Lisbona e dei loro effetti sul processo di democratizzazione delle politiche comunitarie, è un fatto che il Trattato non è che l’ultimo atto di un cammino che, iniziato nel lontano 2000, ben avrebbe meritato una più pronta risposta da parte delle nostre assemblee legislative.
Gli ultimi saggi, quello di Elena Griglio e Mia Caielli, volgono l’obbiettivo sul versante regionale.
La prima dà conto del processo di adeguamento dei regolamenti consiliari ai nuovi statuti che oggi impegna gran parte delle assemblee legislative locali.
Più in particolare, Elena Griglio esamina le modiche di recente approvate dal consiglio lombardo il quale, tra gli ultimi a rivedere il proprio statuto, è, invece, tra i primi a conformare il regolamento alle nuove disposizioni statutarie.
L’attenzione è rivolta soprattutto alla nuova disciplina delle commissioni, alle quali viene strategicamente affidato il difficile compito di riequilibrare, a favore del Consiglio, il maggior peso acquistato dall’Esecutivo nella forma di governo regionale.
Tali organi vengono così a sperimentare – anticipando gli omologhi di Camera e Senato – nuove soluzioni, che ne rafforzano il ruolo sia in riferimento alla loro composizione, sia in riferimento al funzionamento, sia, poi, in riferimento alle funzioni esercitate.
Il saggio di Mia Caielli, infine, dà conto della recente vicenda che ha visto protagonista la regione Campania, la quale ha di recente approvato nuove misure di sostegno a favore della rappresentanza politica femminile (l. reg. n. 4 del 2009). In particolare, la legge contiene una disposizione, impugnata dal Governo di fronte alla Corte costituzionale, che introduce per la prima volta nel nostro ordinamento la c.d. “preferenza di genere”. Tale disposizione, prevede, infatti, l’obbligo, a carico dell’elettore che voglia utilizzare le due preferenze messe a sua disposizione, di indicare candidati di sesso opposto, pena l’annullamento della seconda preferenza.
Che la norma in questione ponesse dubbi di costituzionalità era stato, d’altra parte, segnalato dalla dottrina la quale aveva rilevato come essa, oltre che limitare il diritto di elettorato (attivo e passivo), potesse essere letta nel senso di andare ben oltre la garanzia delle pari chances, per influire direttamente sui risultati elettorali (Raveraira).
La Corte, con una sentenza, che a me pare convincente (la n. 4 del 2010), ha respinto ogni dubbio, ponendo l’accento sulla natura antidiscriminatoria, e non di azione positiva vera e propria, della disposizione in questione “posto il reciproco paritario condizionamento tra i due generi nell’ipotesi di preferenza duplice” e posta “la libertà dell’elettore di decidere di non avvalersi (della ulteriore) possibilità, che gli viene data in aggiunta al regime ormai generalizzato della preferenza unica”.
Più critica l’autrice che, nel valutare l’intera vicenda, si preoccupa della non sicura effettività di disposizioni che, pur dirette sostanzialmente a favorire le candidature femminili, non garantiscono, proprio per la loro veste “neutrale”, il raggiungimento di un reale equilibrio di genere nella rappresentanza politica. Essa volge così nostalgicamente l’attenzione verso le vecchie azioni positive che, pur limitate nel tempo e nelle modalità di applicazione, cercano in modo più esplicito (e quindi più efficace) di realizzare un identico risultato.
Ma questo potrebbe costituisce l’oggetto di una futura discussione.