Le ragioni di una (incerta) riforma dei Trattati dell’Unione
A quindici anni dall’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, la revisione dei Trattati è tornata, negli ultimi mesi, al centro di un intenso dibattito istituzionale del quale, tuttavia, ben scarsa eco giunge nella campagna elettorale per il Parlamento europeo, focalizzata su questioni prettamente nazionali. La necessità di una riforma - specie dopo un periodo di “stabilità” dei trattati inusitatamente lungo per la storia dell’integrazione europea - è da più parti sostenuta: menzionata in numerosi documenti delle istituzioni e di alcuni Stati membri, essa è oggetto di una formale e articolata richiesta di revisione presentata dal Parlamento europeo con una risoluzione del 22 novembre 2023 (risoluzione sui progetti intesi a modificare i Trattati (P9_TA(2023)0427), sulla quale v. la scheda pubblicata in questa Rivista, preceduta dal rapporto della commissione affari costituzionali del Parlamento europeo (A9-0337/2023) e dalla risoluzione del 9 giugno 2022 sulla richiesta di convocare una Convenzione per la revisione dei Trattati (P9_TA(2022)0244)).
Ben diverse e addirittura contrastanti sono, tuttavia, le istanze che motivano l’esigenza di una riforma.
Tra queste, la volontà di dare seguito all’esperimento di democrazia partecipativa e deliberativa realizzato con la Conferenza sul futuro dell’Europa ha indubbiamente svolto un ruolo determinante nel dare un primo impulso a tale dibattito. La Conferenza, un evento senza precedenti, anche se privo di una risonanza nazionale paragonabile all’impegno organizzativo profuso, si è conclusa il 9 maggio 2022, dopo un anno di lavori, con l’adozione di 49 proposte e di 326 misure specifiche. Benché nessuna garanzia fosse stata fornita riguardo all’incidenza che la Conferenza avrebbe prodotto nello sviluppo dell’Unione, d’altra parte sembra politicamente poco sostenibile che un esperimento di questa ampiezza, fondato sull’impegno delle istituzioni “ad ascoltare gli europei e a dare seguito alle raccomandazioni formulate”, resti un esercizio meramente teorico (Consiglio, Commissione, Parlamento europeo, Dichiarazione comune sulla conferenza sul futuro dell'Europa dialogo con i cittadini per la democrazia — Costruire un’Europa più resiliente, 5 marzo 2021). L’atteggiamento delle istituzioni e degli Stati membri riguardo al follow-up della Conferenza è tuttavia apparso da subito assai differenziato. Se il Consiglio ha cercato di attenuare l’esigenza di una revisione affermando che la maggior parte delle proposte dei cittadini potrebbero essere realizzate a Trattati invariati (Segretariato generale del Consiglio, Proposals and related specific measures contained in the report on the final outcome of the Conference on the Future of Europe: Preliminary technical assessment, 10033/22), la Commissione non ha escluso la via della riforma affermando di voler sempre sostenere “coloro che desiderano migliorare l'Unione europea, anche attraverso modifiche dei trattati, se necessarie” (Comunicazione del 17 giugno 2022 (COM(2022) 404 final). Il Parlamento europeo, invece, già in una risoluzione del 4 maggio 2022 era stato assai chiaro nel riconoscere che “le conclusioni della Conferenza esigono la modifica dei trattati” e si era detto “pronto a svolgere il proprio ruolo e a garantire un seguito adeguato ai risultati della Conferenza”, chiedendo, perciò, “la convocazione di una Convenzione attivando la procedura di revisione dei trattati” (Risoluzione sul seguito da dare alle conclusioni della Conferenza sul futuro dell'Europa, P9_TA(2022)0141); tale richiesta è stata ribadita nella già menzionata risoluzione del 9 giugno 2022 affermando che “al di là delle proposte legislative, occorre avviare una stagione di riforme istituzionali per attuare le raccomandazioni e rispondere alle aspettative di questo processo di partecipazione dei cittadini”. Se il Parlamento europeo si è quindi fatto portatore di alcune delle modifiche uscite dalla Conferenza, la volontà di attribuire a queste ultime una rilevanza diretta, riconducendole nell’ambito dei meccanismi procedurali di revisione dell’art. 48 TUE, ha trovato una barriera difficilmente superabile in un documento che una decina di Stati membri si sono affrettati a far circolare subito dopo la conclusione dei lavori (“non paper” di Bulgaria, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Finlandia, Lettonia, Lituania, Malta, Slovenia e Svezia; https://www.euractiv.com/section/future-eu/news/a-third-of-eu-countries-oppose-changing-blocs-treaties/); in modo inequivocabile vi si afferma che “Treaty change has never been a purpose of the Conference”, mentre qualsiasi proposta per lanciare un processo di revisione viene qualificata come un tentativo “unconsidered and premature”. La “risposta” di un gruppo di paesi più possibilisti (“non paper” di Germania, Belgio, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi e Spagna, 13 maggio 2022 on implementing the proposals of the Plenary of the “Conference on the Future of Europe”), riconoscendo l’importanza di dimostrare ai cittadini che “their specific proposals are being taken up, examined and, provided they are possible and can command a majority, quickly implemented”, non aveva invece escluso che una riforma dei Trattati potesse dare seguito alla Conferenza (“we remain in principle open to necessary treaty changes that are jointly defined”).
A due anni di distanza dalla conclusione della Conferenza, la strategia volta a dare rilevanza diretta alle proposte dei cittadini ai fini della riforma sembra ormai trovarsi in una strada senza uscita; tuttavia, alcune delle istanze emerse in quella sede sono oggi sul tavolo di discussione in quanto coincidenti (in tutto o in parte) con proposte che trovano supporto in ulteriori motivazioni.
Nel dibattito più recente è, soprattutto, il collegamento con le future adesioni all’Unione ad assumere un ruolo centrale nel sostenere la necessità di una revisione dei Trattati. Sul piano delle modifiche istituzionali, si tratta di una motivazione non nuova nel processo di integrazione, che ricalca quanto fu realizzato con il Trattato di Nizza del 2001 in previsione dell’adesione di ben 10 Stati membri avvenuta nel 2004. Collegare la riforma all’adesione può apparire una motivazione politicamente efficace nei confronti dei Paesi membri recalcitranti. È infatti indiscutibile la necessità, con una Unione a 30 o più Stati membri, di modificare i meccanismi decisionali, specialmente riducendo i casi tuttora presenti di voto all’unanimità (cfr. B. De Witte, Constitutional Challenges of the Enlargement: Is Further Enlargement Feasible without Constitutional Changes?, in-depth analysis requested by the AFCO committee). Altrettanto evidente è l’opportunità di limitare il numero dei commissari allineandolo al sistema di rotazione già previsto dall’art. 17, par. 5, TUE e sospeso dal Consiglio europeo con una decisione del 2013; quest’ultima, peraltro, ha stabilito, proprio in vista di future adesioni, il riesame del regime di sospensione da effettuare “con congruo anticipo rispetto alla nomina della prima Commissione successiva alla data di adesione del trentesimo Stato membro”. Vi è tuttavia da chiedersi se il contesto attuale dia effettivamente un solido sostegno al binomio adesione-riforma dei Trattati. Certamente la sala di attesa dell’Unione è al momento gremita, con ben 8 paesi ai quali è stato riconosciuto lo status di candidato (e con quasi tutti sono già stati avviati i negoziati di adesione, se si eccettuano quelli con la Turchia sospesi dal 2018). Tuttavia, l’importante valore politico che la prospettiva di adesione presenta, a seguito dell’aggressione russa, per Ucraina, Moldavia e Georgia, non potrebbe giustificare un allentamento dei requisiti richiesti dall’art. 49 TUE né della prassi rigorosa seguita ai fini del loro accertamento, specie se un’accelerazione portasse ad un “sorpasso” rispetto ai paesi dei Balcani, già da tempo impegnati nell’avvicinamento agli standard dell’Unione. Non sorprende, in questa prospettiva, che la Commissione, in un recente documento, abbia ritenuto utile precisare che “l'adesione all'Unione si fonda e continuerà a fondarsi su un’equa e rigorosa condizionalità, sul principio meritocratico e sulla realizzazione di progressi tangibili sul terreno” (Comunicazione sulle riforme e sulle revisioni strategiche pre-allargamento, 20 marzo 2024, COM(2024)146). In ogni caso, sono soprattutto l’attuale situazione internazionale e l’impatto che le nuove adesioni avrebbero sul bilancio dell’Unione e sulla ripartizione dei finanziamenti europei che non consentono di presagire tempi rapidi, oltre alle incertezze che la ratifica dei trattati di adesione potrebbe presentare in alcuni Stati membri. Un documento franco-tedesco – che, pur non esprimendo la posizione dei governi, costituisce un importante punto di riferimento nel dibattito corrente – ha chiaramente sintetizzato la situazione attuale, affermando che “for geopolitical reasons, EU enlargement is high on the political agenda, but the EU is not ready yet to welcome new members, neither institutionally nor policy wise” (“Sailing on High Seas: Reforming and Enlarging the EU for the 21st Century”, documento di un gruppo di esperti, 18 settembre 2023; cfr. F. Mayer, T. Nguyen, The Franco-German Report on institutional reform, in Eu Law Live, 6 marzo 2024). Peraltro, saldare la riforma dei Trattati al processo di allargamento darebbe supporto alle riforme funzionali all’adesione - come quelle relative al procedimento decisionale -, ma difficilmente potrebbe giustificare altre revisioni, quale la estensione del novero delle competenze attribuite. A ciò si aggiunge che se la soluzione formale accolta fosse quella di apportare gli adattamenti ai Trattati mediante l’accordo di adesione verrebbe riconosciuto al Parlamento europeo un ruolo più limitato (ossia, la procedura di approvazione ai sensi dell’art. 49 TUE) rispetto a quello (propositivo e consultivo) previsto dall’art. 48 TUE ai fini della revisione ordinaria dei Trattati. La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen nel discorso sullo stato dell’Unione pronunciato nel settembre 2023 ha, del resto, prospettato la possibilità di una Convenzione europea di riforma proprio collegandola al processo di adesione, ma, allo stesso tempo, ha affermato che non “dobbiamo aspettare che cambino i trattati per proseguire sul percorso dell’allargamento”.
È, in realtà, piuttosto la domanda opposta che occorrerebbe porsi, chiedendosi se una riforma sia necessaria indipendentemente dalle prospettive (e dai tempi) di allargamento dell’Unione. Sono infatti emerse negli ultimi anni – in particolare a seguito della crisi pandemica – una serie di criticità relative ad elementi nodali del sistema di governance, alcune delle quali richiederebbero, per essere affrontate, modifiche dei Trattati.
Due aspetti presentano particolare rilevanza al fine di comprendere l’evoluzione che, sebbene a Trattati invariati, sta caratterizzando alcuni snodi essenziali del sistema. In un’analisi a grandi linee, da un lato emerge una diversa articolazione nei rapporti tra le istituzioni che, dinanzi a situazioni di emergenza – dalla Brexit, alla pandemia, alle crisi internazionali e ai loro effetti – hanno visto accrescere il ruolo del Consiglio europeo che, sebbene privo del potere legislativo, è entrato con sempre maggiore impatto nel circuito decisionale. La frequenza delle riunioni (comprese quelle straordinarie o qualificate come “informali”), la crescente precisione degli indirizzi forniti nelle Conclusioni e gli accordi politici raggiunti in quella sede spostano l’asse dell’equilibrio istituzionale delineato dai Trattati verso la dimensione intergovernativa. Il processo decisionale è apparso, così, sempre più caratterizzato da negoziazioni trasversali ed ha altresì portato a delle prassi alquanto atipiche, come quella della “assenza” del presidente ungherese che ha lasciato la sala del Consiglio europeo al momento dell’adozione – per consensus – della decisione di avviare i negoziati di adesione con l’Ucraina e la Moldavia (su tale singolare prassi v. A. Lang, Una “sedia vuota” al Consiglio europeo del 14-15 dicembre 2023, in Eurojus, 18 dicembre 2023). Per altro verso, la Commissione, specie in ragione delle inedite modalità d’azione sviluppate dinanzi alle crisi - dall’acquisto congiunto di presidi sanitari, di vaccini, e altresì di armamenti (secondo la strategia presentata il 5 marzo 2024, JOIN(2024)10 final) sino alla emissione di obbligazioni dell’UE - ha esercitato rilevanti poteri di esecuzione. Il secondo aspetto evolutivo del sistema attiene alle competenze dell’Unione, rivelatesi insufficienti in una varietà di materie – come la salute pubblica, l’energia, la politica estera e di difesa - ad affrontare le situazioni di crisi; si registra, così, in misura crescente il fenomeno del “competence creep”, attraverso un’interpretazione estensiva delle disposizioni del TFUE (sino, in certi casi, a forzarne i contenuti), e anche un crescente ricorso – non senza qualche acrobazia interpretativa - a clausole di carattere generale, quali l’art. 114 sul ravvicinamento delle legislazioni e l’art. 122 sull’adozione di misure di emergenza volte ad affrontare gravi difficoltà nell’approvvigionamento di determinati prodotti e dell’energia (resta invece inutilizzata la clausola generale dell’art. 352 TFUE in ragione verosimilmente del requisito dell’unanimità da essa previsto).
In questo quadro, il Parlamento europeo, pur senza riuscire a costruire su un piano generale un contrappeso significativo nei rapporti con le altre istituzioni e, in particolare, con la dimensione intergovernativa, ha tuttavia sfruttato alcuni margini normativi per rafforzare le proprie prerogative: così, tra l’altro, riguardo alla nomina della Commissione, ricorrendo alla prassi ormai consolidata delle audizioni dei candidati commissari, ovvero esercitando, in mancanza del potere di iniziativa legislativa, un maggiore ruolo propulsivo nei confronti della Commissione in virtù dell’art. 225 TFUE (ottenendo, da parte di quest’ultima, un riscontro positivo nel “trasformare” in proposte le sollecitazioni parlamentari) e, da ultimo, esercitando il suo potere di iniziativa riprendendo il cammino (peraltro, tutto in salita) volto all’adozione di una legge elettorale uniforme europea (risoluzione legislativa del 3 maggio 2022, P9_TA(2022)0129). Pur in assenza di modifiche dei Trattati negli ultimi 15 anni, il ruolo delle istituzioni, l’esercizio del potere normativo (caratterizzato, peraltro, da un più ampio ricorso ai regolamenti, talora definiti impropriamente “leggi” per accentuarne l’importanza), insieme all’impatto di una giurisprudenza della Corte che ha fortemente contribuito alla definizione di soluzioni innovative (soprattutto riguardo agli strumenti di reazione alla crisi dello stato di diritto), hanno determinato, quindi, una notevole evoluzione.
Nella prospettiva della riforma, le linee di tale articolata evoluzione hanno portato principalmente a riattivare il dibattito sul deficit di democrazia e sulla efficienza del processo decisionale, oltre che a sostenere la necessità di attribuire all’Unione nuove competenze o di rafforzare quelle esistenti. A quest’ultimo riguardo, la proposta del Parlamento europeo chiede l’attribuzione all’Unione di una competenza esclusiva per l’ambiente e la biodiversità e per i negoziati sul cambiamento climatico, di una competenza concorrente in materia, tra l’altro, di sanità pubblica e di promozione della salute umana, nonché il rafforzamento delle competenze relative all’energia, agli affari esteri e alla difesa, alla sicurezza esterna. È evidente come tali proposte tendano ad allineare le competenze previste dai Trattati all’evoluzione della prassi (che ha visto lo sviluppo di standard comuni di protezione ambientale) e alle esigenze di azione normativa che si sono manifestate a seguito della pandemia, delle ripercussioni sui mercati dell’energia causati dall’aggressione russa all’Ucraina, degli attuali conflitti in corso.
Un ulteriore aspetto sul quale verte la discussione riguarda la limitazione dei casi di delibera alla unanimità; il documento franco-tedesco esprime al riguardo una soluzione radicale (“Before the next enlargement, all remaining policy decisions should be transferred from unanimity to QMV”), prevedendo, tuttavia, una misura di salvaguardia (definita come una ‘sovereignty safety net’) che darebbe la possibilità agli Stati membri di opporsi all’adozione a maggioranza qualificata invocando un interesse vitale nazionale, secondo lo schema ora previsto solo nell’area della PESD (art. 31, par. 2, TUE). Se tale clausola aiuterebbe a rendere più accettabile il passaggio generalizzato alla regola della maggioranza qualificata si aprirebbe, tuttavia, il rischio di vanificare tale innovazione, in mancanza, peraltro, della possibilità di stabilire un meccanismo di controllo riguardo alle condizioni invocate a giustificazione della deroga, relative a situazioni politiche prettamente interne. La proposta del Parlamento europeo chiede in numerosi settori – tra i quali non figura, però, quello, assai discusso, della politica fiscale (art. 113 TFUE) – il passaggio alla decisione a maggioranza qualificata: tra l’altro, per l’accertamento da parte del Consiglio europeo dell'esistenza di una violazione grave e persistente dei valori dell’Unione in uno Stato membro (art. 7 TUE), nell’area della PESD e della cooperazione giudiziaria civile (diritto di famiglia avente implicazioni transnazionali) e penale ai fini del contrasto della criminalità, nonché per la definizione del quadro finanziario pluriennale e per l’adozione delle norme volte a combattere le discriminazioni. Se un risultato analogo potrebbe essere raggiunto, a Trattati invariati, mediante la cd. norma passerella (art. 48, par. 7, TUE) - che consente al Consiglio europeo di decidere, in settori o in casi specifici, che si proceda con delibera a maggioranza qualificata – l’esigenza che la decisione del Consiglio europeo sia adottata all’unanimità rende tale soluzione, sinora mai accolta, difficilmente praticabile.
Le proposte del Parlamento europeo relative al rafforzamento della legittimazione democratica dell’Unione sono concentrate, in realtà, soprattutto sull’estensione dei poteri ad esso attribuiti, in una logica di avvicinamento ai sistemi nazionali (“in modo da rispecchiare con maggior fedeltà un sistema bicamerale”, par. 3) piuttosto che ricercare modalità proprie dell’ordinamento dell’Unione che ne considerino le peculiarità (su tale aspetto cfr. R. Dehousse, L’Unione europea alla ricerca di nuovi modi di legittimazione, in A. Adinolfi, N. Lazzerini (a cura di), Una Unione di cittadini, Giappichelli, Torino, 2024, p. 101 ss.). Tra i nuovi poteri, primo fra tutti è il riconoscimento – da tempo rivendicato dal Parlamento - del potere di iniziativa normativa. Se in una logica costituzionale tale richiesta appare come un allineamento ai modelli parlamentari nazionali, nel sistema dell’Unione produrrebbe, invece, in ragione delle peculiarità che lo caratterizzano, ripercussioni significative sull’equilibrio dei poteri; esso inciderebbe, infatti, su un (quasi) monopolio della Commissione che trova il suo fondamento nell’esigenza di perseguire, attraverso le proposte degli atti normativi, l’interesse generale dell’Unione, di cui la Commissione è garante in virtù della sua caratteristica di indipendenza (cfr. su tale aspetto E. Best, The European Parliament and the right of initiative: Change practice, not powers, EIPA Paper, giugno 2021). Il Parlamento vorrebbe, poi, poter determinare la propria composizione ed esercitare un ruolo più significativo nella nomina del presidente della Commissione (che assumerebbe il nome di Esecutivo), “per rispecchiare più fedelmente i risultati delle elezioni europee” attraverso una inversione dei ruoli tra Consiglio europeo e Parlamento: spetterebbe a quest’ultimo proporre il candidato presidente e al Consiglio europeo darne approvazione. Una modifica che intende, evidentemente, avvalorare la prassi dei candidati di punta (spitzenkandidaten) promossa dal Parlamento europeo. L’obiettivo del rafforzamento della democrazia si riflette anche nella volontà di accrescere, benché in modo assai generico, il ruolo degli strumenti di partecipazione civica integrando l’art. 10, par. 3, TUE con l’obbligo dell’Unione di garantire ai cittadini strumenti che consentano di partecipare alla vita democratica dell’Unione. Il riconoscimento al Parlamento europeo del potere di proporre atti normativi andrebbe ad incidere su uno degli aspetti istituzionali che maggiormente hanno suscitato, negli ultimi anni, opinioni critiche e anche controversie dinanzi alla Corte di giustizia dell’Unione, ossia il seguito delle iniziative proposte dai cittadini; il Parlamento vorrebbe poter proporre atti basati su tali iniziative, aggirando così l’atteggiamento poco generoso dimostrato dalla Commissione. È altresì prospettato un ruolo più incisivo dei partiti politici europei, mentre si è persa traccia della istituzione di referendum europei, su temi di particolare rilevanza, che era stata proposta dalla Conferenza sul futuro.
Se il dibattito sulle riforme è serrato, le prospettive per l’avvio di una procedura di modifica dei Trattati sono al momento assai incerte. Il Parlamento europeo ha invitato “il Consiglio a presentare al Consiglio europeo, immediatamente e senza alcuna deliberazione, le proposte contenute nella [presente] risoluzione” e ha sollecitato il Consiglio europeo a convocare quanto prima una Convenzione secondo la procedura di revisione ordinaria di cui all'articolo 48 TUE. La lentezza del riscontro a tale richiesta ha fatto emergere, peraltro, un aspetto critico dell’art. 48 TUE che si limita a prevedere che i progetti di modifica “sono trasmessi dal Consiglio al Consiglio europeo e notificati ai parlamenti nazionali” (par. 2) senza che emerga il ruolo che tale disposizione riserva al Consiglio (v. in proposito F. Martines, Le proposte di modifica dei Trattati presentate dal Parlamento europeo, in Una Unione di cittadini, cit., pp. 79-80). Dal canto suo, il Consiglio europeo ha seguito la strada (sopra menzionata) di collegare le riforme all’allargamento, affermando che “i lavori su entrambi i fronti devono avanzare in parallelo”, e ha poi preso tempo nelle Conclusioni di dicembre e di marzo; in queste ultime si legge che “il Consiglio europeo si occuperà delle riforme interne in una prossima riunione con l'obiettivo di adottare, entro l'estate del 2024, conclusioni su una tabella di marcia per i lavori futuri” (Consiglio europeo del 22 marzo 2024). Evidentemente le imminenti elezioni del Parlamento europeo hanno consigliato un atteggiamento di cautela, in relazione a una proposta presentata, del resto, a poco più di 6 mesi dal termine della legislatura e approvata con un numero di voti non elevato per la prassi parlamentare (305 voti favorevoli, 276 contrari e 29 astensioni). Il risultato elettorale certamente avrà incidenza sulle prospettive di modifica dei Trattati e sui contenuti che queste potranno eventualmente assumere. Un’affermazione di partiti sovranisti o, comunque, non propensi ad accrescere il ruolo dell’Unione renderà improbabile portare avanti le prospettive di riforma così come esse sono state formulate nella precedente legislatura. Più in particolare, sarà difficile immaginare un superamento della logica intergovernativa che ha, nel periodo più recente, caratterizzato il processo decisionale dell’Unione in relazione alle scelte strategiche di maggiore importanza. La discussione corrente sul deficit di democrazia, che mette in gioco i rapporti tra le istituzioni come definiti in base al compromesso realizzato dal Trattato di Lisbona a seguito del fallimento della Costituzione europea, si colloca nella perdurante tensione dialettica tra la dimensione intergovernativa e quella (tendenzialmente) parlamentare. Vi è, tuttavia, oltre all’esigenza che siano apportate le modifiche indispensabili ai fini delle future adesioni, un elemento non trascurabile che emerge guardando retrospettivamente al percorso della integrazione: sono infatti le crisi, e la necessità di affrontarle con strumenti comuni, che in tale percorso hanno determinato il superamento di contrasti che sembravano insanabili e fatto emergere la volontà di raggiungere un consenso politico, benché motivato da strategie nazionali anche profondamente divergenti. Il dibattito aperto non porterà facilmente a soluzioni innovative in termini di garanzie democratiche, ma potrebbe aprire la strada ad un ampliamento delle competenze - eventualmente agevolando il ricorso alla cooperazione rafforzata e estendendo il controllo nazionale sul principio della sussidiarietà - che consenta all’Unione di colmare le lacune che le recenti situazioni di crisi hanno portato a far emergere.