Il primo fascicolo del 2019 dell’Osservatorio ospita una serie di saggi caratterizzati da quell'approccio interdisciplinare al tema delle fonti che contraddistingue da sempre la nostra Rivista. Il numero è arricchito da due speciali che contengono gli atti di incontri di studio dedicati a temi assai rilevanti quali il Governo della Repubblica a trent’anni dalla legge 400 del 1988 e la recentissima ordinanza n. 17 del 2019 della Corte costituzionale
Quest’ultimo, in particolare, nasce dall’idea di organizzare, quasi in tempo reale, un seminario dedicato alla pronuncia che ha deciso nel senso dell’inammissibilità il ricorso per conflitto d’attribuzione tra poteri dello Stato promosso da un certo numero di parlamentari (37 senatori) contro il Governo per supposta violazione dei diritti dei medesimi a conoscere e discutere i contenuti della legge di bilancio 2019.
Al seminario, stimolato dalle domande poste da Erik Longo e Renato Ibrido e dall’introduzione svolta da Nicola Lupo, hanno partecipato gli studiosi fiorentini, anche i più giovani, che collaborano attivamente alla Rivista. Non potendo riassumere i numerosi spunti di riflessione che emergono dalla lettura dei contributi, mi limiterò a segnalare quelli che a mio avviso sono i punti dell’ordinanza che meritano attenzione e approfondimento.
Non potendo riassumere i numerosi spunti di riflessione che emergono dalla lettura dei contributi, mi limiterò a segnalare quelli che a mio avviso sono i punti dell’ordinanza che meritano attenzione e approfondimento.
Il primo riguarda la legittimazione a sollevare conflitto di attribuzioni tra i poteri dello Stato di singoli parlamentari, legittimazione ammessa dalla Corte in quanto essa accredita i medesimi di specifiche prerogative di diretta derivazione costituzionale che, ove lese, consentirebbero di essere difese uti singuli, rappresentando la loro individuale manifestazione di volontà in questo senso come espressione definitiva della volontà del potere cui appartengono (realizzando così il presupposto necessario per sollevare il ricorso). Affermazione questa tutt’altro che scontata anche alla luce di precedenti decisioni nelle quali invece la Corte era pervenuta a conclusioni opposte (richiamate al punto 3.1 del considerato in diritto). Per quanto le diverse ipotesi non siano del tutto assimilabili a quella oggetto dell’ordinanza in questione, si tratta di valutare se le motivazioni addotte ora per arrivare ad una soluzione opposta siano davvero convincenti o non presentino qualche elemento di contraddittorietà rispetto alla richiamata giurisprudenza precedente.
Il secondo punto sul quale vale la pena dedicare attenzione riguarda l’accenno (a me pare fatto per escludere più che per ammettere) alla possibilità che analoga legittimazione venga riconosciuta ai gruppi parlamentari. In merito, la Corte si esprime, è vero, in senso negativo, ma sulla base dell’assenza, agli atti, di un’apposita delibera al riguardo. Si tratta di un’indiretta apertura o di una chiusura netta che andrebbe allora giustificata in modo più articolato alla luce delle sicure prerogative costituzionali dei gruppi e della regola che impone come obbligatoria l’inscrizione ad un gruppo da parte del parlamentare al momento dell’ingresso in carica?
Il terzo punto attiene ad un aspetto che in qualche modo prelude alla decisione nel merito del ricorso. Alludo, in particolare, al riferimento operato dalla Corte al diritto parlamentare (scritto e di prassi) come parametro di giudizio (oltre che ovviamente alle disposizioni costituzionali). Un diritto qualificato come caratterizzato da “un alto tasso di flessibilità e di consensualità”, che consente, sempre per usare le parole della Corte “un ampio margine di apprezzamento nella sua applicazione” a tutela dell’autonomia dell’organo costituzionale Parlamento. Ma con un limite, quello rappresentato dalle “violazioni manifeste delle prerogative dei parlamentari, talmente evidenti da poter essere rilevate anche in sede di prima sommaria delibazione della questione”. Si tratta di una serie di considerazioni che appaiono condivisibili in linea di principio, ma che suonano come un’indiretta giustificazione di prassi note e che sono state da sempre considerate in contrasto con la disciplina costituzionale del procedimento legislativo. Un’impressione che sembrerebbe rafforzata da quanto si legge al punto 4.3 del considerato in diritto, dove pur condannando la prassi della presentazione di maxi-emendamenti da parte del Governo, accompagnata dalla posizione della questione di fiducia, in quanto assai poco rispettosa del disposto dell’art. 72 Cost., la Corte afferma che “occorre considerare che tale prassi si è consolidata nel tempo e che se ne è fatta uso sin dalla metà degli anni ’90 anche per l’approvazione delle manovre di bilancio da parte di governi di ogni composizione politica, in cerca di risposte alle esigenze di governabilità”. Ma, se così intesa, l’affermata “flessibilità e consensualità” del diritto parlamentare non rischia di fare agio su tutto, anche sulle regole costituzionali?
Ancora, un quarto punto riguarda la decisione nel merito del ricorso con la quale la Corte, pur rilevando un uso “estremo” della prassi dei maxiemendamenti, non rileva l’esistenza di quelle manifeste violazioni delle prerogative costituzionali dei singoli parlamentari alla luce di due circostanze concorrenti: da una parte la ristrettezza dei tempi determinata dalle lunghe trattative con le istituzioni europee, dall’altra all’applicazione delle regola, di recente introdotta nel regolamento del Senato, in base alla quale, in ipotesi come quella in discussione, prima della discussione del contenuto del maxiemendamento, il Governo lo presenti per la sola ammissibilità in ordine alle coperture finanziarie. Una regola che, dunque, ha visto la commissione bilancio esprimersi solo su questo aspetto (non è chiaro se questa considerazione celi una velata critica a questa parte del nuovo Regolamento del Senato e possa aprire una nuova stagione in tema di controllo sugli interna corporis). Si può in ogni caso dubitare che il richiamo a queste due circostanze di contesto siano di per sé motivazione sufficiente e convincente per approdare al risultato cui la Corte perviene.
Ma, al di là di questi spunti di riflessione c’è un altro aspetto che merita attenzione da parte di tutti gli studiosi, a partire dai lettori della Rivista: siamo così sicuri, come alcuni primi commentatori hanno lasciato intendere, che questa ordinanza rafforzi il ruolo del Parlamento come istituzione? Siamo così sicuri che l’affermata legittimazione a sollevare conflitto d’attribuzione da parte di singoli parlamentari, sia pure nei termini e nei limiti fissati dalla Corte, corrisponda ad una visione matura delle assemblee rappresentative, le cui dinamiche interne sono sempre più da logiche di gruppo perché rispondenti alla funzionalità di tali organi? Tutto il dibattito che da anni si è sviluppato sul ruolo dei Parlamenti, compreso il nostro, non ha forse avuto al centro la disciplina dei rapporti tra maggioranza e opposizione (opposizioni); una disciplina tanto più difficile ove sulla logica di gruppo si tenda a far prevalere quella di cui il singolo parlamentare è portatore?
Nell’ambito del secondo speciale dedicato al convegno “Il Governo della Repubblica a trent’anni dalla Legge n. 400/1988”, svoltosi a Verona lo scorso dicembre, si collocano contributi molto variegati, ognuno focalizzato su profili specifici della legge n. 400/1988.
L’introduzione di Giampietro Ferri mira a svolgere un “consuntivo” sul ruolo del Governo a trent’anni dall’approvazione della legge n. 400 del 1988. L’Autore, muovendosi lungo un arco temporale che va dalla cd. “prima Repubblica” fino alla più recenti vicende, evidenza i rilevanti mutamenti del sistema politico-istituzionale, per giungere all’amara conclusione che «per l’esercizio in concreto dei poteri costituzionali del Presidente del Consiglio, più che le regole scritte (della legge n. 400/1988), contano le condizioni politiche».
Anche Giovanni Guiglia analizza la legge n. 400/1988 in una prospettiva ugualmente dinamica, guardando alle interazioni tra Governo, Parlamento e Presidente della Repubblica e alle prassi costituzionali, dedicando particolare attenzione al concreto funzionamento delle istituzioni politiche, senza tralasciare anche i profili multidisciplinari inerenti, ad esempio, alla scienza politica. L’Autore configura la legge n. 400/1988 come «legge organica», perché integra l’art. 95 della Costituzione come legge «costituzionalmente necessaria» e la definisce, altresì, una legge «di sistema», poiché individua minuziosamente le funzioni spettanti al Consiglio dei Ministri e al suo Presidente.
Silvio Troilo ricostruisce, invece, la struttura del Governo a partire dall’epoca statutaria, per poi analizzare la disciplina costituzionale e le successive previsioni della legge n. 400/1988. L’Autore si sofferma analiticamente sulla disciplina della articolazione interna dell’esecutivo, comprese le strutture serventi della Presidenza del Consiglio, gli organi non necessari del Governo, il Vice-presidente del Consiglio, i Ministri senza portafoglio, i Sottosegretari di Stato, i Vice-ministri, i Commissari straordinari del Governo, i Comitati interministeriali ed il Consiglio di Gabinetto.
Gloria Marchetti segnala l’allontanamento dalla Costituzione e dal modello della legge n. 400/1988 con particolare riguardo alla delegazione legislativa. L’Autrice evidenzia le prassi che hanno determinato uno spostamento della funzione di indirizzo normativo dal Parlamento al Governo ed hanno, inoltre, portato ad una progressiva alterazione dei rapporti tra questi organi costituzionali.
Nel contributo di Daniele Butturini si ricostruisce il ruolo del Presidente del Consiglio dei Ministri nel dibattito in Assemblea costituente, svoltosi nella seconda sottocommissione. L’Autore evidenzia la costante dicotomia tra principio monocratico e principio collegiale nel dibattito costituente, come specchio dei diversi orientamenti delle principali forze politiche presenti in Assemblea, e i suoi riflessi sulla formulazione finale dell’art. 95 Cost.
Matteo Losana si sofferma, invece, su quella che definisce come l’«attività propriamente esecutiva» del Governo, ovvero sull’attuazione tramite atti normativi di grado secondario delle fonti di grado primario. L’Autore evidenzia le numerose criticità di fenomeni ampiamente indagati in dottrina come la «fuga dalla legge» e la «fuga dal regolamento» senza, però, tralasciare profili meno analizzati come l’elevato numero di rinvii a provvedimenti di attuazione contenuti nelle leggi e negli atti aventi forza di legge, o la parcellizzazione dell’attività propriamente esecutiva tra le diverse amministrazioni ministeriali e il vertice dell’esecutivo.
Fabio Corvaja analizza l’evoluzione dell’istituto della Conferenza Stato Regioni, a partire dalla gestazione politica, ben precedente alla legge 400, nel progetto elaborato dalla commissione Bassanini, al disegno di legge Spadolini relativo all’ordinamento della Presidenza del Consiglio, fino alla concreta nascita in via amministrativa, attraverso il d.P.C.m. 12 ottobre 1983.
Infine, nelle considerazioni conclusive di Giovanni Tarli Barbieri ci si interroga «nuovamente sul rendimento istituzionale» della legge n. 400/1988. L’Autore ricorda come, nonostante i limiti emersi in questo trentennio, la legge 400/1988 abbia avuto una «grande rilevanza istituzionale», proprio «in quanto legge attuativa della Costituzione che disciplina ambiti in precedenza rimessi a fonti precostituzionali o a prassi ovvero, per alcuni essenziali profili, a regole non scritte (consuetudini o convenzioni costituzionali), con ciò superando una quarantennale situazione di immobilismo». L’Autore riconosce la necessità di un intervento di riforma, mediante una legge costituzionale sulla disciplina delle fonti o, quantomeno, con una legge organica adeguatamente «coperta» da una disposizione costituzionale, ma esclude che l’attuale contesto politico possa portare ad un simile epilogo, a causa della scarsa attenzione che ormai da decenni Parlamento e Governo riservano alle problematiche della produzione normativa.
Per quanto riguarda la sezione saggi, Antonio Bellizzi affronta il delicato tema della “obsolescenza programmata” dei beni strumentali. Il tema, che potrebbe sembrare di primo acchito di esclusivo interesse per il civilista, in realtà offre molti spunti interessanti per chi studia il diritto costituzionale e la teoria delle fonti. L’Autore infatti riflette a lungo anche su come tale problematica si intersechi con quella del diritto alla riservatezza e offre una interessante analisi del ruolo normativo dei regolamenti UE e dei provvedimenti della AGCM.
Di chiaro interesse per la teoria delle fonti è il saggio di Grazia Vitale, che tratta invece delle raccomandazioni UE. In questo contributo si chiarisce in primo luogo come tale particolare categoria di fonti possa produrre rilevanti effetti giuridici, pur non avendo formalmente alcuna vincolatività; la successiva interessante questione che viene quindi posta nel saggio è se, ed eventualmente in quali forme e modi, sia esperibile un controllo di legittimità sulle raccomandazioni davanti alla Corte di giustizia.
Federico Orso ripercorre la singolare vicenda (iniziata con il d.l. 115/2018) che ha portato a un notevole svuotamento di competenze della giustizia sportiva, con contestuale riallocazione delle stesse sul giudice amministrativo. L’Autore si sofferma in particolare ad analizzare i risvolti, anche in punto di legittimità costituzionale, di tale scelta e offre una complessiva riflessione sul rapporto tra giustizia sportiva e giustizia amministrativa.
Valerio Di Porto e Antonio Piana ci consegnano invece una panoramica, densa di dati e di informazioni, su ciò che è avvenuto nel primo anno delle legislature dal 1994 ad oggi. Secondo gli Autori non è possibile trarre delle conclusioni univoche che valgano in generale, se non che l’approvazione delle leggi di delega nel primo anno costituisce una “cartina di tornasole” utile per comprendere se la legislatura giungerà o meno al suo naturale termine.
Alessandro Rosanò ci conduce con il suo saggio nella tematica del “dialogo tra corti”, inteso non come “dialogo istituzionale”, ma come “cross-fertilization” (“fecondazione incrociata”), ossia come scambio di idee e vedute sul medesimo soggetto. Rosanò analizza in particolare il “dialogo” tra Corte Suprema USA e Corte EDU. Qui le conclusioni non lasciano spazio a molte illusioni, come talvolta se ne sono nutrite in passato: i riferimenti giurisprudenziali “incrociati” sono quasi sempre ornamentali e volti a confermare la giurisprudenza di ciascuna corte. L’Autore ritiene tuttavia che il metodo della comparazione apporti benefici e auspica che ne venga fatto un uso vieppiù frequente.
Da ultimo, il saggio di Patrizia Vipiana torna su un dibattito classico, ma sempre attuale, ossia quello sullo status di “leggi costituzionalmente necessarie” delle leggi elettorali. La disamina chiarisce come e in che termini la “necessarietà” costituisca un preciso vincolo in capo al corpo elettorale (che può esprimersi tramite il referendum abrogativo), alla Corte costituzionale e al legislatore stesso.