Tra crisi finanziaria e fine del berlusconismo. Quando le difficoltà del sistema delle fonti riflettono quelle del quadro politico-istituzionale
1. Nel momento in cui si scrivono queste righe la XVII legislatura ha meno di otto mesi di vita e un destino assai incerto. Gli otto mesi di vita sono stati particolarmente intensi, anche e anzitutto sul piano istituzionale: il lungo processo di formazione del governo di Enrico Letta si è intrecciato con la rielezione di Giorgio Napolitano a Presidente della Repubblica e ha determinato la scomposizione delle coalizioni presentatesi alle urne; il governo di larghe intese ha già dovuto sopravvivere, in ottobre, a un voto fiduciario pieno di incognite; si è avviato, tra non poche polemiche, un processo di riforma di quasi tutta la seconda parte della Costituzione (con l'eccezione della magistratura e delle garanzie costituzionali). E il tema della riforma elettorale si è riaffacciato con forza e con urgenza, anche in vista di una ormai prossima pronuncia della Corte costituzionale, chiamata dalla Cassazione ad esprimersi sulla conformità a Costituzione dei premi di maggioranza per Camera e Senato e delle liste bloccate.
Le incognite, come si intuisce, sono molte e sembrano indissolubilmente legate alle modalità e ai tempi con cui è destinata a concludersi la fase della storia politico-istituzionale italiana che è stata dominata dal berlusconismo. Che quest’ultimo sia giunto alla sua fase terminale non parrebbe invero in dubbio, e lo dimostra, se non altro, l'attenzione che gli storici iniziano a prestare ad esso (in particolare, cfr. G. Orsina, Il berlusconismo nella storia d'Italia, Marsilio, Venezia, 2013). Ma le modalità e i tempi con cui tale fase si concluderà sono destinati a pesare non poco sui futuri assetti del nostro sistema costituzionale.
L'ipoteca del berlusconismo ha infatti pesato molto sugli assetti istituzionali e sulle prospettive di riforma, ostacolando fin qui, a ben vedere, ogni tentativo di seria e complessiva revisione non solo della Costituzione, ma anche della legge elettorale e dei regolamenti parlamentari. Ha determinato, infatti, un ampio e più che legittimo sospetto verso ogni ipotesi di riforma istituzionale diretta a rafforzare le capacità decisionali del sistema, nel timore che così venissero indeboliti gli esistenti poteri di garanzia, in primis Presidenza della Repubblica e Corte costituzionale, i quali in questa fase sono stati chiamati a svolgere un ruolo preziosissimo, fino al limite ultimo delle loro attribuzioni, a compensazione della concentrazione dei poteri politici, economici e mediatici facenti capo, più o meno direttamente, a Silvio Berlusconi. E ha altresì stoppato ogni ipotesi di revisione degli stessi poteri di garanzie, anche di quelle volte a renderle più incisive, come sarebbe invero necessario in una logica bipolare.
Il tutto, mentre il nostro sistema politico-istituzionale avrebbe invece bisogno di trovarsi nelle condizioni di forma ideali: in quanto è stato ed è tuttora chiamato a fronteggiare sollecitazioni particolarmente intense, a causa di una situazione economico-finanziaria ancora decisamente critica, con il deficit per il 2013 previsto esattamente sulla soglia del 3 per cento del PIL e con una manovra di bilancio per il prossimo anno tenuta a muoversi all'interno dei vincoli procedurali e contenutistici del "semestre europeo", in attesa della piena applicazione, a partire dal 2014, della legge costituzionale n. 1 del 2012, sul pareggio di bilancio.
Non aiuta, infine, il fatto che la classe politica sia e si senta ormai da anni sotto accusa dell'opinione pubblica, rivelandosi incapace di reagire se non con misure "tampone" e spesso prive di effettivo contenuto innovativo. E comunque non in grado di ragionare in una logica di medio e lungo periodo, come sarebbe indispensabile per dare origine a qualsiasi intervento di riforma istituzionale; e finisca per essere ostaggio dei tanti poteri di veto e di spinte populistiche che la schiacciano ancora di più nell'ottica del quotidiano e del contingente, quando non originano fenomeni difensivi di vera e propria dissimulazione (i quali, evidentemente, una volta disvelati, aggravano ulteriormente il distacco con i cittadini).
2. Il sistema delle fonti, come spesso accade, riflette un quadro siffatto. Le novità vere e proprie sono poche e tutt'altro che centrali, mentre nella quotidianità dei processi di produzione normativa continuano a formarsi, con maggiore o minore intensità, una serie di prassi degenerative, che costituiscono appunto il frutto di un sistema politico incapace di assumere decisioni "vere" e "durature"; e che, nella persistente crisi del procedimento legislativo ordinario, ha bisogno, per far giungere a compimento anche soltanto provvedimenti contingenti e di breve periodo, di usare intensamente procedure decisionali che assicurano un percorso protetto agli accordi faticosamente raggiunti in seno alla maggioranza (per tutti, i decreti-legge "omnibus" e i "maxiemendamenti", spesso impiegati anche congiuntamente). Così portando a destinazione perlopiù provvedimenti dai contenuti poco deliberati e poco meditati, che si rivelano in molte parti non applicabili, e dunque inutili, quando non dannosi.
Un quadro critico delle novità e delle tendenze di fondo della produzione normativa è proposto nel saggio di Roberta Calvano, che identifica le due principali innovazioni nella sostituzione, ad opera della legge n. 234 del 2012, della legge comunitaria annuale con i due paralleli strumenti della legge di delegazione europea e della legge europea. E, in secondo luogo, nell'introduzione di una legge "rinforzata" o, secondo altre letture, "organica", ad opera della legge costituzionale n. 1 del 2012.
Sulla prima novità, va sottolineato che, dopo una fine della XVI legislatura che aveva visto arenarsi, nei percorsi parlamentari, i disegni di legge comunitaria 2011 e 2012, la XVII legislatura pare essersi mossa, in proposito, con un passo diverso: in applicazione della legge n. 234 del 2012 (che ha sostituito la legge n. 11 del 2005: per una prima valutazione cfr. P. Caretti, La legge n. 234/2012 che disciplina la partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea: un traguardo o ancora una tappa intermedia?, editoriale in Le Regioni, 2012, p. 837 s.), le nuove Camere hanno approvato, in pochi mesi, la legge di delegazione europea e la legge europea per il 2013 (leggi nn. 96 e 97 del 6 agosto 2013). Inoltre, ulteriori disegni di legge, sempre riferiti al 2013, sono stati adottati dal Governo, nel Consiglio dei ministri dell’8 novembre 2013, secondo una possibilità già prefigurata, per la legge di delegazione europea, dall’art. 29, comma 8, della legge n. 234 del 2012, e che ora il Governo intende sfruttare, in sostanza, anche per la legge europea. L’auspicio è che si tratti di un “cambio di passo” destinato a permanere, che può trarre ulteriore alimento anche dal più attivo coinvolgimento delle Camere in sede di indirizzo e controllo dell’attività svolta dal Governo nell’Unione europea, anzitutto in seno al Consiglio europeo, le cui decisioni appaiono sempre più incisive ai fini della determinazione dell’indirizzo politico interno (per gli ultimi sviluppi della prassi si veda, in proposito, la rubrica sui raccordi parlamentari Italia-UE).
Sulla seconda novità, va ricordato che la prescrizione costituzionale sull’approvazione della legge “rinforzata” o “organica”– che poneva come termine il 28 febbraio 2013 – è stata prontamente attuata con l’approvazione, immediatamente prima dello scioglimento delle Camere, della legge n. 243 del 2012, la quale, come dispone il suo art. 1, comma 2, può essere “può essere abrogata, modificata o derogata solo in modo espresso da una legge successiva approvata ai sensi dell'articolo 81, sesto comma, della Costituzione”, ossia a maggioranza assoluta dei componenti. Tuttavia, il quadro degli strumenti da adeguare all’intervento di revisione costituzionale non si ferma qui. In particolare, si registra invece una inattività dei regolamenti di Camera e Senato: sia nella mancata attuazione dell’art. 5, comma 4, della legge costituzionale n. 1 del 2012, che li chiamava a disciplinare le modalità di esercizio della “funzione di controllo sulla finanza pubblica con particolare riferimento all'equilibrio tra entrate e spese nonché alla qualità e all'efficacia della spesa delle pubbliche amministrazioni”; sia nella mancata specificazione, a tutt’oggi, delle modalità con cui procedere alla nomina del nuovo “Ufficio parlamentare di bilancio”, secondo quanto prescritto dall’art. 16, comma 2, della succitata legge n. 243 del 2012. Un silenzio, quello dei regolamenti parlamentari, su questo come su altri temi (si vedano le proposte di modifica dei regolamenti di Camera e Senato di cui si dà conto nella rubrica Interna corporis degli organi costituzionali), che appare particolarmente grave, e che rischia di produrre, nel nostro ordinamento, danni simili a quelli che sono derivati dalla mancata integrazione della Commissione bicamerale per le questioni regionali, che era stata prevista, in attesa della costituzione di un Senato delle autonomie, dall’art. 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001.
Si può poi aggiungere che fors’anche dall’esperienza della legge n. 243 del 2012 ha tratto ispirazione la Commissione di esperti per le riforme costituzionali istituita dal Governo Letta allorquando ha ipotizzato, nella sua relazione conclusiva del 17 settembre 2013, l’introduzione nel nostro ordinamento (su modello di quello francese e spagnolo, pur con non poche differenze) della categoria di “leggi organiche”: esse – afferma la relazione – “si interporrebbero tra la Costituzione (e le leggi costituzionali) e le leggi ordinarie dalle quali non possono essere abrogate o modificate. La funzione è quella di disciplinare, in diretta attuazione della Costituzione, materie individuate puntualmente nella Costituzione stessa, particolarmente significative per il sistema politico-costituzionale, come la legge elettorale, l’organizzazione e il funzionamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri, l’organizzazione e il funzionamento dell’ordine giudiziario, la legge di cui all’ultimo comma dell’art. 81 Cost. La qualifica di legge organica può discendere solo da una espressa e puntuale indicazione della Costituzione”. Le caratteristiche di queste leggi e il loro inquadramento nel sistema delle fonti, e, ancor prima, la stessa opportunità di introdurle, meritano senz’altro una riflessione aperta e approfondita, da parte della scienza costituzionalistica, assieme alle conseguenze che sul sistema delle fonti possono derivare da una revisione in senso asimmetrico del nostro assetto bicamerale, la cui necessità è ormai ampiamente avvertita e che pure è delineata nella suddetta relazione conclusiva.
3. Sempre nel saggio di Roberta Calvano si dà conto del legame tra il contesto economico emergenziale e alcune delle prassi abusive in tema di fonti normative. Nell’ambito di queste, in particolare, viene individuato il frequente ricorso ai c.d. decreti-legge “omnibus” e quindi il nodo dell’eterogeneità dei decreti-legge, su cui invero la giurisprudenza costituzionale pare da ultimo fornire indicazioni contraddittorie: dopo la sentenza n. 22 del 2012, giustamente salutata in senso favorevole da larga parte della dottrina costituzionalistica proprio perché ha posto la Corte in condizioni di colpire, per questa ragione, tanto il decreto-legge quanto la legge di conversione, ora chiaramente differenziata rispetto alle altre leggi ordinarie, ci si sarebbe legittimamente potuti attendere uno sviluppo e un completamento di quella logica.
E così è stato, in effetti, con la sentenza n. 220 del 2013 – cui è dedicato il contributo di Francesco Sanchini – nella quale la Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittima la disciplina sulle province, rilevando che “la trasformazione per decreto-legge dell’intera disciplina ordinamentale di un ente locale territoriale, previsto e garantito dalla Costituzione, è incompatibile, sul piano logico e giuridico, con il dettato costituzionale, trattandosi di una trasformazione radicale dell’intero sistema, su cui da tempo è aperto un ampio dibattito nelle sedi politiche e dottrinali, e che certo non nasce, nella sua interezza e complessità, da un «caso straordinario di necessità e d’urgenza»”. Aggiungendo poi – con un esplicito richiamo alla legislazione elettorale che, pur essendo riferito al livello provinciale e comunale, non sembra essere casuale nel momento in cui si è prospettata l’ipotesi di una riforma elettorale per decreto-legge (per indicazioni ulteriori e qualche considerazione critica, sia consentito rinviare a N. Lupo, La legge elettorale come “legge in senso formale” nel sistema delle fonti, in Giur. it., 2013, n. 6, cc. 1456-1462) – che la decretazione d’urgenza ben potrebbe essere adottata “per incidere su singole funzioni degli enti locali, su singoli aspetti della legislazione elettorale o su specifici profili della struttura e composizione degli organi di governo”; ma non, evidentemente, per introdurre una disciplina del tutto nuova in tali materie.
Sempre nella motivazione della sentenza n. 220 del 2013, inoltre, la Corte, anche qui in linea con la sentenza n. 22 del 2012, ha valorizzato una limitazione ai decreti-legge contenuta nell’art. 15 della legge n. 400 del 1988: se lì era stata quella che richiede l’omogeneità, qui è invece quella per cui il decreto-legge deve contenete “misure di immediata applicazione”. Tale norma, infatti, “pur non avendo, sul piano formale, rango costituzionale, esprime ed esplicita ciò che deve ritenersi intrinseco alla natura stessa del decreto-legge”.
Tuttavia, in una pronuncia di poco successiva, la n. 237 del 2013, la Corte sembra essersi mossa lungo un binario diverso, non privo invero di qualche precedente (per tutti, la sentenza n. 391 del 1995, che rappresentò un sostanziale avallo alla prassi dei maxiemendamenti), nel quale ha riconosciuto alla legge di conversione una sua propria capacità innovativa dell’ordinamento, idonea a consentirle, in particolare, di introdurre norme di delega legislativa. Pertanto, l’art. 77 Cost. non impedisce che “il Parlamento, nell’approvare la legge di conversione di un decreto-legge, possa esercitare la propria potestà legislativa anche introducendo, con disposizioni aggiuntive, contenuti normativi ulteriori, peraltro con il limite – precisato dalla giurisprudenza successiva – dell’omogeneità complessiva dell’atto normativo rispetto all’oggetto o allo scopo (sentenza n. 22 del 2012)”. Ne discende che la legge di conversione avrebbe un duplice contenuto potenziale: “quale ordinaria fonte di conversione del decreto-legge, da un lato, e, dall’altro, quale autonomo fondamento di disposizioni assunte dal Parlamento, distinte da quelle dell’originario decreto-legge anche quanto all’efficacia temporale. Dunque, la disposizione di delega introdotta nell’ordinamento con la legge di conversione, costituendo una statuizione distinta dal decreto-legge, deve essere ricondotta direttamente alla potestà legislativa del Parlamento”.
In questo caso, l’auspicio è che la giurisprudenza costituzionale chiarisca questa diversità di approcci, fornendo un’interpretazione univoca del rapporto tra decreto-legge e legge di conversione, magari anche sulla scorta di prassi un po’ più coerenti tra i due rami del Parlamento: non da oggi, infatti, per restare sul punto affrontato dalla sentenza n. 237 del 2013, gli emendamenti riferiti ad un disegno di legge di conversione contenenti norme di delega legislativa tendono ad essere giudicati ammissibili al Senato e inammissibili alla Camera.
4. Il saggio di Monica Rosini si sofferma sulle leggi statutarie delle regioni speciali (e in particolare su come queste disciplinino i referendum regionali). Anche al di là delle vicende affrontate in quel contributo, sicuramente di notevole rilievo, giova qui fare presente che proprio le regioni a statuto speciale offrono un campo di grande interesse, e non sempre adeguatamente frequentato, di innovazione del sistema delle fonti.
Sia con le previsioni delle c.d. “leggi statutarie”, con cui può avere luogo la decostituzionalizzazione, a favore del legislatore regionale, di alcuni aspetti relativi alla forma di governo delle regioni speciali. Sia con le previsioni delle leggi che potremmo dire “concordate”, che egualmente possono operare una decostituzionalizzazione, ma questa volta a favore del legislatore ordinario statale (“su concorde richiesta” del Governo e della Regione speciale o della Provincia autonoma, come precisa l’art. 104 dello statuto del Trentino-Alto Adige), di alcuni profili relativi, in particolare, ai rapporti finanziari tra lo Stato e le Regioni interessate (cfr., anche per altre indicazioni, G. Perniciaro, Le fonti dell’autonomia finanziaria delle Regioni speciali. “Prima” dei decreti legislativi di attuazione: gli accordi bilaterali, in Gli atti normativi del Governo tra Corte costituzionale e giudici, a cura di M. Cartabia, E. Lamarque, P. Tanzarella, Giappichelli, Torino, 2011, p. 427 s.).
Tali fenomeni, anche considerando l’inattuazione, e dunque il sostanziale fallimento, del meccanismo di cui all’art. 116, terzo comma, Cost., volto a consentire differenziazioni tra le Regioni ordinarie, sembrano mostrare l’esigenza di costruire forme di legislazione in qualche misura negoziata direttamente tra lo Stato e l’autonomia territoriale interessata. Forme di legislazione invero presenti, con modalità varie, in pressoché tutti gli Stati contemporanei che riconoscono ampie autonomie, ma che l’assenza di una Camera di rappresentanza delle autonomie territoriali e di validi succedanei (al di là delle forme di confronto intergovernative che si realizzano nel “sistema delle Conferenze”) rende, nell’ordinamento italiano, tutt’altro che facili da delineare e da attuare.
Quali esempi dell’esistenza di questo nodo, e della strutturale difficoltà ad introdurre i corrispondenti aggravamenti nel procedimento legislativo, possono richiamarsi qui un paio di vicende.
In primo luogo, il fatto che anche laddove la carta costituzionale prevede un minimo di procedimentalizzazione, sancendo tra l’altro la necessità che siano “sentiti i Consigli regionali” ex art. 132, secondo comma, Cost., del rispetto di questa procedura la Corte costituzionale abbia sostanzialmente dichiarato di non volersi interessare. Mi parrebbe questo il senso, in effetti, della sentenza n. 246 del 2010 (su cui, da ultima e criticamente, I. Carlotto, Il parere dei Consigli regionali nel procedimento di variazione territoriale di “distacco-aggregazione” ex art. 132, secondo comma, della Costituzione, in Le Regioni, 2012, p. 525 s.).
In secondo luogo, la circostanza che anche quando una norma statale è effettivamente, in osservanza dei meccanismi prima descritti previsti da uno statuto speciale, concordata con la Regione speciale interessata, di tutto ciò non vi sia sostanzialmente traccia nell’iter parlamentare. O, meglio, vi è traccia solo nella misura in cui i parlamentari e il Governo decidano di lasciarne qualcuna, oppure quando sia lo stesso legislatore statale ad autodichiararlo (è questo il caso, ad esempio, dell’art. 2, commi da 106 a 126, della legge n. 191 del 2009, che ha determinato, tra l’altro, una riscrittura dell’art. 79 dello statuto speciale Trentino-Alto Adige, in esito al c.d. “accordo di Milano”).
5. Infine, elementi di novità nel sistema delle fonti derivano senz’altro pure dagli sviluppi del diritto dell’Unione europea. Essi sono di sicuro interesse anche per l’osservatore italiano, visto che le dinamiche normative appaiono sempre più strettamente intrecciate tra l’ordinamento interno e quello dell’Unione; e considerato che da quest’ultimo vengono spesso mutuate, come è evidente, non solo indicazioni sui contenuti delle discipline da adottarsi a livello nazionale, ma anche modelli e idee sui metodi e sulle tecniche di produzione normativa e di risoluzione delle antinomie.
In questa chiave, tralasciando qui le tante novità che discendono dalla molteplicità di atti giuridici, di varia natura, che normalmente si ricomprendono sotto l’ampia etichetta della “nuova governance economica europea”, si possono qui richiamare due questioni più puntuali.
Vengono infatti in rilievo, in primo luogo, le applicazioni della disciplina del trattato di Lisbona e del regolamento (UE) n. 211/2011 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 febbraio 2011, riguardante l’iniziativa dei cittadini europei. Ad esse è dedicato il contributo di Erik Longo e Andrea Simoncini, i quali esaminano l’istituto anche in vista di una decisione che dovrà essere assunta, in proposito, dal Tribunale dell’Unione europea.
E, in secondo luogo, le tante novità che sono costantemente introdotte nel regolamento interno del Parlamento europeo, che spesso – diversamente da ciò che si è visto accadere per Camera e Senato – tende ad anticipare innovazioni e istituti poi “codificati” dai trattati. Da ultimo, merita di essere segnalata la disciplina introdotta alla fine del 2012, al fine di assicurare una maggiore trasparenza ai processi decisionali che, nell’ambito della prima e sempre più spesso decisiva lettura della procedura legislativa ordinaria, hanno luogo nei c.d. “triloghi”: cioè in quelle riunioni (ristrette e semi-clandestine) di rappresentanti della Commissione, del Parlamento e del Consiglio che determinano il contenuto dei provvedimenti che poi saranno licenziati dalle commissioni parlamentari, dall’assemblea e poi dallo stesso Consiglio (su di essa cfr. L. Donatelli, La disciplina delle procedure negoziali informali nel “triangolo decisionale” unionale: dagli accordi interistituzionali alla riforma dell’articolo 70 del regolamento del Parlamento europeo, SOG working paper, n. 10, ottobre 2013).
In qualche modo, le due novità intervenute di recente nell’ordinamento dell’Unione europea, appena ricordate, sembrano individuare quelle che possono forse dirsi le due principali esigenze – solo apparentemente contraddittorie tra di loro e che un sistema politico efficiente dovrebbe essere in grado di “governare” e di ricondurre ad unità – in nome delle quali le innovazioni nel sistema delle fonti, e ai procedimenti previsti per la loro formazione, tendono ad essere introdotte, in questa fase: da un lato, l’incremento degli strumenti di partecipazione democratica dei cittadini, anche alla luce delle profonde trasformazioni che sulla rappresentanza politica discendono per effetto delle nuove tecnologie; dall’altro, la costruzione di procedimenti negoziali e di confronto tra i diversi soggetti istituzionali che in tali processi decisionali sono istituzionalmente coinvolti. Ed è quasi inutile aggiungere che entrambe le esigenze vanno soddisfatte mediante la predisposizione di regole procedimentali nuove, equilibrate ed efficaci, il cui rispetto possa essere efficacemente fatto valere in sede giurisdizionale.