Per una strategia condivisa delle riforme costituzionali
1. Il riflesso della crisi del sistema politico sui tentativi di riforma costituzionale
Sono decenni che si dibatte sulle criticità del nostro sistema politico-istituzionale che richiederebbero correttivi alla forma di governo, al sistema delle relazioni tra le articolazioni del potere centrale con quello regionale e locale, al sistema di effettiva tutela dei diritti fondamentali che necessita un ben altro funzionamento dell’amministrazione della giustizia.
Parziali correttivi (da alcune puntuali leggi costituzionali, a quelle di riforma del titolo V della Costituzione) non sono stati risolutivi (tra l’altro, la riforma del titolo V nel risolvere alcune criticità ne ha fatte emergere di nuove).
Molto si è perduto in inconcludenti tentativi di riforma ed in sonore sconfitte referendarie che dovrebbero suggerire di ricercare intese oltre le contingenti maggioranze parlamentari.
Altrimenti, il rischio (ma forse è più appropriato dire ‘la certezza’) è quello di degradare il tema delle riforme costituzionali in strumentale scontro tra le forze politiche, un ragionare sulla base di chi propone anziché di che cosa si propone.
Molto, nel confuso orizzonte del sistema politico, produce ‘coazione a ripetere’ gli errori di prospettiva riformatrice del passato.
Non giova, ad esempio, il frequente uso improprio delle categorie costituzionalistiche, per dare enfasi alla necessità di riforme, come «fase costituente» o «assemblea costituente», che produce significati equivoci rispetto alla immodificabilità dei «principi supremi dell’ordinamento costituzionale».
La disinvoltura nell’uso di concetti costituzionalistici non è fenomeno nuovo, si pensi a suo tempo all’enfasi di una parte non piccola della cultura giuridica che, per sottolineare l’indubbia positiva scelta delle c.d. leggi Bassanini del 1997 di valorizzare il principio di sussidiarietà, affermava come motivo di merito che si fosse in presenza di un mutamento costituzionale a «costituzione invariata», prima ancora della revisione costituzionale del tit. V.
Un argomentare errato e fuorviante. Errato perché il principio di sussidiarietà non veniva introdotto dalle ‘leggi Bassanini’ essendo un espresso portato costituente: hanno semplicemente e coerentemente valorizzato il principio già costituzionalizzato. Fuorviante perché, se si sostiene, come è stato, che un’eventuale variazione de facto della Costituzione con legge ordinaria sarebbe un colpo di genio riformatore, si indebolisce sul piano culturale l’idea della rigidità costituzionale.
Sarebbe auspicabile che le forze politiche acquisissero consapevolezza che un dibattito confuso e fazioso sulle riforme costituzionali indebolisce nell’opinione pubblica la percezione del comune patrimonio costituzionale: preservarlo significa ricercare la condivisione sulle riforme non più eludibili.
Ad ostacolare una tale ricerca è la inadeguatezza delle culture politiche a confrontarsi con le sfide delle società contemporanee. Non giova al confronto sulle riforme costituzionali argomentare per modelli, anziché ragionare per problemi. Né, sulla scia delle animosità polemiche, confondere la critica sul merito con quella sulla costituzionalità delle proposte.
A parziale attenuante della severa critica che le forze politiche pur meritano, va peraltro detto che neppure scienza giuridica e scienza politica godono di buona salute, della capacità di produrre analisi e strumentario per dare risposte non a semplici trasformazioni, ma a metamorfosi della società che ne modificano struttura ed esigenze ordinamentali.
Il sistema politico-istituzionale sembra dunque essere condannato ad un autolesionistico impotente cortocircuito, nonostante nessuno contesti la sempre più accentuata inadeguatezza del suo funzionamento.
Si riproduce da decenni un paradosso: le forze politiche non solo finiscono per non sapere interpretare le esigenze del Paese, ma neppure la loro convenienza che, nel campo delle riforme costituzionali, è procedere per progressive fasi di condivisione. Senza condivisione ne hanno un danno le forze di opposizione perché finiscono per non avere voce in capitolo; senza condivisione le forze di maggioranza corrono il rischio (come già avvenuto) di scoprirsi minoranza nel Paese in sede di referendum (non)confermativo di cui all’art.138 della Costituzione.
Il tutto in un perverso ‘gioco dell’oca’ di ritorno ad una inconcludente casella di partenza.
2. Costruire le opportunità di riforme costituzionali condivise muovendo dalle evidenti criticità del sistema
Se le ipotesi di riforma costituzionale muovono dalla pretesa astratta predeterminazione delle soluzioni, il clima politico che si determina è incline alla contrapposizione, ad un prendere o lasciare. Se si muove dalla disamina delle criticità nel funzionamento delle nostre Istituzioni, l’orizzonte riformatore ha più possibilità di far convergere le forze politiche nel comune obiettivo di individuare soluzioni.
Il clima politico non è incline al dialogo, nondimeno è possibile fare leva sulla diffusa consapevolezza di criticità sistemiche nel funzionamento delle nostre Istituzioni che il Paese non può permettersi di eludere all’infinito. La risoluzione di alcune di queste criticità non necessariamente è foriera di irragionevoli contrapposizioni.
Così, non si può negare il paradosso di una forma di governo parlamentare che, a smentita della sua stessa denominazione, conosce una pluridecennale progressiva perdita di centralità del Parlamento. Né negare che le correlate criticità si ripropongono qualunque sia la maggioranza politica del momento: dall’uso non straordinario della decretazione d’urgenza, a leggi delega dai principi e criteri direttivi atrofizzati, dall’uso reiterato della fiducia che rende la compressione del dibattito parlamentare la regola prevalente, a leggi di bilancio il cui iter da anni è solo formalmente conforme a Costituzione, dallo stesso uso dei regolamenti parlamentari più per comprimere che valorizzare il confronto politico.
Non si può rimuovere la constatazione che i livelli decisionali richiedano, sulla base anche delle recenti emergenze, un ripensamento ‘a dinamiche variabili’ con competenze che vanno ricondotte a livello centrale ed altre perfezionate, potenziate ed ampliate a livello regionale e locale.
Non risulta essere chi neghi come, nell’ambito dell’amministrazione della giustizia, vi sia un intollerabile iato tra previsioni costituzionali ed effettiva tutela dei diritti.
2.1. L’individuazione delle riforme in cui sia possibile costruire ampie condivisioni
Se vi è da tempo consapevolezza delle criticità di funzionamento del sistema politico-istituzionale e nondimeno le ipotesi di riforma tendono a (ri)regredire in infruttuose contrapposizioni, viene spontaneo pensare alla necessità di prospettare percorsi riformatori partendo non da dove maggiori sono le distanze, ma da dove più naturale sia possibile costruire convergenze che attenuino le criticità.
Pensiamo alla sopra ricordata generalizzata constatazione della progressiva perdita della centralità del Parlamento e come questa si rifletta sull’inefficienza complessiva dei circuiti politici nazionali.
Al momento non vi è condivisione su di una riforma della forma di governo parlamentare, ma intanto (che nulla vieterebbe poi, in un clima politico divenuto più collaborativo, affrontare di nuovo il tema) l’obiettivo del recupero di una maggiore capacità decisionale del Parlamento potrebbe essere perseguito attraverso una riforma dall’impatto particolarmente rilevante: quella di un Parlamento monocamerale.
Come noto, il bicameralismo ha un senso negli ordinamenti costituzionali che necessitano la compresenza di due distinti circuiti di rappresentanza politica: è il caso degli Stati federali, che necessitano di una Camera rappresentativa degli orientamenti del corpo elettorale nazionale ed una di rappresentanza degli Stati federati. È stato il caso dello Statuto albertino, con il Sovrano che nel momento in cui si trova costretto a concedere un’assemblea parlamentare elettiva, prevede a bilanciamento un Senato del Regno di nomina regia tra categorie vicine alla Corona.
I fragili minoritari tentativi in Assemblea costituente di fondare il bicameralismo democratico e repubblicano sulla previsione di un Senato rappresentativo delle categorie economiche e professionali o, in alternativa, delle Regioni, hanno lasciato il campo ad un bicameralismo privo della propria ragion d’essere: la differenziazione della rappresentanza politica.
In una sorta di abbrivio istituzionale, per la congenita tendenza di ogni centro di potere alla conservazione, il Costituente ha mantenuto il modello bicamerale, con la residuale motivazione della necessità di una ponderazione delle decisioni attraverso la loro duplicazione.
Ammesso e non concesso che una tale ragion d’essere avesse fondamento sul finire degli anni ’40 del Novecento, dove i ritmi decisionali non conoscevano l’urgenza spasmodica della postmodernità, oggi suona inattuale, contraddittoria e dannosa.
Il bicameralismo dalle identiche caratteristiche e funzioni ritarda la conclusione dei processi decisionali senza che si determini necessariamente una migliore ponderazione rispetto alla concentrazione dei tempi di discussione in un’unica sede.
Tra l’altro, la riduzione del numero dei parlamentari ha creato non pochi problemi nello svolgimento dei lavori, in particolare delle commissioni. Attribuendo ad un unico ramo del Parlamento il numero di parlamentari di entrambe le Camere si risolverebbero tali problemi e si eviterebbero resistenze corporative alla riforma da parte di un ceto politico che troverebbe intollerabile (ed a ragione) un’ulteriore riduzione degli eletti.
Un’unica assemblea disporrebbe di un tempo maggiore in sede di conversione in legge di un decreto-legge, non dovendo condividere i tempi con l’altra Camera; le difficoltà nel disporre del tempo necessario per approfondire le tecnicalità della legge di bilancio sarebbero attenuate rispetto al procedimento attuale, che vede l’assemblea chiamata a deliberare per ultima ridotta ad un ruolo formale e subalterno; più in generale, si renderebbe più rapido e razionale il procedimento legislativo.
Ma ulteriori e vistose sarebbero le ricadute positive. Innanzitutto, rispetto al rapporto tra pubblica opinione, Istituzioni e forze politiche: è immaginabile che i cittadini apprezzerebbero la capacità di autoriformarsi del sistema politico-istituzionale nella direzione di rendere più efficienti ed efficaci i processi decisionali; risulterebbe accresciuta la credibilità del Paese a livello internazionale e dell’Unione europea, così come l’affidabilità nei confronti dei mercati.
Né le funzioni che il Parlamento svolge in quanto organo bicamerale vedrebbero mutare i loro connotati se svolte nella nuova forma monocamerale.
2.1.1. Riformare l’amministrazione della giustizia: andando alle radici non contingenti delle tensioni tra potere politico e potere giudiziario
Se il dibattito sulle riforme in tema di amministrazione della giustizia continua ad essere condizionato da singole vicende, con accuse incrociate di invasione di campo e di strumentalizzazioni, diventa difficile portare a soluzione almeno alcune delle criticità del ‘pianeta giustizia’.
Intendiamoci, ciascuno dei contrapposti schieramenti potrebbe ragionevolmente dimostrare che forzature vi sono state in questa o quella vicenda da parte degli altri, ma nell’animosità dei conflitti si è persa la visione d’insieme delle ragioni della crisi del funzionamento dell’amministrazione della giustizia, che trascendono i singoli casi anche quando rilevanti dal punto vista giudiziario e politico.
Se tutto fosse circoscrivibile al politico con pretesa di impunità o al pubblico ministero o giudice politicizzato le ragioni della crisi sarebbero meno profonde, legate a fattori contingenti, con un’origine ‘soggettiva’ (il politico o magistrato felloni).
Ma l’accresciuta conflittualità tra politica e magistratura trova origine nel mutamento dei processi di strutturazione degli ordinamenti giuridici contemporanei, che si caratterizzano sempre più (per motivi legati alle metamorfosi delle nostre società sempre più complesse) per un marcato spostamento della giuridicità dal momento della statuizione dell’enunciato normativo da parte del potere politico a quello della sua interpretazione/applicazione (fenomeno che amplia il ruolo della magistratura e della stessa amministrazione al di là della volontà degli stessi attori).
Questa dinamica ordinamentale, che interessa tutte le democrazie, trova difficoltà ad essere metabolizzata, tanto che il conflitto tra politica e magistratura (o tra parti di esse) in vari Paesi si configura in forme ancor più radicali (qui basti citare i casi di Stati Uniti ed Israele).
In un tale contesto, le inadeguatezze procedurali e processuali e l’inefficienza ed inadeguatezza degli apparati organizzativi amplificano, prolungandole nel tempo, le conflittualità e ne sono all’origine di ulteriori; i tempi esasperanti necessari per ricevere ‘giustizia’ sono un modo per svilirla e sovente per negarla, non garantiscono pienamente garanzie e diritti, frenano lo sviluppo economico.
Da qui, dunque, dovremmo poter iniziare un processo riformatore nell’ambito dell’amministrazione della giustizia: da un fortissimo potenziamento della sua efficienza ed efficacia. A tal fine, non necessita una riforma costituzionale, ma pur sempre un impegno politico fortissimo che comporterebbe non indolori politiche di bilancio (riorientando verso una tale priorità risorse da altri settori forse più produttivi di consensi elettorali). Anche in questo caso occorrerebbe una condivisione di intenti perché rendere efficienti apparati complessi in cui l’inefficienza è ormai divenuta congenita richiede impegni intensi, onerosi, prolungati nel tempo, che ben possono oltrepassare la durata di una legislatura.
Un altro criterio nella determinazione delle priorità riformatrici dovrebbe essere quello dell’urgenza del provvedere là dove più macroscopiche sono le criticità costituzionali: il sistema carcerario vive una condizione di radicale intollerabile incostituzionalità, e le notizie sempre più ricorrenti di violenze che ipotizzano il reato di tortura a danno di detenuti rappresentano un segnale di allarme che non può essere ignorato. Tutti, primo tra tutti lo Stato, siamo tenuti al rispetto della legalità ed in particolare della legalità costituzionale.
3. Il masochismo argomentativo
Ma esiste un ostacolo di fondo a riforme condivise: quello di un masochismo argomentativo che indebolisce, non rafforza, le ipotesi che si sostengono.
Un masochismo argomentativo fatto di sventolio di bandiere identitarie e di contrapposte barricate a prescindere; la tendenza a ridurre ciò che non si condivide nella categoria dell’incostituzionale o di «minaccia alla democrazia», indebolendo non rafforzando ragionati rilievi di merito.
Discutere di riforme costituzionali diventa così momento di ulteriore indebolimento della credibilità delle forze politiche, di invettive delegittimanti, di utilizzo alternativo degli argomenti a seconda del posizionamento politico del momento in una sorta di ‘doppia morale’ argomentativa, di incapacità del sistema politico-istituzionale a riformarsi.
Eppure, basterebbe elevare lo sguardo oltre i confini nazionali per constatare come le società complesse incontrano crescenti difficoltà a governarsi al di là delle forme di governo adottate: muovere da modelli preconfezionati, anziché dai problemi da risolvere, finisce per portare fuori strada.
Riforme costituzionali diventano sempre più urgenti, ma le sole operazioni di ingegneria costituzionale non sono sufficienti perché le radici della crisi sono a monte: nella crisi delle culture politiche.
La più decisiva delle riforme sarebbe quella della politica, ma questa può essere solo un’autoriforma come somma del rinnovamento delle culture delle singole forze politiche: una prospettiva ancora lontana, che per di più richiede un ripensamento profondissimo delle categorie della politica nella direzione opposta a quella schmittiana. Eppure, le sfide della postmodernità indicano che un tale faticoso percorso dovrà essere prima o poi intrapreso e che la fortuna o il declino delle forze politiche dipenderà dalla capacità di ripensarsi in profondità.
Ricondurre il dibattito sulle riforme costituzionali alla concretezza dei problemi è il contributo che la cultura costituzionalistica può fornire, non solo sotto il profilo tecnico, ma a contenere lo scadimento del confronto politico.
Ad esempio, il tema del regionalismo differenziato è condizionato da una conflittualità politica che finisce per essere fuorviante rispetto ai problemi a cui si vorrebbe dare soluzione.
Se la contrarietà alla autonomia differenziata è giocata sulla sua apodittica incostituzionalità compreso l’assunto che rappresenti di per sé una «rottura dell’unità nazionale» ci si pone in una posizione sterile: la possibilità di attuare il regionalismo differenziato è previsto in Costituzione e si estenderebbe la critica al principio tout court di autonomia e quindi ad ogni modello di forma di Stato non di tipo centralistico.
Se, invece, la critica muove dalla disamina dei progetti ed entrando nel merito delle questioni si prospettano soluzioni al fine di evitare criticità costituzionali e realizzare un effettivo miglioramento dei diversi livelli decisionali, chi si sottrae al confronto tradirebbe le premesse poste a fondamento delle proposte.
L’iter di riforma di cui all’art. 116, terzo comma, Costituzione è nelle fasi embrionali e quindi può ancora diventare l’occasione di un momento più complessivo di riforma della nostra forma di Stato regionale: non solo del senso dell’attribuzione di nuove competenze alle Regioni a statuto ordinario, ma della rivisitazione complessiva della ripartizione delle competenze tra Regioni e Stato, che alla luce dell’esperienza acquisita potrebbe richiedere anche una ricollocazione di alcune materie a quest’ultimo.
Certo è che la riforma della autonomia differenziata potrà dispiegare gli effetti dichiarati se i suoi primi passi muoveranno dalla necessità di rimuovere le disparità tra i territori nella tutela dei diritti sociali e civili e nel farlo si richiameranno al senso di responsabilità ceti politici locali e regionali che (al pari peraltro di quelli nazionali) delle risorse non sempre hanno fatto l’uso migliore.
Massimo Carli, nell’Editoriale precedente (1/2023) di questa Rivista, scrive che “L’attuazione dell’autonomia differenziata può essere l’occasione per riordinare il centro e, nello stesso tempo, rendere possibili normative adeguate alle diverse realtà regionali: obiettivo difficile da conseguire, ma non impossibile.”. Considerazioni che provengono da un profondo conoscitore del funzionamento del nostro sistema delle autonomie.
4. Il possibile convivere del conflitto politico con buone argomentazioni
Il conflitto politico e sociale, nello svolgimento rispettoso della cornice costituzionale, è un elemento essenziale nello sviluppo di una società aperta, è ad essa coessenziale.
Nel mentre scriviamo queste pagine, il dibattito politico si è concentrato sul tema della separazione delle carriere tra magistratura requirente e giudicante.
Le contrapposizioni sono fortissime ma, al netto di alcune stonature, le argomentazioni utilizzate sono di alto profilo.
Chi ritiene necessaria la separazione delle carriere, con il corollario di due distinti C.S.M., pone la questione della coerenza dell’appartenenza ad un medesimo circuito professionale di pubblico ministero e giudice rispetto ad un giusto processo che presuppone parità tra le parti e terzietà del giudice. Ma, al contempo, le controdeduzioni di chi si oppone ad una tale eventualità sollevano interrogativi su ‘effetti collaterali’: che la soluzione produrrebbe conseguenze opposte a quelle desiderate, con la trasformazione della magistratura requirente ancor più propensa ad intendere il proprio ruolo come patrocinatore dell’accusa, anziché a tutela del ben più complessivo interesse dell’ordinamento giuridico; la tendenza a diventare un potente corpo separato dello Stato o, al contrario, essere sottoposta al controllo del potere governativo.
Ma per quanto aspre possano essere le contrapposizioni, l’aver posto con lucidità, da una parte e dall’altra, problematiche reali pone le condizioni perché il confronto possa produrre esiti positivi, con la sfida in chi propende per la separazione delle carriere di saper proporre una tale eventualità senza che si verifichino effetti indesiderati; in chi la contrasta, che sia possibile garantire comunque una effettiva parità delle parti nel processo, ben oltre le astratte previsioni normative.
Ritrovare la volontà di dare risposte condivise a problemi da troppo tempo irrisolti è sfida oggi non più rinviabile.