Diritto transnazionale o diritti transnazionali? Il carattere enigmatico di una categoria giuridica debole ancora alla ricerca di un proprio statuto
1. Lo studio del c.d. diritto transnazionale ha costituito uno dei punti centrali del progetto di ricerca di ateneo interamente finanziato dall'università di Pisa su: Diritto senza politica. Le forme della produzione giuridica nell’epoca transnazionale.
Si tratta di un tema complesso, sfuggente, poliedrico, enigmatico e, comunque, trasversale ad una molteplicità di settori giuridici.
In questa sede mi limito a sviluppare alcune considerazioni generali a margine della riflessione collettiva che si è sviluppata nell'ambito del webinar pisano del 23 ottobre 2020, su “L’impatto delle dinamiche transnazionali sui sistemi normativi”, di cui questo numero della Rivista pubblica le relazioni.
In prima battuta credo sia opportuno focalizzare l'attenzione sulla contestualizzazione dell’aggettivo transnazionale; né il titolo della ricerca, né quello del convegno lo utilizzano in abbinamento al sostantivo diritto, ovvero, non si parla mai espressamente di “diritto transnazionale”.
Nel titolo della ricerca questa qualificazione viene infatti riferita alla nostra epoca storica, quella della contemporaneità, come ben sappiamo caratterizzata da una importante erosione e, in parte, dal superamento dei presupposti e delle coordinate fondamentali del “sistema Vestfalia”, con i suoi corollari della sovranità e della statualità del diritto. Principi progressivamente erosi, negli ultimi decenni, da dinamiche di vario genere, le più importanti delle quali possono essere ricondotte all’espansione ed al rafforzamento di quel reticolato di organizzazioni sovranazionali che operano, con diversi gradi di intensità in tutti i continenti, nella mutazione strutturale delle relazioni economiche, ormai dominate dagli interessi di un capitalismo finanziario che ha assunto dimensioni globali, senza dimenticare la pretesa di offrire un riconoscimento e una tutela (anche in forme giurisdizionali) ai diritti fondamentali della persona, come avviene, solo per limitarci agli esempi più noti, in ordinamenti come quello del Consiglio d'Europa o della Convención Americana sobre Derechos Humanos (Pacto de San José).
Il titolo del convegno, poi, si limita ad evocare proprio queste “dinamiche transnazionali”, un’espressione cui puo’ essere ricondotto un duplice significato; in un primo senso si vuole sottolineare, infatti, che i fenomeni caratterizzati dalla transnazionalità non presentano un carattere statico, ma si sviluppano quasi sempre come processi in costante evoluzione, ciò che corrisponde agli interessi che ne stanno alla base, che, come quelli legati ai rapporti economici o della rete Internet, si evolvono con grande rapidità.
Ma si deve dare conto anche di una seconda accezione: il fenomeno considerato produce regole, che come sinteticamente cercherò di spiegare, possiedono una natura ed esprimono un’efficacia molto diverse tra loro, ciò che corrisponde ad una estrema varietà dei loro procedimenti di produzione. Queste regole diversamente prodotte, tuttavia, sono in grado di esercitare un’influenza sia sugli ordinamenti nazionali che su quelli di carattere sovranazionale maggiormente strutturati (come ad esempio l’UE), impattando sui sistemi normativi operanti a questo livello. Pertanto, quale che sia la provenienza del diritto di derivazione transnazionale, ed anche in presenza di fatti produttivi di regole non riconducibili alle categorie codificate delle fonti del diritto (e pertanto qualificabili come fenomeni extra ordinem), appare necessario confrontarsi con queste molteplici manifestazioni di potere regolativo.
Come ha ben spiegato Paolo Passaglia nella sua relazione introduttiva, questa grande varietà di forme in cui il diritto transnazionale si produce e si manifesta, induce allora a parlare di diritti in senso plurale, ciò che conferma immediatamente la stessa debolezza concettuale di questa categoria, che si presenta come una galassia, peraltro priva di un centro gravitazionale unico, nella quale le relazioni tra i molteplici fattori mutano costantemente.
Altrimenti detto, l’espressione diritto transnazionale può essere utilizzata come un contenitore di fenomeni tra loro diversi, che presentano molteplici profili e può essere assunta, quindi, solo in un significato a-tecnico, per finalità eminentemente descrittive.
2. Ora, partendo da questo presupposto, in primis è tuttavia necessario verificare quanto viene ricondotto sotto l’etichetta di diritto(i) transnazional(e) possa effettivamente acquistare anche una valenza prescrittiva e, quindi, qualificarsi come diritto in senso proprio.
In secondo luogo, ammesso e non concesso che si possa rispondere positivamente alla prima domanda, è poi necessario verificare di che tipo(i) di diritto(i) si tratta e di quali relazioni si instaurano con le altre fonti, in particolare con quelle legali proprie degli ordinamenti nazionali.
Per questo si deve partire dalla definizione tradizionale di diritto transnazionale, che come ricordato in alcune relazioni, è piuttosto risalente; la paternità va infatti riconosciuta ad un giurista di Yale, P.C. Jessup, che già negli anni ‘50 del secolo nel tentativo di offrire una qualificazione alla c.d. nuova lex mercatoria, non riconducibile entro gli schemi, né del diritto commerciale, né del diritto internazionale pubblico o privato, definì come Transnational Law: «all law which regulates actions or events that transcend national frontiers. Both public and private international law are included, as are other rules which do not wholly fit into such standard categories» (P.C. Jessup, Transnational Law, New Haven, Yale U. Press, 1956). Come è del tutto evidente, si tratta di una definizione piuttosto generica, che si limita ad individuare un minimo denominatore comune tra discipline eterogenee e che ne mette in risalto, in negativo, il non essere piuttosto che la loro effettiva natura.
Una definizione, quindi, che poco aiuta a risolvere i problemi posti, rispetto alla quale, tuttavia, non si sono registrati, finora, grandi passi in avanti.
In Italia, il primo a parlare di diritto transnazionale è stato Alessandro Pizzorusso nel Corso di diritto comparato del 1983, trattando delle fonti di natura giurisprudenziale. Il Maestro coglie ed inquadra in questa categoria di fonti, quei fenomeni che portano all'impiego di regole giuridiche comuni nell'ambito di ordinamenti diversi, per lo spontaneo riconoscimento dell'idoneità di un principio o di una regola a valere come norma giuridica anche fuori dall’area con riferimento alla quale è stata adottata, in modo indipendente da una sua formale adozione come tale. Ovvero, uno stato adotta un principio o una regola prodotta al di fuori di esso, senza che ciò sia disposto da un esplicito provvedimento normativo o comunque senza che questo effetto sia prodotto da una fonte del diritto riconosciuta come tale, di solito avvalendosi degli spazi di discrezionalità che l'ordinamento accordo gli interpreti, ma, talora, anche in violazione del diritto vigente, secondo lo schema tipico delle fonti extra ordinem.
All'epoca la consistenza quantitativa di queste tecniche per produrre diritto era ancora piuttosto limitata (gli esempi richiamati sono quelli dell’applicazione giurisprudenziale dei principi generali di diritto delle nazioni civili e del patrimonio costituzionale europeo) ma si rilevava l'importanza di una loro configurabilità, sia per l'elaborazione di norme direttamente operanti, sia per la formazione di strumenti interpretativi dei materiali normativi dei diversi ordinamenti giuridici positivi. Peraltro, ne suoi scritti più recenti (il riferimento è a: La produzione normativa in tempi di globalizzazione del 2008 e Delle fonti del diritto, in Commentario del Codice civile Scialoja del 2011, spec. 739 ss.), Pizzorusso ha ripreso e sviluppato tali questioni, rilevando come l’espansione di questi fenomeni avesse ormai assunto dimensioni e una diversità di forme, tali da rendere problematici i tentativi di inquadramento teorico. Non possiamo qui riprendere in dettaglio le argomentazioni utilizzate; possiamo limitarci a riconoscere che mantiene una sua validità la chiave di lettura proposta, che possiamo sinteticamente riassumere richiamando quattro distinti profili: 1) il fenomeno del diritto transnazionale inteso come forma di produzione giuridica, ancora marginale fino agli anni ’80 del secolo scorso, è definitivamente esploso, con una diffusione rilevante e capillare; 2) che esso si manifesta per mezzo di una di strumenti eterogenei tra loro; 3) che l’efficacia prodotta dalle relative fonti ha molto spesso un fondamento extra ordinem, in virtù della capacità di imporsi e di essere applicato come un fatto giuridico; 4) che la sua legittimazione non riposa sulla forza, come per le decisioni politiche, ma o possiede una sua base razionale, o dimostra la propria capacità di essere accettato, con modalità convenzionali, indipendentemente da un vincolo giuridico preesistente o dall’esistenza di una specifica fonte sulla produzione all’interno dell’ordinamento ricevente.
In ogni caso viene messo in crisi il tendenziale monopolio della produzione normativa riconosciuto agli organi costituzionali o ad altri soggetti di derivazione statale.
3. La cifra della complessità emerge con ancora più evidenza dalle più recenti riflessioni della dottrina nordamericana (tra gli altri: G. Shaffer, R. Cottarrell, C. Scott), che, pur segnalando il carattere storicamente ricorrente di fenomeni con analoghe caratteristiche (gli esempi più noti sono quelli del diritto romano e dello stesso Common law, la cui circolazione ha avuto un evidente andamento transnazionale; ma a questi potremmo aggiungere anche taluni sistemi di diritto religioso, come la sharia o l’induismo, la cui applicazione trascende le frontiere degli stati che li riconoscono o in cui sono praticati), ha rilevato come la formula in questione sia riferibile a tre piani distinti: quello delle fonti transnazionali, quello degli ordinamenti giuridici transnazionali e quello dei procedimenti giuridici transnazionali. Questi piani sono strutturalmente collegati ed interdipendenti tra loro, ma non coincidenti. Se l’aspetto procedimentale (che descrive le modalità con cui le norme transazionali sono costruite ed immesse in circolazione da un ordinamento transnazionale), che pure pone rilevanti problemi in termini di legittimazione, può essere accantonato risolvendosi nei due precedenti, la distinzione tra fonti ed ordinamenti transnazionali è senz’altro rilevante, considerato non tutte le regole e i principi di diritto transnazionale derivano da ordinamenti che presentano questo carattere.
Peraltro, le definizioni usate per distinguere gli ordinamenti transnazionali sono altrettanto vaghe; ci si limita a rilevare che essi si pongono in modo terzo rispetto agli ordinamenti tradizionali del sistema vestfaliano e di poter essere definiti solo in negativo, come ordinamenti non statali, non internazionali e, ancora, non necessariamente, globali, potendo operare anche solo con riferimento ad aree geografiche delimitate, oltre che essere costruiti in forme bilaterali, multilaterali o regionali. Su un punto si registra una convergenza di opinioni: vengono messe in crisi le dicotomie strutturali classiche, quali la distinzione tra diritto pubblico e privato, oltre a quella tra diritto nazionale e internazionale, considerato che si interviene per disciplinare attività poste in essere in spazi nuovi, che si collocano ad un livello intermedio tra questi due ordini normativi propri della nostra tradizione giuridica (come chiarito da Silvia Sassi nella sua monografia del 2018).
L’origine di questi ordinamenti può variare, potendo dipendere anche da decisioni adottate da altri ordinamenti preesistenti (tra i quali gli stessi stati), ma l’ipotesi più ricorrente è quella di ordinamenti spontanei, ad opera di comunità di operatori che hanno l’interesse di regolare i loro rapporti in condizioni di autonomia, ponendosi in posizione di terzietà e di tendenziale separazione rispetto agli altri.
Ci troviamo, quindi, in posizioni di frontiera, con la formazione di zone grigie in grado di generare un rapporto osmotico con i sistemi giuridici tradizionali, che subiscono l’influenza dei flussi così generati e possono aprire le loro frontiere consentendo l’operatività delle norme transnazionali al loro interno, sovente senza essere in grado di verificare la compatibilità con il diritto vigente.
4. La complessità di cui abbiamo parlato unita al carattere fortemente interdisciplinare dei fenomeni transnazionali, pone evidenti problemi di metodo con riguardo al loro studio; al tempo stesso sono immediatamente percepibili le criticità che vengono generate, in ordine al rispetto di principi fondamentali espressi e garantiti dal costituzionalismo contemporaneo, ad iniziare da quelli relativi alla tutela di taluni diritti fondamentali, per proseguire con quelli posti a presidio della legittimazione democratica delle principali forme di produzione giuridica, configurando modalità di esercizio del potere, che non può mai farsi illimitato, comunque controllabile.
Partendo dalle questioni di metodo, l’unico approccio possibile rimane al momento quello analitico, che dia conto delle molteplici manifestazioni del diritto transnazionale e dei settori maggiormente interessati da questo fenomeno, ad iniziare da quelli più noti e studiati, che, per questo hanno trovato un certo grado di consolidamento.
Pertanto, si è deciso di approfondire quei temi (già richiamati dallo stesso Pizzorusso), che per i cultori di questi studi possono essere ormai considerati classici che vengono identificati con l’uso di formule sintetiche ed evocative; il più noto e quello più risalente è certamente quello della lex mercatoria, intesa come la disciplina del mercato autoprodotta dai suoi operatori (in Italia se ne sono occupati, tra gli altri Ferrarrese e Galgano); quello della lex informatica, che ricomprende il complesso di norme che regolano Internet; e, infine, la lex sportiva, sottintendendo con questa espressione l’insieme delle regole che disciplino le attività sportive in condizione di (almeno relativa) autonomia. Una definizione, peraltro, messa in discussione nel contributo di Bastianon, che la considera ancora come “un personaggio in cerca di autore”, rilevando come, rispetto questa formula adottata per assonanza con la più consolidata lex mercatoria, sarebbe più appropriato limitarsi a parlare di diritto sportivo.
Se i tre ambiti appena richiamati costituivano una scelta obbligata (e l’indagine ad essi riferita dimostra che la complessità non riguarda solo il diritto transnazionale nel suo complesso ma anche gli ambiti in cui si manifesta), ad essi potevano aggiungersene molti altri, tra quelli che presentano dei profili di transnazionalità. È stato quindi necessario operare una selezione, che ha innanzi tutto privilegiato l’altra questione generale attinente alla circolazione dei modelli giuridici utilizzati per porre in essere tentativi di uniformazione del diritto privato, un tema che ha rappresentato per i comparatisti, un carattere fondativo della propria scienza, fin dal Congresso parigino del 1900. Si è poi deciso di focalizzare l’attenzione su profili forse meno conosciuti ma di non minore rilievo, che attengono, il primo, alla definizione di una cornice per la soluzione di controversie commerciali nella dimensione continentale (tema sul quale si rinvia interamente all’intervento di Lucie Lorenzini); il secondo alla produzione di standard e regole da applicare alle relazioni in materia di economia finanziaria da parte di organismi privati operanti in ambiti sovranazionali (come avviene per il Comitato di Basilea ed il Financial Stability Board); il terzo, alla giurisprudenza di organismi internazionali come l’Appellate Body del WTO in relazione anche alla tutela dei diritti di libertà individuale.
Temi, questi ultimi, che aprono una nuova frontiera, quella del rapporto tra il concetto di diritto transnazionale e c.d. diritto globale (richiamato da più di una delle relazioni), intendendosi con questa seconda espressione l’insieme dei fenomeni regolativi che si estendono all’intero pianeta. Certamente, anche in questo caso si tratta di una nozione in fieri, che, tuttavia, come rilevato da Paolo Passaglia (cui si rimanda per ogni ulteriore considerazione) costituisce un’insidia per la delimitazione (o la stessa sopravvivenza) del diritto transnazionale, che finisce, così, per assumere un portata residuale per l’individuazione di quei fenomeni regolativi per i quali gli elementi del territorio e della stessa sovranità vengono a mancare o, tutt’al più mantengono un valore solo accessorio.
Ciò detto, sono consapevole che l’approccio analitico mette a fuoco solo la parte emersa di quello che si configura come un iceberg, ma non credo siano maturi i tempi per un approccio di sintesi, anche per la limitatezza delle conoscenze che ogni singolo giurista possiede e per l’eccessiva varietà dei fenomeni considerati.
Certamente sono molto utili le proposte, come quella qui sviluppata ancora da Passaglia, di razionalizzazione del poliedrico complesso dei fenomeni studiati, riconducendone la loro transnazionalità a tre fattori distinti, quali l’oggetto di disciplina, la natura dell’autore che produce questo diritto, la circolazione dei modelli giuridici.
Una ricostruzione che segue un ragionamento di tipo indiziario e che rende evidente la natura sintomatica dei diritti transnazionali, confermando la perdurante importanza delle indagini che perseguono finalità di tipo descrittivo; restano, ovviamente, aperte le molteplici questioni che ancora si pongono con riguardo al valore di questo fenomeno ed alla sua estensione.
5. Non è mio compito procedere ad una sintesi delle relazioni pubblicate; cercherò, invece, di cogliere, da esse, alcune linee di tendenza generali, nonché i principali snodi critici che sono stati messi in evidenza.
Tra le molteplici questioni che meriterebbero un riferimento, mi soffermerò sinteticamente sul rapporto tra economia da una parte e il binomio politica/diritto dall’altra; sulla reale possibilità di configurare ordinamenti giuridici transnazionali dotati di una loro significativa autonomia; sull’incidenza che il diritto transnazionale può determinare sulla sfera dei diritti di libertà.
5.1 Il primo profilo da richiamare è quello dell’assoluta centralità della dimensione prevalentemente economica dei fenomeni trattati; solo la lex informatica e quella sportiva, non ne sono interamente attratti, per quanto anche in esse il rilievo degli interessi economici in gioco assuma un valore preponderante. Se questo appare ovvio per la lex mercatoria, per le procedure di soluzione delle controversie del commercio internazionale o per la definizione delle regole di condotta cui devono attenersi gli operatori finanziari, si dovrebbe invece ritenere meno scontato quando si tratta dell’uniformazione del diritto privato. E tuttavia, è proprio il contributo, assai complesso, di Alessandro Somma che, più degli altri, ci fa riflettere come il conflitto tra democrazia ed economia si sia risolto nella subordinazione del diritto (e della politica) all’ordine economico, con un rovesciamento del paradigma posto a fondamento della costruzione dello stato sociale contemporaneo e del principio solidaristico che ne sta alla base.
Questo spiega anche il fallimento dei molteplici tentativi di uniformare il diritto privato, anche limitatamente al solo contesto europeo, che avrebbero potuto codificare solo la legge del più forte. I modelli economici dominanti e lo scontro tra le diverse forme di capitalismo che ha registrato la prevalenza del modello neo-americano rispetto a quello renano, affermano un’idea di a-politicità del diritto privato, funzionale a garantire lo status quo, caratterizzato da una spoliticizzazione dell’ordine economico. In questo quadro anche le trame concettuali utilizzate dai giuristi sono fortemente condizionate dalla scienza economica e lo stesso formante giurisprudenziale (analizzate nell’ambito dell’UE) ha concorso al rafforzamento dell’ortodossia neoliberale.
L’era in cui viviamo è stata definita da Colin Crouch come quella della post-democrazia, che, certamente, alcune forme di diritto transnazionale hanno concorso a rafforzare.
Una conferma esemplare si ricava dall’esame delle attività istituzionali di soggetti quali il Comitato di Basilea e il Financial Stability Board, costituite sulla base di una prassi internazionale con il compito di stabilire regole standard sul capitale delle banche e sugli intermediari creditizi. Si tratta di autorità che non hanno nessun legame con gli organi rappresentativi degli Stati e sono composti da tecnici provenienti dalle Banche centrali dei Paesi appartenenti al G. 10 o al G. 20. Le regole prodotte sono definite di soft law, ma si tratta solo di una parvenza, in quanto nel caso di loro inosservanza un Paese può essere sottoposto alla procedura c.d. di named and shamed (attivata dal Financial Stability Board) che comporta l’iscrizione in una sorta di black list considerata molto rischiosa perché indice di non affidabilità finanziaria. Ne consegue che in alcuni Stati si è proceduto alla recezione spontanea di questi criteri, con una loro trasformazione in disposizioni.
Andrea Pisaneschi si sofferma sulle criticità prodotte da questi atti di condizionalità esterna, che producono effetti devastanti tanto sull’interpretazione delle c.d. costituzioni economiche (ed i diritti ad esse correlati, come quelli sociali, oltre alla tutela del risparmio), che sui sistemi delle fonti, rispetto ai quali si apre un vulnus democratico importante.
5.2 Un’ulteriore considerazione che può essere ricavata da alcune delle relazioni è quello della difficoltà di configurare, ciò che non viene ritenuto neppure auspicabile, la consistenza di veri e propri ordinamenti giuridici transnazionali, sulla base di concorrenti ragioni.
Così, la lunga disputa dottrinale ricostruita diacronicamente da Anne Marie Luciani sulla natura della lex mercatoria sembra essersi conclusa con una rinuncia a sostenere questa posizione istituzionalista; il complesso delle fonti che la costituiscono (principi commerciali transnazionali, usi nella misura in cui vengono anche richiamati da alcune convenzioni internazionali, leggi uniformi prodotte da particolari organismi, giurisprudenza arbitrale), non risulta completo ed autosufficiente, dovendo essere per più di un profilo (come quelli della capacità e del consenso) integrati da disposizioni nazionali di carattere imperativo. Inoltre, difetta un’esclusività del potere di soluzione delle controversie, per le quali non è infrequente la necessità di ricorrere alle giurisdizioni ordinarie.
Luciani considera con favore questa rinuncia, ricordando come un ordinamento siffatto sarebbe caratterizzato da una totale mancanza di democrazia e non sarebbe in grado di assicurare nessuna garanzia dei diritti fondamentali, auspicando la costruzione di un nuovo ordine giuridico del commercio mondiale, che assuma un volto meno imperialista e favorisca una convivenza pacifica con l’integrazione anche delle economie emergenti. Un auspicio, tuttavia, che deve scontrarsi con la dura realtà, che come ci ricorda anche l’intervento di Giuseppe Franco Ferrari, registra oggi una posizione conflittuale da parte degli USA, come dimostrato dal mancato rinnovo nel di uno dei componenti dell’Appellate Board del WTO e da altre decisioni unilaterali assunte dall’amministrazione americana che impediscono la formazione di ulteriori discipline multilaterali sostenute da un significativo consenso.
Ancora più netta la posizione assunta da Stefano Bastianon con riguardo poi alla lex sportiva; prescindendo dai riferimenti alla sua possibile estensione (che rimane controversa come risulta dalle diverse tesi illustrate in proposito e risulta confermato dalla stessa giurisprudenza del CAS di Losanna – Court of Arbitration for Sport, che non è stata finora in grado di fornire una chiave interpretativa univoca), l’anelito di configurarla come un “corpus di regole proprie del settore sportivo costitutivo di un autonomo ordinamento giuridico dalla natura privata e dalla portata globale frutto dell’accordo tra le varie federazioni sportive internazionali ed i soggetti sottoposti alla loro giurisdizione” si è scontrata con la prescrittività del diritto europeo, che con diversi gradi di intensità dal 1957 ad oggi, è stata affermata dalla giurisprudenza della Corte di giustizia. È stata proprio la rilevanza economica dello sport professionistico a determinare l’applicazione ad esso del principio della libera circolazione (la celeberrima sentenza Bosman), con una permeabilità del diritto sportivo anche da parte sia dei diritti nazionali che di quello internazionale, quanto meno per garantirne l’osservanza dei principi generali.
5.3 La compressione dei diritti fondamentali da parte di manifestazioni di diritto transnazionale costituisce sicuramente il profilo più critico sul piano sostanziale.
Questo emerge con particolare rilievo dalle riflessioni sulla lex informatica, considerate le tre direzioni in cui questa si sviluppa (consistenti nella regolazione delle infrastrutture alla base della comunicazione elettronica, dei servizi di accesso alla rete -Internet Providers- e delle applicazioni necessarie per consentire agli utenti l’accesso ai servizi offerti). La specificità, in questo caso, è l’anima liberale e anarchica della rete, così la definisce Gianluca Conti, diventato uno spazio eminentemente privato in cui convivono l’esercizio delle attività economiche e l’esercizio di diritti fondamentali (come quello di espressione). Così, oltre al problema della neutralità degli organismi di governance della rete (come ICANN, una società privata californiana), che sfuggono alla sovranità degli stati, la questione centrale resta quella dei diritti, che, esercitati attraverso delle macchine, trovano una diversa conformazione. Per un verso Conti si chiede se assistiamo all’affermazione di libertà di nuova generazione di estensione globale di cui gli esseri umani, possono diventare costituzionalmente e non solo materialmente titolari, per altro verso, se sono legittimi gli interventi di società commerciali private che operano restrizioni dei diritti fondamentali degli utenti per violazioni di codici di condotta interni a tali società.
La conclusione, condivisibile, ritiene pericoloso che il “linguaggio universale della rete si sostituisca al linguaggio nazionale della sovranità nel definire i diritti fondamentali”, perché ciò comporta il rischio di una restrizione dei diritti fondamentali, di un loro livellamento.
Della compressione dei diritti (ed in particolare di quelli) sociali innescata dai processi di regolazione dell’economia a livello globale abbiamo già riferito; in parziale controtendenza sembra avere operato la giurisprudenza dell’Appellate Board del WTO, a proposito della quale Ferrari evidenzia come, esercitando un ruolo attivo, si sia fatto un uso incrementale della categoria dei diritti umani, talora definiti come fondamentali (ad esempio come il diritto al cibo, alla vita, o alla salute e al trattamento medico) e siano state utilizzate categorie proprie del costituzionalismo contemporaneo, quali il principio di eguaglianza e quello di proporzionalità. Una constatazione in qualche misura sorprendente, tenuto conto dell’ottica squisitamente economica in cui si muove questa autorità. Si tratta, comunque, di un tentativo non compiuto di costituzionalizzazione di una parte del diritto internazionale, che conferma la fragilità degli strumenti di razionalizzazione in un contesto, come quello dell’economia globale, in cui prevalgono i rapporti di forza e le pretese egemoniche portate avanti dalle superpotenze generano conflitti, nei quali le relazioni bilaterali vengono privilegiate rispetto al multilateralismo.
6. In conclusione, voglio tornare sul profilo di un possibile inquadramento del diritto transnazionale nella teoria delle fonti del diritto. A questo proposito ci pare necessario mantenere separati due piani; il primo attiene allo stesso livello transnazionale, nel quale tali normative trovano la loro origine e, per così dire, vivono di vita propria; il secondo si riferisce a quello degli ordinamenti riceventi, in particolare quelli statali, all’interno dei quali le regole transnazionali possono essere utilizzate.
Se ricorriamo alle categorie che distinguono le fonti sulla base della loro legittimazione (diritto politico, giurisprudenziale, consuetudinario, convenzionale e rivelativo) dobbiamo ribadire che la natura eterogenea degli ordinamenti transnazionali si riverbera sul tipo di regole prodotte; che possono quindi appartenere a tutte le categorie indicate, con la sola eccezione delle fonti politiche e di quelle rivelative, difettando, negli ordinamenti transnazionali qui considerati, autorità che possiedono una legittimazione elettorale-rappresentativa o trascendente.
Può quindi trattarsi di diritto giurisprudenziale, sia in quanto prodotto da organismi che esercitano un potere di soluzione di controversie, sia per la creazione ad opera di esperti, anche privati, come spesso avviene quando, soprattutto per la materia commerciale si fa ricorso all’intervento delle c.d. law firms (in questi casi ci troviamo di fronte ad un diritto giurisprudenziale di matrice dottrinaria). Le regole, in questi casi, sono il frutto dell’esercizio di competenze tecniche (non necessariamente tecnico-giuridiche) e sono, quindi, fondate sulla ragione.
Può poi trattarsi di diritto consuetudinario, ove ricorrano i presupposti di questi fatti giuridici, che si concretizza mediante adesione spontanea a modelli di comportamento precostituiti da parte degli operatori di un determinato settore (anche in questo caso l’esempio più limpido è rappresentato da una parte consistente della lex mercatoria).
Ma la categoria più diffusa di diritto transnazionale a noi pare quella del diritto convenzionale: quest’ultimo trova il suo fondamento nel consenso delle parti, o comunque nell’adesione spontanea da parte di soggetti privati in forme contrattuali, per lo più atipiche.
Conclusivamente, quindi, il diritto transnazionale è in larga parte integrato da un complesso di regole a carattere consuetudinario sulle quali si è venuto a formare un consenso anche tacito tra gli operatori di un determinato settore, nonché da un insieme di pratiche applicate in via convenzionale, che sono osservate da un complesso di soggetti che agiscono in un determinato campo di attività (sovente economica) e che le applicano in relazione a rapporti non regolati dal diritto statale (o da altro diritto ad esso collegato). L’osservanza di questo diritto, tuttavia, non è assicurata in modo rigido dagli organi statali o internazionali, per cui si creano degli spazi nei quali gli ordinamenti transnazionali vengono ad inserirsi (come osservava lo stesso Pizzorusso, La produzione normativa in tempi di globalizzazione.
Se si guarda agli ordinamenti tradizionali, quindi, il diritto transnazionale può valere, quindi, come fonte praeter legem (non contra legem); le regole che promanano da questi ordinamenti esterni potranno essere pertanto applicate come forme di soft law, oppure, forse più frequentemente, sul piano dell’interpretazione del diritto statale o internazionale vigente. Eventualità che richiama la natura giurisprudenziale della fonte nel momento della chiusura del sistema. In definitiva, quello transnazionale resta un diritto che sul piano formale non è garantito da un’efficacia direttamente prescrittiva, ma si mostra in grado di influenzare altri formanti (dottrinale e giudiziale), rispetto a quello normativo, o viene accettato su base consensuale, restando, quindi, un “non diritto”, piuttosto che un diritto “extra ordinem”.
Rispetto a questa duplice ipotesi deve essere tenuta distinta quella ulteriore della recezione espressa (magari mediante ratifica di un accordo transnazionale o riforme del sistema normativo esistente), sempre possibile, considerato che gli stati rimangono gli unici detentori della sovranità. In questo caso, diversamente dai precedenti, si produce una vera e propria novazione della fonte e si registra una perdita della transnazionalità delle regole mutuate, che vengono nazionalizzate.
Siamo consapevoli che questo ragionamento può essere tacciato di eccessiva astrattezza; d’altra parte, l’atipicità e la varietà di atti e fatti giuridici che sono riconducibili all’ordine transnazionale nelle sue molteplici declinazioni, congiunto al ruolo determinante che alla fine assume il principio di effettività (che in taluni casi può portare ad una operatività extraordinem di tali regole), una verifica soddisfacente può essere condotta solo empiricamente, mediante una disamina analitica dei fenomeni che si sviluppano nella loro dimensione reale, si tratti di lex informatica, di lex mercatoria, di lex sportiva, di accordi transnazionali o di altro ancora, come si è cercato di fare in questa sede.