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Editoriale n. 1/2020

Grisolia

Le modifiche alle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale

1. “La Corte si apre all’ascolto della società civile”: con questa intestazione L’Ufficio stampa della Corte costituzionale ha diramato l’11 gennaio scorso un comunicato con il quale si dava notizia di alcune importanti modifiche alle norme integrative per i giudizi davanti a se medesima; modifiche deliberate tre giorni prima ed entrate in vigore, dopo la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, il 22 gennaio successivo.
Esse riguardano in primo luogo il giudizio in via incidentale, ma, con la sola eccezione della disposizione in materia di intervento di terzi, si estendono anche agli altri giudizi, escluso quello di ammissibilità del referendum abrogativo (v. artt. 23, 24, 25 n. i.)
Quasi superfluo esprimere il favore per questa iniziativa, ampiamente condivisa in dottrina, la quale apre in modo significativo la Presidenza di Marta Cartabia; la prima donna – mi sia lecito sottolinearlo - ad assumere questo ruolo dal lontano 1956; anno di inizio dell’attività della Corte.

Un rilievo, va subito aggiunto, che non è riconducibile ad una sorta di maggiore legittimazione che il Giudice costituzionale verrebbe ad acquisire attraverso un più diretto contatto con la società: non avendo la Corte bisogno di ricorrere a nuove strategie per accrescere un consenso, già ampiamente accumulato con l’autorevolezza delle sue decisioni.
Il valore di tali innovazioni va, a mio giudizio, soprattutto ricondotto alla loro positiva incidenza sui meccanismi del nostro sistema democratico; rendendo più articolato e diretto il rapporto tra Corte e cittadini, resi oggi più coscienti delle loro garanzie e delle loro tutele a fronte di leggi di dubbia costituzionalità (v. T. GROPPI, Nuovo corso della Consulta sotto il peso della trasparenza; in La voce.info, 17 gennaio 2020).
Difficile, infatti, non sottolineare, diciamo così, il “coraggio” dimostrato dal Giudice costituzionale, il quale, per primo, sembra oggi dare una risposta alle sempre più pressanti istanze di partecipazione che provengono dalla società civile; ormai capace di esprimere, attraverso le infinite potenzialità offerte dalla “rete”, opinioni ed indirizzi non più frammentati ed occasionali, ma in grado di influire continuativamente sulle scelte di vertice del nostro sistema.
Fra loro diversi i profili fatti oggetto di questa riforma: l’ampliamento, in primo luogo, del contraddittorio nel giudizio incidentale a soggetti “titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto ed immediato al rapporto dedotto in giudizio” (art. 4, comma 7 e art. 4 bis delle n. i.). L’introduzione, poi, della figura dell’amicus curiae. E cioè la possibilità concessa a “formazioni sociali senza scopo di lucro” e a “soggetti istituzionali” se “portatori di interessi collettivi o diffusi attinenti alla questione di costituzionalità” di presentare brevi memorie per offrire alla Corte “elementi utili alla conoscenza e alla valutazione del caso, anche in ragione della sua complessità” (art. 4 ter delle n. i.). La previsione, infine, di audizioni di “esperti di chiara fama” in una apposita adunanza in camera di consiglio, alla quale possono assistere le parti costituite”. E ciò ogni qual volta il giudice costituzionale “ritenga necessario acquisire informazioni attinenti a specifiche discipline” (art. 14 bis delle n. i.).

2. Non che tali riforme non fossero annunciate.
Un qualche segnale in tal senso, ancora molto sfocato ma comunque concreto, si può addirittura ritrovare nella tanto discussa ordinanza n. 17 dello scorso anno; allorquando la Corte, dopo numerosi e successivi dinieghi, ha per la prima volta ammesso al conflitto il singolo membro delle Camere, esprimendo una inaspettata apertura verso un maggior attivismo dei meccanismi istituzionali posti a garanzia della democrazia parlamentare.
Con quella ordinanza, come è noto, il giudice costituzionale, pur respingendo il conflitto sollevato da un gruppo di parlamentari (uti singoli, ma anche quali componenti di un gruppo e di una quota rappresentativa delle minoranze), aveva infatti riconosciuto la legittimazione dei membri delle Camere a sollevare conflitto: “Lo status di parlamentare – ha affermato la Corte – comprende un complesso di attribuzioni inerenti al diritto di parola, di proposta e di voto che gli spettano come singolo rappresentante della Nazione (…) sicchè - ha concluso il giudice costituzionale – nell’esercizio di tali attribuzioni egli esprime una volontà in se stessa definitiva e conclusa, che soddisfa quanto previsto dall’art. 37, primo comma, della legge n. 87 del 1953”.
Sappiamo come la Corte ha poi applicato con molta prudenza i principi formulati in quella decisione (v. le ordinanze nn. 274 e 275 del 2019 e 60 del 2020). E, tuttavia, ci pare, che sullo sfondo di essa si possano già cogliere i prodromi di un cambiamento che risponde perfettamente alla logica di apertura che aveva ispirato i giudici nell’ammettere il parlamentare al conflitto.
Più diretto e mirato, invece, il Seminario organizzato dal giudice costituzionale proprio sul tema dell’intervento dei terzi e degli amici curiae. Seminario nel corso del quale si era molto discusso sulla opportunità di tale ipotesi anche alla luce di esperienze già maturate altrove e perfino sperimentate nelle prassi informali che hanno guidato l’attività della Corte (v. il Seminario "Intervento di terzi e amici curiae nel giudizio di legittimità costituzionale delle leggi anche alla luce dell’esperienza di altre corti costituzionali e sovranazionali”, Roma, Palazzo della Consulta, 18 dicembre 2018, cui si dà conto in Quaderni costituzionali, n. 2, 2019).
Come è stato sottolineato nel corso di quell’incontro, infatti, giudici ed assistenti non rinunciavano ad esaminare le memorie che accompagnano le richieste di intervento avanzate in giudizio (e dichiarate inammissibili) per le ricerche preparatorie alle decisioni (v. T. GROPPI, Verso un giudizio costituzionale aperto? Riflettendo su interventi di terzi ed amici curiae di fronte alle sfide per la giustizia costituzionale nel XXI secolo, in Quad. cost., 2019, n. 2, p. 382).
E ciò secondo una prassi alla fine regolamentata dall’allora Presidente Lattanzi con una lettera inviata alla Cancelleria della Corte, dove si chiariva che non si dovesse ammettere l’accesso agli atti prima del giudizio di ammissibilità dei terzi intervenienti; fino ad allora posti in grado di presentare memorie non solo sulla loro legittimazione, ma anche sul merito della questione (v. la lettera del 21 novembre 2018).
Tanto meno, giudici ed assistenti, rinunciavano ad acquisire, sia pure in via informale, tutte quelle indicazioni che giungessero al giudice costituzionale e che esso giudicasse utili alla soluzione di casi particolarmente complessi per la delicatezza della materia trattata (v. da ultimo, i pareri, di cui si è data notizia sulla stampa, giunti alla Corte, in aggiunta a quelli formalmente acquisiti, sul complesso caso Cappato: La Repubblica, 11 gennaio, 2020).
E, d’altra parte, dicevamo, non mancano esempi provenienti da esperienze già maturate altrove. Particolarmente significativi, tra gli ordinamenti di civil law, il caso tedesco, che prevede aperture a persone fisiche e giuridiche, che siano utili alla decisione, o i casi belga e francese, che ammettono in giudizio i terzi che abbiano interesse alla questione, anche se risultino portatori di meri interessi diffusi.
Ancora più significativo, per il rilievo internazionale dell’organo, il caso della Corte EDU: l’art. 36.2 della CEDU e il regolamento di procedura della Corte già da tempo prevedono, quali amici curiae, l’intervento, oltre che degli Stati che non siano direttamente coinvolti nel giudizio, quello di ”ogni altra persona interessata”. Una disposizione, questa, che nell’interpretazione estensiva data dal giudice europeo, ha ammesso al giudizio anche le molte organizzazioni non governative, ritenute evidentemente in grado di fornire un non inutile apporto quanto alla tutela di diritti fondamentali (v. ancora T. GROPPI, op. cit., p. 375 ss.).

3. Esaminiamo i diversi profili che caratterizzano queste novità.

a) L’ampliamento del contraddittorio a soggetti titolari di un interesse qualificato
Tra le modifiche introdotte, questa, che riguarda il solo giudizio in via incidentale, è certamente la più annunciata.
Che il giudizio incidentale sia stato per molto tempo impostato più che sulla tutela delle parti direttamente coinvolte nel processo principale, sulla tutela dell’interesse istituzionale della costituzionalità delle leggi, è cosa da sempre sottolineata dalla dottrina che ha parlato di “un giudizio senza parti” (R. ROMBOLI, Il giudizio costituzionale come processo senza parti, Giuffrè, Milano, 1985) o a parti eventuali (G. ZAGREBELSKY, V. MARCENO’, Giustizia costituzionale, Il Mulino, Bologna, 2012). Con la conseguente ammissione dei soggetti che hanno dato avvio al giudizio medesimo e l’esclusione di un ampliamento del contraddittorio a soggetti ad esso estranei.
E, tuttavia, lo sappiamo, il giudice costituzionale si è lentamente avviato su un percorso meno chiuso e rigoroso.
E’ inequivoca testimonianza di questa volontà, ma anche delle incertezze che l’hanno caratterizzata, l’estrema laconicità della prima novella regolamentare del 2008 che, nell’ammettere al giudizio soggetti terzi, faceva generico riferimento ad “altri soggetti”, inizialmente non ben definiti e, poi, identificati dalla Corte nei soli “terzi titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto ed immediato al rapporto dedotto in giudizio”; così come oggi appunto recita il nuovo comma 7, dell’art. 4 delle norme integrative, recependo questa giurisprudenza (v. ex plurimis, l’ordinanza letta all’udienza del 4 giugno 2019 allegata alla sentenza n. 206 del 2019).
La nuova disposizione se, come appena detto, ricalca l’indirizzo già da tempo assunto dal giudice costituzionale, ha tuttavia il merito di regolare nel dettaglio tale accesso; prima lasciato alla mera discrezionalità della Corte ed oggi puntualmente disciplinato attraverso una serie di passaggi procedurali, che finalmente porranno fine alle non poche oscillazioni e alle molte incertezze che hanno contraddistinto le decisioni del giudice costituzionale (A. PUGIOTTO, Per una autentica dialettica a Corte. Note a margine del seminario promosso a Palazzo della Consulta, in Quad. costit., n. 2, 2019, p. 364).

b) L’intervento dell’amicus curiae.
Meno scontata, invece, la seconda modifica, la quale introduce la figura del c.d. amicus curiae. E cioè di soggetti che, portatori di interessi collettivi o diffusi attinenti alla questione, chiedano di partecipare al processo per apportare ulteriori elementi conoscitivi, senza assumere la qualità di parti.
E’ questa una figura astrattamente non esclusa dalla novella regolamentare del 2008, ma fino ad oggi non ammessa al giudizio per non alterare - a detta dello stessa Corte - i caratteri strettamente legati ai canoni della rilevanza e della non manifesta infondatezza (“l’ammissibilità di interventi ad opera di terzi, titolari di interessi soltanto analoghi a quelli dedotti nel giudizio principale – ha affermato il giudice costituzionale - contrasterebbe con il carattere incidentale del giudizio di legittimità costituzionale, in quanto l’accesso delle parti al detto giudizio avverrebbe senza la previa verifica della rilevanza e della non manifesta infondatezza della questione da parte del giudice a quo (v. ex plurimis, l’ordinanza allegata alla sentenza n. 272 del 2012). E forse, sempre la Corte, ancor più preoccupata di aprire la strada a forme di intervento più incisive e non rientranti nel suo potere regolamentare, come l’accesso diretto del singolo cittadino o delle minoranze parlamentari, fatto oggetto di ampie discussioni e sempre guardato con molta circospezione e prudenza.

c) La consulenza di esperti di chiara fama.
Infine, l’ultima modifica, che prevede la consulenza di esperti di “chiara fama”, formalmente inserita nel contraddittorio tra le parti.
Il nuovo art. 14 bis delle n. i. prevede che “la Corte, ove ritenga necessario acquisire informazioni attinenti a specifiche discipline, dispone con ordinanza che siano ascoltati esperti di chiara fama in apposita adunanza in camera di consiglio alla quale possono assistere le parti costituite”.
La stessa norma prevede, poi, che “con l’autorizzazione del Presidente, le parti possano formulare domande agli esperti”.
Con questa modifica, assai dettagliata e apparentemente satisfattiva, si formalizza l’acquisizione di pareri che servano alla Corte per un suo più meditato giudizio.
E, tuttavia, ci pare, che la nuova disposizione solo in parte sia davvero soddisfacente.
Benchè tali interventi rivestano una natura strettamente tecnico-giuridica, le posizioni espresse dagli esperti non sempre risultano univoche; pure anche essi “di chiara fama”. E ciò soprattutto se la materia in oggetto sia particolarmente complessa e “sensibile”.
Mi domando, allora, se possa davvero costituire un valido contraddittorio la sola presenza delle parti in camera di consiglio (sia pure esse ammesse ad intervenire previa autorizzazione del Presidente) e se, una volta imboccata la strada dei pareri formali, essa possa davvero esaurirsi nei soli rilievi formulati dagli esperti commissionati dalla Corte. Forse, invece, poteva essere più congruo ammettere un più ampio contraddittorio ogni qualvolta le parti volessero controbattere, con argomentazioni più incisive del mero intervento in camera di consiglio, le tesi avanzate in giudizio.
La norma nulla dice a riguardo. Una tale possibilità potrebbe forse ammettersi in via interpretativa, arricchendo il processo di un più ampio e più efficace confronto tra le diverse posizioni.

4. Detto ciò, quali, più in generale, le ragioni a favore e contro tali innovazioni.
Lo abbiamo già sottolineato: le aperture operate dalla Corte alla “società civile” sono una indubbia risposta alla esigenza di aprire il processo costituzionale ad una maggiore dialettica argomentativa in funzione – come è stato detto - non solo argomentativo-collaborativa rispetto alla decisione da assumere, ma anche partecipativo-rappresentativa, dando voce ai soggetti che si trovino ai margini del dibattito e delle scelte pubbliche (T. GROPPI, Verso un giudizio costituzionale aperto?, cit., p.383)
Andrea Pugiotto, nello scritto già citato, ha declinato in modo suggestivo tale esigenza, specificando i diversi profili che ad essa si ricollegherebbero (A. PUGIOTTO, op. cit., p. 362 ss.).
- In primo luogo, la necessità di creare anche nell’aula dove si svolge il “processo alla legge” una giusta simmetria con la dialettica che caratterizza il confronto che si ha nelle aule parlamentari e in quelle giudiziarie; entrambe aperte, in ragione delle rispettive esigenze, ad un contraddittorio ben più articolato e serrato.
- Una maggiore considerazione, poi, della doppia natura della funzione giurisdizionale svolta dalla Corte. Diretta, da un lato, alla tutela delle posizioni soggettive del giudizio principale e, quindi, tutta interna al perimetro dell’art. 24 Cost. Indirizzata, dall’altro, verso la garanzia, invece, della legalità costituzionale. Come tale, necessariamente comprensiva di tutti i principi espressi dall’art. 111 Cost.: il giusto processo, il contraddittorio fra le parti, la parità delle armi, la terzietà ed imparzialità del giudice.
- Infine, ma non ultimo, il rafforzamento, in un momento di crisi della rappresentanza quale è quello attuale, del sindacato di costituzionalità, quale canale alternativo al procedimento decisionale politico-parlamentare, in chiave riformatrice o di ripristino della legalità costituzionale, eventualmente violata dal legislatore.
All’opposto, queste le preoccupazioni.
- Un aumento del tasso di litigiosità, che trascini il giudice costituzionale in un circolo mediatico, che ne mini l’autorevolezza.
- Il possibile dilatarsi dei tempi processuali a tutto scapito della necessaria tempestività della pronuncia della Corte.
- Una maggiore problematicità del giudizio che ne possa pregiudicare la necessaria serenità.
- L’attenuarsi della neutralità dell’istruttoria, inevitabilmente contaminata dall’apporto di diverse idee e conoscenze (V. MARCENO’, Solitudine della Corte costituzionale davanti a questioni tecniche, in Quad. cost., n. 2, 2019, p. 394 ss.).
Su ognuna di queste ragioni, sia quelle a favore sia quelle contrarie, molto potremmo discutere.
A conti fatti, tuttavia, mi pare che il cuore del problema stia tutto nella preliminare accettazione di una possibile “torsione metodologica” nell’attività della Corte, che potrebbe andare anche oltre le modifiche appena approvate.
L’apertura del giudice costituzionale ad un più articolato confronto tra le diverse parti interessate potrebbe, infatti, riflettersi in una qualche attenuazione del rigoroso rispetto di quel principio di stretta collegialità che ha sempre guidato l’attività della Corte. E ciò in considerazione dell’emergere di esigenze che, suggerite dall’apertura ad un più ampio confronto, aprano la strada a meccanismi in grado di dare ad esso la trasparenza e la testimonianza necessarie.
Si potrebbe così riproporre all’orizzonte l’antica problematica, mai sopita, della introduzione nel nostro sistema costituzionale dell’istituto dell’opinione dissenziente. Un istituto che potrebbe assumere nuova legittimazione quale strumento, appunto, complementare ad un giudizio che si vuole più articolato e ricco di apporti esterni ad una decisione, non sempre presa all’unanimità. Potrebbe, allora, ritenersi addirittura necessario rendere pubbliche le posizioni dei giudici dissenzienti specie nei casi più discussi e controversi, dove sia più difficile comprendere il percorso seguito dalla Corte (P. RIDOLA, La Corte si apre all’ascolto della società civile, Editoriale, in Federalismi.it , 22 gennaio, 2020, p. 13). Con tutti i problemi e le perplessità che, come sappiamo, hanno da sempre circondato una tale ipotesi e che, tuttavia, potrebbero ripresentarsi sotto una luce diversa a fronte di realtà che ne reclamassero una nuova giustificazione (v. da ultimo su questo dibattito v. N. ZANON, G. RAGONE, The dissenting opinion. Selected essays, Giuffrè, Milano, 2019).
Ma ancora, sotto diverso profilo, non escluderei, come già sottolineato, che le recenti aperture possano costituire i prodromi di riforme questa volta non dipendenti dalla sua volontà, ma da quella degli organi parlamentari; riforme alle quali essa ha fino ad oggi guardato con non poca circospezione.
Mi riferisco all’introduzione dell’accesso diretto di singoli e minoranze parlamentari al giudizio sulle leggi. Una ipotesi molto dibattuta e già proposta in sede di riforme costituzionali, sulla quale si potrebbe anche tornare a discutere a fronte di un giudice divenuto più permeabile alle istanze provenienti dalla società (v. il progetto approvato dalla c.d. Commissione D’Alema il 4 novembre 1997, su cui in particolare, R. ROMBOLI, E. ROSSI, R. TARCHI, La Corte costituzionale nei lavori della Commissione bicamerale, Giappichelli, Torino, 1998).
Sono, queste, ipotesi certo ancora remote, ma non per questo del tutto teoriche o astratte.
Molto dipenderà, io credo, dalla prassi e dalla giurisprudenza che applicherà in concreto queste riforme. Il loro impatto, infatti, è tale che il giudice costituzionale non potrà dare loro applicazione senza prestare costante attenzione e prudenza nelle decisioni che lo attendono, evitando “eccessi” ovvero inutili dinieghi. Un impegno, questo, che dovrà essere affrontato con non minore coraggio e determinazione di quelli già dimostrati con la loro introduzione.

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