Fonti dell'Unione europea

La Corte di Giustizia qualifica la Convenzione di Istanbul e la Convenzione ONU sull’eliminazione della discriminazione nei confronti delle donne come «trattati pertinenti» cui deve essere conforme la politica dell’UE in materia di asilo (1/2024)

Sentenza della Corte di giustizia (Grande Sezione) del 16 gennaio 2024, Intervyuirasht organ na DAB pri MS (Femmes victimes de violences domestiques), Causa C-621/21, ECLI:EU:C:2024:47         

La Corte di Giustizia, nella composizione della Grande Sezione, si è pronunciata sulla possibilità e le condizioni per il riconoscimento della protezione internazionale a una donna vittima di violenza di genere. Essa ha, innanzitutto, chiarito che la Convenzione ONU sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne e la Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica sono qualificabili come «trattati pertinenti» cui, ai sensi dell’art. 78, par. 1, TFUE, la politica comune dell’Unione in materia di protezione internazionale deve essere conforme e nel rispetto dei quali deve essere interpretata, in particolare, la direttiva qualifiche. Inoltre, la Corte ha specificato che, alla luce delle condizioni esistenti in un paese di origine, possono essere considerate appartenenti a un gruppo sociale determinato, quale motivo di persecuzione rilevante ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, tanto le donne provenienti da tale paese considerate nella loro complessità, quanto gruppi più ristretti di esse che condividono una caratteristica comune quale, in particolare, l’aver posto in essere un comportamento particolarmente riprovato dalla società circostante, come l’aver rifiutato o l’essersi sottratte a un matrimonio forzato, al punto da essere socialmente escluse o soggette ad atti di violenza. La Corte ha altresì precisato che qualora la domanda di protezione si fondi sul timore di essere perseguitata da un soggetto non statale, non è necessario accertare un collegamento tra l’atto di persecuzione e uno dei motivi di persecuzione previsti dalla direttiva qualifiche (razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza a un determinato gruppo sociale), purché sussista un nesso tra uno dei suddetti motivi e la mancanza di protezione, da parte dello Stato, nei confronti dell’atto persecutorio. Da ultimo, la Grande sezione ha statuito che la minaccia effettiva, cui è esposta la richiedente nel paese di origine, di essere uccisa o subire atti di violenza, da parte di un membro della propria famiglia o della propria comunità di appartenenza, in ragione della presunta trasgressione di norme culturali, religiose o tradizionali, è qualificabile come «danno grave» che può condurre al riconoscimento della protezione sussidiaria.

 

Nella sentenza Intervyuirasht organ na DAB pri MS (Femmes victimes de violences domestiques) («sentenza WS») del 16 gennaio 2024, la Corte di Giustizia, nella composizione della Grande Sezione, si è pronunciata, in seguito al rinvio pregiudiziale sollevato da un tribunale bulgaro, in relazione alla possibilità e alle condizioni in presenza delle quali deve essere riconosciuta la protezione internazionale a una cittadina di paese terzo che, in seguito al ritorno nel paese di origine, rischi di essere vittima di atti di violenza di genere. La pronuncia trae origine dal caso della sig.ra WS, una cittadina turca che, in seguito alle violenze commesse nei suoi confronti dall’uomo che era stata costretta a sposare e non ricevendo alcun sostegno da parte della famiglia di origine, era fuggita dalla propria abitazione e, successivamente, aveva contratto un nuovo matrimonio religioso da cui era nato un figlio. Fuggita dalla Turchia, la donna aveva divorziato dal primo marito contro la volontà di quest’ultimo. Conseguentemente, WS temeva che, in caso di ritorno nel proprio paese di origine, avrebbe potuto essere uccisa dalla famiglia dell’ormai ex marito. Sulla base di tali ragioni aveva presentato una prima domanda di protezione internazionale che, tuttavia, era stata respinta in sede sia amministrativa che giurisdizionale. Successivamente, la donna aveva presentato una seconda domanda allegando nuovi elementi di prova e, in particolare, asserendo che il rimpatrio in Turchia l’avrebbe esposta al rischio di essere uccisa dall’ex marito, di essere vittima di un delitto d’onore o di essere nuovamente costretta a sposarsi. A fronte del rifiuto dell’autorità competente di avviare una nuova procedura di esame della domanda di protezione, WS aveva presentato ricorso davanti al giudice del rinvio.

Le prime tre questioni pregiudiziali da questi presentate, come riformulate dalla Corte, miravano a chiarire la nozione di «appartenenza a un gruppo sociale determinato» che, ai sensi della c.d. direttiva qualifiche[1], può costituire uno dei «motivi di persecuzione» rilevante ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato. In particolare, il giudice a quo chiedeva alla Corte di specificare se la suddetta nozione dovesse essere interpretata nel senso che, in ragione delle condizioni esistenti nel paese di origine, tutte le donne da esso provenienti possano considerarsi ad esso appartenenti o se costoro devono condividere una ulteriore caratteristica comune.

Per rispondere a tale questione, la Corte ha dovuto innanzitutto specificare se, ai fini della qualificazione della violenza contro le donne basata sul genere e della violenza domestica come motivo per il riconoscimento della protezione internazionale ai sensi della direttiva qualifiche, il concetto di violenza di genere costituisca una nozione autonoma nel diritto UE o debba essere interpretata alla luce delle disposizioni della Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne («CEDAW») e della Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica («Convenzione di Istanbul»). In tal modo, la Corte è stata, quindi, chiamata a chiarire se la CEDAW e la Convenzione di Istanbul possano qualificarsi come «trattati pertinenti» cui, ai sensi dell’art. 78, par. 1, TFUE, la politica comune dell’Unione in materia di protezione internazionale deve essere «conforme»[2] e alla luce delle quali deve, quindi, essere interpretata la direttiva qualifiche.

Il dubbio interpretativo nasceva dalla circostanza che, innanzitutto, né la Convenzione di Ginevra né la direttiva qualifiche fanno riferimento al «genere» nell’annoverare l’appartenenza a un determinato gruppo sociale tra i motivi di persecuzione rilevanti ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato. Inoltre, esse non prevedono che la violenza di genere nei confronti delle donne possa costituire, di per sé, un motivo per il riconoscimento della protezione internazionale. Per contro, sia la Convenzione di Istanbul che la CEDAW contengono alcune significative disposizioni al riguardo. Per quanto riguarda la seconda, assume particolare importanza che il Comitato per l’eliminazione della discriminazione contro le donne, organo cui spetta il monitoraggio circa l’applicazione della CEDAW, abbia dichiarato che essa mira a rafforzare e completare il sistema di tutela internazionale delle donne, anche nel settore dei rifugiati[3]. Nella Convenzione di Istanbul rileva l’articolo 60, par. 1, in forza del quale la violenza nei confronti delle donne, basata sul genere, deve essere riconosciuta come una forma di persecuzione[4]. Il par. 2 della medesima disposizione impone alle Parti contraenti di accertarsi che «un’interpretazione sensibile al genere sia applicata» ai motivi di persecuzione previsti dalla Convenzione di Ginevra e che, nei casi in cui sia stabilito che il timore di persecuzione è basato su uno o più di tali motivi, sia riconosciuto al richiedente lo status di rifugiato.

Discostandosi significativamente dalla soluzione proposta dall’Avvocato generale Richard de la Tour nelle sue Conclusioni, la Grande Sezione ha risposto positivamente a tale questione. Per quanto concerne la CEDAW, essa ha innanzitutto ritenuto sufficiente che tale Convenzione sia stata ratificata da tutti gli Stati membri dell’Unione, nonostante quest’ultima non vi abbia aderito. La Corte ha, inoltre, valorizzato quanto affermato dal sopra richiamato Comitato di controllo alla luce del fatto che, ai sensi del considerando (17) della direttiva qualifiche, gli Stati membri sono vincolati dagli obblighi previsti dagli strumenti internazionali di cui sono parti, tra cui in particolare quelli che vietano le discriminazioni[5]. In relazione alla Convenzione di Istanbul, vincolante per l’Unione dal 1° ottobre 2023, la Corte ha richiamato che, come precisato nel parere 1/19[6] reso in relazione all’adesione dell’Unione a tale Convenzione, quest’ultima enuncia obblighi rientranti nell’ambito di applicazione dell’art. 78, par. 2, TFUE che conferisce al legislatore dell’Unione la competenza ad adottare misure, quali la direttiva qualifiche, relative al sistema europeo comune di asilo[7]. In ragione del ravvisabile «collegamento tra l’asilo e il non-refoulement» (par. 46), la Grande sezione ha ritenuto che la Convenzione di Istanbul deve ricondursi ai «trattati pertinenti» di cui all’art. 78, par. 1, TFUE, nonostante alcuni Stati membri – tra cui quello da cui ha avuto origine la questione pregiudiziale – non l’abbiano ratificata. Come si evidenzierà in chiusura, tali statuizioni risultano estremamente rilevanti e consentono di delineare alcune ulteriori e significative prospettive di sviluppo.

Con la seconda e la terza questione pregiudiziale, la Corte era stata interrogata circa alcuni aspetti della nozione di un «gruppo sociale determinato» che, ai sensi dell’art. 10, par. 1, lett. d) della direttiva qualifiche, presuppone l’esistenza di due condizioni cumulative. In primo luogo, è necessario che «i membri di tale gruppo condividono una caratteristica innata o una storia comune che non può essere mutata oppure condividono una caratteristica o una fede che è così fondamentale per l’identità o la coscienza che una persona non dovrebbe essere costretta a rinunciarvi»; in secondo luogo, il suddetto gruppo deve possedere «un’identità distinta nel paese di cui trattasi, perché vi è percepito come diverso dalla società circostante».

Al riguardo, la Corte ha innanzitutto statuito che, benché l’appartenenza al sesso femminile costituisca una caratteristica innata e quindi sia, di per sé, sufficiente a integrare la prima condizione, la circostanza che un gruppo di donne si siano sottratte a un matrimonio forzato o abbiano abbandonato la casa coniugale è qualificabile come una «storia comune che non può essere mutata» ai sensi dell’art. 10, par. 1, lett. d) della direttiva qualifiche. Per quanto concerne invece la seconda condizione, prevista da tale disposizione, la Grande Sezione ha ritenuto che, in ragione delle norme sociali, morali o giuridiche esistenti nel paese di origine, le donne possono essere percepite come diverse «dalla società circostante» sia in ragione del solo fatto di essere donne che in forza della condivisione di un’altra caratteristica o di una storia comune. Ai fini della valutazione concernente l’esistenza di tale gruppo sociale determinato, spetta peraltro allo Stato membro definire se la «società circostante», nell’ambito della quale le donne sono percepite aventi un’identità distinta, coincida con l’intera società del paese di origine o sia più circoscritta e, per esempio, limitata a una porzione di territorio o della popolazione.

Alla Corte era stato altresì chiesto di specificare la rilevanza, ai fini della determinazione dell’esistenza della suddetta identità distinta, degli atti richiamati dal considerando (30) della direttiva in forza del quale «Per la definizione di un determinato gruppo sociale, occorre tenere in debito conto, degli aspetti connessi al sesso del richiedente, tra cui l’identità di genere e l’orientamento sessuale, che possono essere legati a determinate tradizioni giuridiche e consuetudini, che comportano ad esempio le mutilazioni genitali, la sterilizzazione forzata o l’aborto coatto, nella misura in cui sono correlati al timore fondato del richiedente di subire persecuzioni». Al riguardo, la Grande Sezione ha specificato che, nonostante la definizione dell’appartenenza a un gruppo sociale determinato prescinda dagli atti di persecuzione, l’esistenza di atti di discriminazione o di persecuzione nei confronti di persone che condividono una caratteristica comune può rilevare quando, al fine di valutare l’esistenza della seconda condizione di cui all’art. 10, par. 1, lett. d) della direttiva qualifiche, è necessario accertare se il gruppo de qua sia percepito come distinto alla luce di determinate norme sociali, morali o giuridiche esistenti nel paese di origine.

In ragione di ciò, la Corte ha quindi statuito che «le donne, nel loro insieme, possono essere considerate come appartenenti a un “determinato gruppo sociale” […] qualora sia accertato che, nel loro paese d’origine, esse sono, a causa del loro sesso, esposte a violenze fisiche o mentali, incluse violenze sessuali e violenze domestiche» (par. 57). La medesima qualificazione può essere operata nei confronti delle donne che rifiutano o si sottraggono a un matrimonio forzato qualora tali comportamenti siano particolarmente riprovati dalla società circostante al punto che esse sono socialmente escluse o soggette ad atti di violenza.

In ragione di tali considerazioni, la Grande Sezione ha risposto alle prime tre questioni pregiudiziali dichiarando che, alla luce delle condizioni esistenti in un paese di origine, tanto le donne da esso provenienti e considerate nella loro complessità, quanto gruppi più ristretti di esse che condividono una caratteristica comune, possono essere considerate appartenenti a un gruppo sociale determinato, quale motivo di persecuzione rilevante ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato.

Con la quarta questione pregiudiziale, la Corte è stata chiamata a precisare l’interpretazione da attribuire all’art. 9, par. 3, della direttiva qualifiche, in forza del quale i motivi di persecuzione rilevanti – tra cui l’appartenenza a un gruppo sociale determinato – devono essere collegati agli «atti di persecuzione» definiti dall’art. 9, par. 1, o alla mancanza di protezione nei confronti di essi[8]. In particolare, il dubbio del giudice del rinvio riguardava la necessità di interpretare l’art. 9, par. 3, nel senso che, qualora il richiedente alleghi il timore di essere perseguitato da soggetti non statali, l’autorità nazionale competente deve accertare l’esistenza di un nesso tra gli atti di persecuzione e almeno uno dei motivi di persecuzione rilevanti ai sensi della direttiva qualifiche (razza, religione, nazionalità, appartenenza a un gruppo sociale determinato e opinione politica)[9]. Il quesito nasceva dalla circostanza che, secondo quanto previsto dalla direttiva (art. 6, lett. c)[10], affinché soggetti non statali possano essere riconosciuti responsabili della persecuzione o del danno grave, è necessario dimostrare che i c.d. «soggetti che offrono protezione», tra cui in particolare lo Stato, abbiano la volontà e la capacità di assicurare una protezione effettiva e non temporanea contro gli atti dei suddetti soggetti non statali e adottino misure adeguate per impedire che possano essere inflitti atti di persecuzione o danni gravi[11] «in particolare avvalendosi di un sistema giuridico effettivo, al quale ha accesso il richiedente protezione internazionale, che permetta di individuare, di perseguire penalmente e di punire atti del genere» (par. 65).

Da una lettura sistematiche delle norme rilevanti[12], la Grande sezione ha concluso che, qualora il richiedente fondi la propria domanda di riconoscimento dello status di rifugiato sul timore di essere perseguitato da un soggetto non statale, non è necessario accertare un collegamento tra uno dei motivi di persecuzione e gli atti di persecuzione. È, tuttavia, necessario che si stabilisca un nesso tra uno dei suddetti motivi e la mancanza di protezione nei confronti di tali atti da parte dei «soggetti che offrono protezione» e, in particolare, dello Stato. A quest’ultimo riguardo, la Corte ha precisato che la mancanza di protezione richiesta è rilevante anche qualora essa sia determinata da motivi di persecuzione diversi da quelli che sono, invece, alla base degli atti perpetrati dai soggetti non statali. In tal modo, essa è pervenuta a un’interpretazione particolarmente estensiva ritenuta «conforme agli obiettivi della direttiva[13] […] consistenti nel garantire un elevato livello di protezione dei rifugiati e nell’identificare tutte le persone che hanno effettivamente bisogno di protezione internazionale» (par. 68).

Da ultimo, con la quinta questione pregiudiziale il giudice del rinvio chiedeva se la nozione di «danno grave», come definita dall’art. 15, lett. a) e b), della direttiva qualifiche – che costituisce il presupposto per il riconoscimento della protezione sussidiaria, qualora sia escluso lo status di rifugiato – ricomprenda la minaccia effettiva, gravante sul richiedente, di essere ucciso o di subire atti di violenza da parte di un membro della propria famiglia o della propria comunità, a causa della presunta trasgressione di norme culturali, religiose o tradizionali.

La Corte ha risposto positivamente alla questione richiamando innanzitutto che, ai sensi della disposizione sopra citata, deve considerarsi danno grave «la pena di morte o l’essere giustiziato» (lett. a) e «la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo paese di origine» (lett. b). Come evidenziato dalla Grande sezione, tali disposizioni non prevedono alcuna distinzione a seconda che il danno sia commesso da un soggetto statale o da un soggetto non statale. Interpretando l’espressione «essere giustiziato» alla luce dell’obiettivo di «garantire una protezione alle persone il cui diritto alla vita sarebbe minacciato in caso di ritorno nel loro paese d’origine», la Corte è giunta quindi a concludere che essa non può essere interpretata «nel senso di escludere danni alla vita per il solo motivo che essi sono commessi da soggetti non statuali» (par. 76). Conseguentemente, deve ritenersi riconducibile a tale nozione anche la situazione di una donna che, nel paese di origine, corre il rischio effettivo di essere uccisa da un membro della sua famiglia o della sua comunità in ragione della presunta violazione di norme culturali, religiose o tradizionali. Con riguardo, invece, all’ipotesi in cui in ragione della suddetta violazione la richiedente rischi di essere sottoposta ad atti di violenza che, con ogni probabilità, non ne determinano la morte, tali atti devono essere qualificati come «tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante» e, conseguentemente, come «danno grave».

In conclusione, la Grande sezione ha ritenuto che la minaccia effettiva, cui sia esposta la richiedente nel paese di origine, di essere uccisa o subire atti di violenza da parte di un membro della propria famiglia o della propria comunità di appartenenza, in ragione della presunta trasgressione di norme culturali, religiose o tradizionali, è qualificabile come «danno grave» che può costituire il presupposto per il riconoscimento della protezione sussidiaria.

Come già accennato, quanto statuito dalla Corte in relazione alle prime tre questioni pregiudiziali e, in particolare, al ruolo della Convenzione di Istanbul e della CEDAW con riguardo all’interpretazione della direttiva qualifiche appare estremamente rilevante[14]. In tale occasione, infatti, la Corte ha, per la prima volta, individuato dei criteri per qualificare un trattato internazionale, diverso dalla Convenzione di Ginevra, come «pertinente» rispetto alla politica comune dell’Unione in materia di protezione internazionale e cui, pertanto, questa «deve essere conforme». Tale aspetto appare significativo in ragione di una molteplicità di ragioni.

In primo luogo, sotto un profilo strettamente operativo, la Corte ha definito la nozione di «trattato pertinente» sulla base di due criteri. Primo, un criterio basato sull’adesione al trattato de qua da parte dell’Unione e/o degli Stati membri. Se in relazione alla prima ipotesi, la fondatezza del criterio appare giustificata in ragione del fatto che, ai sensi dell’art. 216, par. 2, TFUE, gli accordi conclusi dall’Unione vincolano le sue istituzioni, esso avrebbe forse richiesto di essere più ampiamente giustificato con riferimento all’ipotesi in cui il trattato sia stato ratificato da tutti gli Stati membri. D’altra parte, occorre segnalare che un criterio similare, benché non esplicitamente richiamato dalla Corte, può trovare fondamento nella circostanza che la Convenzione di Ginevra, qualificata come «trattato pertinente» dall’art. 78, par. 1, TFUE, non è stata ratificata dall’Unione, ma da tutti gli Stati membri. Del pari, tale criterio può giustificarsi in ragione del fatto che, ai sensi dell’art. 53 della Carta, il livello di protezione dei diritti fondamentali garantito dalla Carta non deve compromettere quello definito, tra gli altri, dai trattati internazionali di cui «l’Unione o tutti gli Stati membri sono parti»[15]. Il secondo criterio utilizzato dalla Corte per verificare la pertinenza di un trattato internazionale è di natura materiale e mira ad accertare l’esistenza di un collegamento sostanziale tra la protezione internazionale e il trattato della cui pertinenza si discute. Invero, l’applicazione di tale criterio alla CEDAW è espressione di un approccio particolarmente estensivo della Corte che si è limitata a valorizzare il vincolo per gli Stati membri, richiamato dal preambolo della direttiva qualifiche, di rispettare gli obblighi internazionali per essi esistenti, «tra cui in particolare quelli che vietano le discriminazioni». Questa interpretazione estensiva può avere rilevanti ricadute pratiche in ragione del fatto che il riferimento agli obblighi internazionali vincolanti gli Stati membri è usualmente presente negli atti di diritto derivato dell’Unione in materia di protezione internazionale, tanto in quelli attualmente in vigore[16] quanto nel pacchetto di riforme riconducibili al nuovo Patto sulla migrazione e l’asilo di prossima adozione[17]. In applicazione dei criteri individuati dalla Corte nella sentenza WS, si può ritenere che anche altri trattati internazionali siano qualificabili come «pertinenti» ai sensi dell’art. 78, par. 1, TFUE. Si pensi, in particolare, alle Convenzione ONU sui diritti dei minori e delle persone con disabilità che, da un lato, contengono norme rilevanti anche con riferimento alla protezione internazionale e che, d’altra parte, soddisfano anche il primo dei due criteri individuati dalla Corte in tema di pertinenza, essendo state ratificate da tutti gli Stati membri dell’Unione e, nel caso della Convenzione sui diritti delle persone con disabilità, anche dall’Unione.

Un secondo elemento di rilievo della sentenza WS va ravvisato nella circostanza che, in controtendenza con la giurisprudenza della Corte[18], in tale pronuncia i giudici di Lussemburgo hanno fatto significativamente richiamo alla prassi del Comitato di controllo della CEDAW, valorizzando l’apporto di un organo che, al pari degli altri organi di controllo dei trattati internazionali, svolge un ruolo estremamente importante per l’interpretazione del corrispondente trattato e che meriterebbe certamente di essere tenuto in debito conto.

Da ultimo – ma più importante – la qualificazione della Convenzione di Istanbul e della CEDAW quali trattati pertinenti ai sensi dell’art. 78, par. 1, TFUE, risulta positivamente in contrasto con la tendenza, propria della giurisprudenza della Corte, successiva all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, di attribuire scarsa rilevanza agli strumenti internazionali di tutela dei diritti umani diversi dalla CEDU[19]. Ancor più significativo è il portato pratico di tale valorizzazione derivante dalla circostanza che il vincolo di conformità, posto dal TFUE, in relazione a un trattato qualificabile – sulla base dei criteri sopra citati – come pertinente, implica che le sue disposizioni vengano a costituire, per il tramite dell’art. 78, par. 1, TFUE, un parametro di interpretazione e di legittimità delle norme di diritto derivato dell’Unione in materia di protezione internazionale.

Al riguardo, occorre ricordare che un trattato internazionale può assumere rilievo all’interno dell’ordinamento dell’Unione in particolare[20] in ragione della presenza, all’interno della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, di una disposizione che si «basa» su o si «ispira» ad esso e cui le Spiegazioni alla Carta fanno riferimento[21]. Paradigmatico al riguardo il principio del superiore interesse del minore, riconosciuto dall’art. 24, par. 2, della Carta e il richiamo operato dalle relative Spiegazioni alla Convenzione ONU sui diritti dei minori[22]: proprio in ragione di tale connessione, la Corte di Giustizia ha in più occasioni individuato nella Convenzione ONU un parametro interpretativo delle norme di diritto derivato. Per contro, nella giurisprudenza post-Lisbona si riscontra la – criticabile[23] – tendenza a vagliare la validità di una norma di diritto derivato «alla luce unicamente dei diritti fondamentali garantiti dalla Carta» e ciò anche qualora le disposizioni della Carta che vengono in rilievo si “basino” su un trattato internazionale[24]. D’altra parte, ciò non esclude – su un piano astratto – che il vaglio operato dalla Corte esclusivamente alla luce delle norme della Carta sia svolto in considerazione dell’interpretazione che a queste ultime deve essere attribuita in forza del contenuto degli strumenti internazionali su cui esse si basano.

Ferme restando tali precisazioni, un approccio diverso – e più “aperto” – circa il rapporto tra diritto derivato e strumenti di diritto internazionale rilevanti sembra, invece, potersi ravvisare con riferimento alla Convenzione di Ginevra. Proprio in ragione del richiamo ad essa operato dall’art. 78, par. 1, TFUE che impone «il rispetto delle norme di tale convenzione», la Corte si è, infatti, dichiarata «competente ad esaminare la validità» di norme di diritto derivato dell’Unione, adottate nell’ambito della politica comune di asilo, qualora esse non «possano essere interpretate in un senso che rispetti il livello di protezione garantito dalle norme della Convenzione di Ginevra»[25]. Si può ipotizzare che, nel solco della sentenza WS, i trattati internazionali, qualificabili come pertinenti sulla base dei criteri individuati, possano svolgere un ruolo analogo a quello già riconosciuto dalla Corte di Giustizia alla Convenzione di Ginevra e possano, pertanto, rilevare quale parametro – mediato dall’art. 78, par. 1, TFUE – di interpretazione ma anche di validità delle disposizioni di diritto derivato. Tale ruolo può risultare particolarmente rilevante in relazione a quegli strumenti di diritto internazionale, quale in particolare la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, certamente qualificabili come pertinenti e le cui disposizioni non trovano una “richiamo” nella Carta[26].

La prospettiva di sviluppo qui delineata, alla luce della sentenza WS, appare particolarmente significativa in considerazione del fatto che alcune disposizioni degli atti legislativi del nuovo Patto sulla migrazione e l’asilo presentano significativi profili di contrasto[27], tra l’altro, con le citate Convenzioni ONU sui diritti dei minori e delle persone con disabilità, come interpretate dai relativi Comitati di controllo[28] le quali, qualificandosi come trattati «pertinenti», alla luce dell’art. 78, par. 1, TFUE, potrebbero venire a costituire un significativo parametro per l’interpretazione e la validità delle suddette disposizioni di diritto UE.

 

[1] Direttiva 2011/95/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, recante norme sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta (rifusione), GU L 337 del 20.12.2011, p. 9.

[2] Art. 78, par. 1, TFUE: «L'Unione sviluppa una politica comune in materia di asilo, di protezione sussidiaria e di protezione temporanea, volta a offrire uno status appropriato a qualsiasi cittadino di un paese terzo che necessita di protezione internazionale e a garantire il rispetto del principio di non respingimento. Detta politica deve essere conforme alla convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 e al protocollo del 31 gennaio 1967 relativi allo status dei rifugiati, e agli altri trattati pertinenti».

[3] Conclusioni dell’Avvocato generale Jean Richard De La Tour presentate il 20 aprile 2023, causa C‑621/21, WS contro Intervyuirasht organ na Darzhavna agentsia za bezhantsite pri Ministerskia savet con l’intervento di Predstavitelstvo na Varhovnia komisar na Organizatsiyata na obedinenite natsii za bezhantsite v Bulgaria, ECLI:EU:C:2023:314; l’Avvocato generale aveva, in particolare, richiamato la General recommendation No. 35 on gender-based violence against women (2017) e la General Recommendation No. 19 on violence against women (1992) del Comitato ONU per l’eliminazione della discriminazione contro le donne.

[4] Per un commento al riguardo, cfr. F. Staiano, Article 60: Gender-based asylum claims, in S. De Vido, M. Frulli (eds.), Preventing and Combating Violence Against Women and Domestic Violence. A Commentary on the Istanbul Convention, Cheltenham, 2023, pp. 673 ss.

[5] Direttiva qualifiche, Preambolo, Considerando (17): «Per quanto riguarda il trattamento delle persone che rientrano nell’ambito di applicazione della presente direttiva, gli Stati membri sono vincolati dagli obblighi previsti dagli strumenti di diritto internazionale di cui sono parti, tra cui in particolare quelli che vietano le discriminazioni».

[6] Corte di Giustizia (Grande Sezione), parere del 6 ottobre 2021, Convenzione di Istanbul, Avis 1/19.

[7] Occorre precisare che l’Avvocato generale ha presentato le sue Conclusioni il 20 aprile 2023 quando, come specificato nelle Conclusioni, l’Unione aveva firmato la Convenzione di Istanbul ma non vi aveva ancora aderito; d’altra parte, tale aspetto non pare risultare dirimente nel ragionamento svolto dall’Avvocato generale al fine di escludere la pertinenza della Convenzione per l’interpretazione della direttiva qualifiche.

[8] Direttiva qualifiche, art. 9, par. 1: «Sono atti di persecuzione ai sensi dell’articolo 1 A della convenzione di Ginevra gli atti che: a) sono, per loro natura o frequenza, sufficientemente gravi da rappresentare una violazione grave dei diritti umani fondamentali, in particolare dei diritti per cui qualsiasi deroga è esclusa a norma dell’articolo 15, paragrafo 2, della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali; oppure b) costituiscono la somma di diverse misure, tra cui violazioni dei diritti umani, il cui impatto sia sufficientemente grave da esercitare sulla persona un effetto analogo a quello di cui alla lettera a)».

[9] Direttiva qualifiche, art. 10, par. 1: «Nel valutare i motivi di persecuzione, gli Stati membri tengono conto dei seguenti elementi: a) il termine «razza» si riferisce, in particolare, a considerazioni inerenti al colore della pelle, alla discendenza o all’appartenenza a un determinato gruppo etnico; b) il termine «religione» include, in particolare, le convinzioni teiste, non teiste e ateiste, la partecipazione a, o l’astensione da, riti di culto celebrati in privato o in pubblico, sia singolarmente sia in comunità, altri atti religiosi o professioni di fede, nonché le forme di comportamento personale o sociale fondate su un credo religioso o da esso prescritte; c) il termine «nazionalità» non si riferisce esclusivamente alla cittadinanza, o all’assenza di cittadinanza, ma designa, in particolare, l’appartenenza a un gruppo caratterizzato da un’identità culturale, etnica o linguistica, comuni origini geografiche o politiche o la sua affinità con la popolazione di un altro Stato; d) si considera che un gruppo costituisce un particolare gruppo sociale in particolare quando: - i membri di tale gruppo condividono una caratteristica innata o una storia comune che non può essere mutata oppure condividono una caratteristica o una fede che è così fondamentale per l’identità o la coscienza che una persona non dovrebbe essere costretta a rinunciarvi, e - tale gruppo possiede un’identità distinta nel paese di cui trattasi, perché vi è percepito come diverso dalla società circostante. In funzione delle circostanze nel paese d’origine, un particolare gruppo sociale può includere un gruppo fondato sulla caratteristica comune dell’orientamento sessuale. L’interpretazione dell’espressione «orientamento sessuale» non può includere atti penalmente rilevanti ai sensi del diritto interno degli Stati membri. Ai fini della determinazione dell’appartenenza a un determinato gruppo sociale o dell’individuazione delle caratteristiche proprie di tale gruppo, si tiene debito conto delle considerazioni di genere, compresa l’identità di genere; e) il termine «opinione politica» si riferisce, in particolare, alla professione di un’opinione, un pensiero o una convinzione su una questione inerente ai potenziali persecutori di cui all’articolo 6 e alle loro politiche o metodi, indipendentemente dal fatto che il richiedente abbia tradotto tale opinione, pensiero o convinzione in atti concreti».

[10] Direttiva qualifiche, art. 6: «I responsabili della persecuzione o del danno grave possono essere: a) lo Stato; b) i partiti o le organizzazioni che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio; c) soggetti non statuali, se può essere dimostrato che i responsabili di cui alle lettere a) e b), comprese le organizzazioni internazionali, non possono o non vogliono fornire la protezione contro persecuzioni o danni gravi di cui all’articolo 7».

[11] Cfr. Direttiva qualifiche, art. 7, parr. 1 e 2: «1. La protezione contro persecuzioni o danni gravi può essere offerta esclusivamente: a) dallo Stato; oppure b) dai partiti o organizzazioni, comprese le organizzazioni internazionali, che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio, a condizione che abbiano la volontà e la capacità di offrire protezione conformemente al paragrafo 2. 2. La protezione contro persecuzioni o danni gravi è effettiva e non temporanea. Tale protezione è in generale fornita se i soggetti di cui al paragrafo 1, lettere a) e b), adottano adeguate misure per impedire che possano essere inflitti atti persecutori o danni gravi, avvalendosi tra l’altro di un sistema giuridico effettivo che permetta di individuare, di perseguire penalmente e di punire gli atti che costituiscono persecuzione o danno grave e se il richiedente ha accesso a tale protezione».

[12] La Corte ha richiamato l’art. 9, par. 3, della direttiva, in combinato disposto con l’art. 6, lett. c), e con l’art. 7, para. 1, e alla luce del considerando (29) della direttiva; quest’ultimo prevede che «Una delle condizioni per l’attribuzione dello status di rifugiato ai sensi dell’articolo 1 A della convenzione di Ginevra è l’esistenza di un nesso causale tra i motivi di persecuzione, tra cui razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza a un determinato gruppo sociale, e gli atti di persecuzione o la mancanza di protezione contro tali atti».

[13] La Corte ha fatto riferimento ai considerando (10) e (12); quest’ultimo, in particolare, prevede che «Lo scopo principale della presente direttiva è quello, da una parte, di assicurare che gli Stati membri applichino criteri comuni per identificare le persone che hanno effettivamente bisogno di protezione internazionale e, dall’altra, di assicurare che un livello minimo di prestazioni sia disponibile per tali persone in tutti gli Stati membri».

[14] Per un primo commento al riguardo, cfr. S. De Vido, La Convenzione di Istanbul quale strumento interpretativo del diritto derivato dell’UE in situazioni di violenza contro le donne: la sentenza c-621/21 della CGUE, in Sidiblog, 24 February 2024; S. Steininger, The CJEU’s Feminist Turn? Gender-based Persecution as a Ground for Protection, in VerfBlog, 20 February 2024.

[15] Al riguardo, cfr. in dottrina, G. Gaja, The Charter of Fundamental Rights in the context of international instruments for the protection of Human Rights, in European Papers, 2017, pp. 791 ss., spec. p. 796; in relazione agli strumenti di diritto internazionale di tutela dei diritti umani diversi dalla CEDU, l’A. afferma che «when they bind all the Member States or a substantial number of them, are part of the normative context surrounding the Charter and therefore are relevant for the interpretation of the latter».

[16] Cfr. direttiva qualifiche, considerando (17); direttiva procedure, considerando (15); direttiva accoglienza, considerando (10); regolamento Dublino, considerando (32).

[17] Il 10 aprile 2024 il Parlamento europeo ha approvato diversi testi legislativi che dovranno, successivamente, essere approvati dal Consiglio: si tratta della nuova direttiva accoglienza e dei regolamenti screening, Eurodac, procedure d’asilo, gestione dell’asilo e della migrazione, qualifiche, rimpatri, situazioni di crisi e forza maggiore e reinsediamento e ammissione umanitaria.

[18] Al riguardo cfr. A. Adinolfi, Qualche riflessione sulla rilevanza nell’ordinamento dell’Unione europea dei trattati sui diritti umani diversi dalla CEDU, in AA.VV., Temi e questioni di diritto dell'Unione europea. Scritti offerti a Claudia Morviducci, Bari, 2019, pp. 133 ss., spec. pp. 148-149; sul punto, cfr. anche G. Gaja, op. cit., pp. 791 ss., spec. p. 798.

[19] Per un’analisi al riguardo, cfr. A. Adinolfi, op.cit., pp. 133 ss.

[20] Gli strumenti di diritto internazionale possono altresì rilevare ai fini della ricostruzione del contenuto di un principio generale relativo a un diritto fondamentale; rileva al riguardo l’art. 6, par. 3, TUE in forza del quale «i diritti fondamentali garantiti dalla CEDU e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri “fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali».

[21] Spiegazioni relative alla Carta dei diritti fondamentali, GU 2007/C 303/02, 14 dicembre 2007; al riguardo cfr. G. Gaja, op. cit., p. 796: ad avviso dell’Autore, nonostante per gli strumenti di diritto internazionale diversi dalla CEDU non ci sia nella Carta una clausola di interpretazione parallela quale l’art. 52, par. 3, «When the explanations state that a certain provision in the Charter “is based” or “draws” on a certain international instrument, they implicitly consider that the right conferred by the Charter corresponds to that guaranteed by the instrument».

[22] Carta dei diritti fondamentali dell’UE, art. 24, par. 2: «In tutti gli atti relativi ai minori, siano essi compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private, l’interesse superiore del minore deve essere considerato preminente»; le Spiegazioni relative all’art. 24 specificano, tra l’altro, che «Questo articolo si basa sulla convenzione di New York sui diritti del fanciullo, firmata il 20 novembre 1989 e ratificata da tutti gli Stati membri, e in particolare, sugli articoli 3, 9, 12 e 13 di detta convenzione».

[23] Cfr. sul punto A. Adinolfi, op.cit., p. 146.

[24] Paradigmatica al riguardo Corte di Giustizia, sentenza 28 luglio 2016, Ordre des barreaux francophones et germanophone e a., causa C-543/14, ECLI:EU:C:2016:605, par. 23: «Dato che il giudice del rinvio fa riferimento non solamente all’articolo 47 della Carta, ma anche all’articolo 14 del PIDCP e all’articolo 6 della CEDU, occorre ricordare che sebbene, come conferma l’articolo 6, paragrafo 3, TUE, i diritti fondamentali riconosciuti dalla CEDU facciano parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali e l’articolo 52, paragrafo 3, della Carta disponga che i diritti contenuti nella medesima corrispondenti a quelli garantiti dalla CEDU hanno significato e portata uguali a quelli loro conferiti da detta convenzione, quest’ultima non costituisce, fintantoché l’Unione non vi abbia aderito, uno strumento giuridico formalmente integrato nell’ordinamento dell’Unione […] Tale constatazione vale anche per il PIDCP. Pertanto, l’esame della validità della direttiva 2006/112 dev’essere condotto alla luce unicamente dei diritti fondamentali garantiti dalla Carta» (corsivo aggiunto).

[25] Corte di Giustizia (Grande Sezione), sentenza del 14 gennaio 2019, M (Revoca dello status di rifugiato), cause riunite C‑391/16, C‑77/17 e C‑78/17, ECLI:EU:C:2019:403, parr. 74-75.

[26] Tra le norme della Carta con specifico riferimento ai disabili figurano l’art. 21 che vieta qualsiasi forma di discriminazione fondata anche sulla disabilità e l’art. 26 in forza del quale « L’Unione riconosce e rispetta il diritto delle persone con disabilità di beneficiare di misure intese a garantirne l’autonomia, l’inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità»; secondo quanto specificato dalle Spiegazioni relative a tale disposizione «Il principio contenuto in questo articolo si basa sull'articolo 15 della Carta sociale europea e si ispira inoltre al punto 26 della Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori»

[27] Rilevano, inter alia, la prevista applicazione del Regolamento Eurodac anche ai minori, a partire dai 6 anni di età e l’applicazione della procedura di frontiera, disciplinata dal Regolamento procedure, anche ai minori non accompagnati – qualora costituiscano un pericolo per la sicurezza nazionale o l'ordine pubblico dello Stato membro o che siano stati espulsi con efficacia esecutiva per gravi motivi di sicurezza nazionale o di ordine pubblico – e alle c.d. persone vulnerabile, incluse quelle con disabilità.

[28] Si pensi, tra l’altro, al Joint general comment No. 4 (2017) of the Committee on the Protection of the Rights of All Migrant Workers and Members of Their Families and No. 23 (2017) of the Committee on the Rights of the Child on State obligations regarding the human rights of children in the context of international migration in countries of origin, transit, destination and return, UN Doc. CMW/C/GC/4-CRC/C/GC/23.

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