Le riforme costituzionali ed il metodo
1. Premessa
Questa Rivista ha accolto già due editoriali che hanno affrontato il tema delle riforme costituzionali avviate nella XIX legislatura e, ciò nonostante, il tema, che ha tanti profili ed anche varie letture possibili, merita un ulteriore intervento.
Nei fascicoli 2 e 3 del 2023, Orlando Roselli prima e Rolando Tarchi poi hanno esaminato i limiti dell’attuale stagione delle riforme, pur con analisi, argomenti e conclusioni diversificate. Entrambi tuttavia non hanno potuto non osservare che il dato di partenza è rappresentato dalla esistenza di limiti della forma di governo nell’attuale assetto, da un lato constatando “la sempre più accentuata inadeguatezza” del funzionamento del sistema politico-istituzionale (Roselli) e dall’altro ammettendo che il “rendimento della nostra forma di governo, certamente non comparabile a quello di altri sistemi parlamentari come quelli della Germania o della stessa Spagna e dei profondi mutamenti di carattere economico, sociale, culturale ecc. che sono intervenuti negli ultimi decenni e che richiedono una maggiore tempestività ed efficienza nelle decisioni da assumere” (Tarchi).
E proprio da questa constatazione vorrei partire, ossia dei limiti della nostra forma di governo ormai messi in evidenza nei più vari contesti, quantomeno a partire dalla Commissione Bozzi in poi, ma non tanto al fine di analizzare l’attuale disegno di legge costituzionale sul c.d. “premierato”, ora in discussione alla Camera dei deputati (A.C. 1921) e già approvato in prima lettura al Senato (A.S. 935), quanto sull’opportunità di seguire un metodo di riforma costituzionale diverso rispetto a quello che si sta ora seguendo. Si ritiene cioè che limitarsi ancora una volta ad approvare un testo che sia espressione solo della maggioranza, come era avvenuto nel 2006 e nel 2016, sia estremamente rischioso, visto che l’esito di un referendum costituzionale in questa tematica è altamente aleatorio. Un ennesimo fallimento di una riforma che dal 1983 si sta cercando e che attualmente è ancor più necessaria, come si cercherà di precisare meglio nel prosieguo di queste riflessioni, può costituire un danno ancora maggiore.
Tanti tentativi di riforma organica sono stati cercati dalla Commissione Bozzi in poi, che non hanno escluso, comunque, l’approvazione di ben trenta leggi costituzionali, per lo più a carattere puntuale, e solo limitatamente di natura organica, come deve essere considerata la modifica del Titolo V, che con grande lentezza ha avuto un assestamento con l’intervento dirimente della Corte costituzionale. Una riforma, quella della forma di governo regionale e delle rispettive competenze, che, pur con tanti difetti, è stata frutto della discussione emersa in una delle tante Commissioni bicamerali istituite ad hoc per elaborare una riforma organica, con un metodo questo fortemente criticato da una parte della dottrina costituzionalista, ma le discussioni e le proposte emerse in quei contesti, vengono richiamate da molti anche oggi, come possibili soluzioni da introdurre.
In particolare, faccio riferimento ai risultati della Commissione d’Alema ed in particolare alla c.d. bozza Salvi che spesso viene menzionata in questo periodo, indice che un contesto di dibattito condiviso può portare a risultati che anche nel tempo si dimostrano ragionevoli. Parliamo di un progetto del 1997, ossia di oltre venticinque anni fa, che ha rappresentato l’ultima occasione di dibattito in una sede ad hoc, non contaminata dalla discussione quotidiana fra maggioranza ed opposizione nelle normali commissioni affari costituzionali delle due Camere, che già hanno difficoltà a svolgere il normale lavoro, specialmente ora dopo la discutibile scelta della riduzione dei parlamentari. Non s’intende con questo affermare che la “bozza Salvi” debba essere utilizzata in toto nella fase attuale, ma, quello che appare più rilevante, è quantomeno auspicare che si possa trovare una sede in cui il dibattito fra maggioranza e minoranza possa portare ad un risultato condiviso, frutto inevitabilmente di un compromesso.
E quello che si può constatare ad oggi, è l’assenza di un effettivo tentativo di giungere ad un testo condiviso, né da parte della maggioranza, né dell’opposizione, perché certamente non può essere considerato un procedimento di condivisione quello che si limita all’audizione delle varie soluzioni della minoranza da parte della maggioranza, senza poi cercare di elaborare una soluzione che tenga conto delle varie soluzioni prospettate, né dall’altro lato l’affermazione che la scelta di abbandonare la soluzione di una forma di governo presidenziale, scegliendo quella del premierato, può essere considerata espressione del tentativo di un compromesso.
Certamente occorre la volontà di entrambe le parti di giungere ad una soluzione condivisa, al di là delle motivazioni di carattere politico, le giustificazioni che sempre possono essere individuate per escludere una determinata soluzione, aspetti questi che fuoriescono dalla sfera più propriamente costituzionale, ma piuttosto inquadrabili in un ambito politologico.
Ciò che invece può essere oggetto di analisi in questo contesto, attiene alla utilità di un intervento costituzionale che riguardi la forma di governo ed il metodo per giungere alla riforma costituzionale.
2. La stabilità governativa come obiettivo da perseguire
La stabilità governativa può essere considerata un obiettivo comune a tutte le forze politiche e, nonostante alcuni (pochi) sostenitori della necessità di mantenere inalterata la forma di governo per il rischio di incidere negativamente su quell’insieme di pesi e contrappesi che il costituente ha determinato nel 1947, in realtà, nel corso delle tante legislature, tutte le forze politiche succedutesi nella maggioranza hanno presentato progetti di legge costituzionale che andavano in misura più o meno incisiva a modificare l’attuale assetto dei poteri fra organi costituzionali o anche solo all’interno della compagine di governo. Si pensi, ad esempio, ad un datato progetto di riforma dell’art. 92 ult. c. Cost., che ipotizzava di introdurre oltre al potere di nomina anche quello di revoca dei ministri su indicazione del Presidente del Consiglio, al fine di assicurare a quest’ultimo quella posizione di preminenza sulla compagine governativa, che in Assemblea costituente non si è voluta esplicitare, ma che sarebbe stata affidata alla prassi ed alle convenzioni che si sarebbero create fra i partiti ed all’interno del governo. Preminenza che non si è raggiunta neppure con la legge n. 400 del 1988, che, a Costituzione invariata, aveva cercato di rafforzarne il ruolo, né si è conseguita con le varie leggi elettorali che si sono succedute, compresa la previsione dell’inserimento nella scheda elettorale del candidato premier del partito o della coalizione. Preminenza che non si è mai voluta attribuire non solo per il timore del c.d. “uomo solo al comando”, ma perché anche all’interno delle coalizioni politiche la debolezza del Premier è stata sempre utilizzata dai partiti minori per poter incidere maggiormente sull’indirizzo politico di governo.
Sembra quasi che fino ad ora le difficoltà del Presidente del consiglio di avere la forza politica di dare un indirizzo che sia seguito dai ministri della coalizione, sia stato percepito da molti come utile al sistema. Non a caso la pratica di inviare direttive da parte del Presidente del consiglio e quella opposta di disattenderle da parte dei ministri sia stata assai frequente.
Una instabilità governativa che ha caratterizzato la storia italiana dall'unità ad oggi, ma, se un tempo, anche durante tutto lo scorso secolo, non ha determinato conseguenze irrisolvibili, in quanto compensato dalla forza e dalla presenza pervasiva dei partiti, ora la permanenza in carica di un presidente del consiglio per cinque anni e del suo indirizzo politico rappresenta un obiettivo da perseguire. Una stabilità che non riguarda soltanto la figura del Presidente del consiglio, ma che può avere effetti riflessi sulla gran parte della compagine governativa, delle dirigenze generali dei rispettivi ministeri e dipartimenti con la conseguente coerenza e continuità nel tempo degli indirizzi da questi elaborati.
3. La stabilità e l’Unione europea
Una stabilità che deve essere vista principalmente in funzione di obiettivi europei ed internazionali. Orami le scelte di indirizzo politico che ogni parlamento e governo nazionale possono individuare, sono marginali e prevalentemente condizionate dagli atti normativi europei e dagli obiettivi determinati dal Consiglio europeo, che, a sua volta, è influenzato anche da indirizzi di natura internazionale, si pensi alla NATO (per quanto riguarda le spese di armamenti), o all’ONU (con i tanti obiettivi sullo sviluppo sostenibile ed in particolare sulla lotta contro i cambiamenti climatici).
La permanenza in carica del Presidente del Consiglio garantisce, non solo la continuità nelle scelte all’interno degli organi europei, ma anche l’affidabilità che gli impegni presi siano rispettati almeno per un quinquennio. La credibilità che nel corso del tempo e delle riunioni europee si viene a formare, si può basare anche sulla stima reciproca fra Capi di Stato e di governo. All’Italia tutto questo è spesso mancato, ma con effetti ancor più negativi negli ultimi trenta anni, per una serie di concause che hanno accentuato la debolezza dell’Italia nel contesto europeo. In particolare, dopo il Trattato Maastricht la cui entrata in vigore è coincisa con il venir meno del sistema proporzionale, e quindi con il venir meno anche della stabilità dei partiti nella maggioranza di governo, che, invece fino al 1993, indipendentemente dalle persone rimaneva inalterata. Alla debolezza dei partiti si può aggiungere gli effetti che sono derivati dalla caduta del muro di Berlino (su cui rinvio a quanto ho più ampiamente trattato in altra sede Ruolo delle costituzioni fra crisi geografica e crisi della rappresentanza: un’introduzione, in Rivista AIC, fasc. 3, 2019).
Un governo di legislatura può quindi consentire sia al Presidente del consiglio di poter indirizzare meglio i lavori all’interno del contesto europeo e del Consiglio europeo, che hanno effetti a cascata sulle politiche interne, dall’altro alle istituzioni europee di avere un interlocutore stabile nel momento in cui occorre fare delle scelte che implicano impegni che vincolano nel tempo ciascuno Stato. Altrettanto si può dire per i rapporti internazionali che hanno sempre come referenti il Presidente del consiglio e gli altri membri del governo. L’obiezione che può essere mossa è che una volta che il vincolo sia stato sottoscritto dallo Stato o comunque determinato con atto normativo, vincola indipendentemente dalla persona fisica o dalla maggioranza presente al governo, ma in realtà è cosa nota che l’avvicendamento governativo influisce in modo determinante sulle modalità d’attuazione degli indirizzi europei, in particolare con riguardo al contenuto delle direttive, che costituisce un aspetto fisiologico, ma anche per ogni altro indirizzo per le modalità con cui le varie forze politiche poi interpretano i rispettivi impegni europei.
Una seconda ragione oggettiva, che deve indurre verso l’introduzione di meccanismi che garantiscano la stabilità, è rappresentata da esigenze di carattere organizzativo della pubblica amministrazione intesa in senso organico, per la necessità di dare una maggiore stabilità e funzionalità in ogni dicastero e nella stessa Presidenza del consiglio. Un presidente, un ministro, un vice-ministro che rimane in carica per un anno solare, poco più, non ha la possibilità d’incidere sufficientemente sulla struttura, sulla pianificazione, sull’impostazione e indirizzo dei lavori. Attività queste che riguardano la scelta dei vertici dell’amministrazione e di tutti gli uffici di diretta collaborazione, fino alla possibilità di coordinare ed anche controllare il buon funzionamento, il rispetto delle direttive impartite (sempre che si abbia il tempo di formularle), la capacità della macchina organizzativa di rispondere agli obiettivi prefissati o quelli che si individuano nel corso della legislatura. La durata del governo per l’intera legislatura incide poi sul modo di operare dei vertici dell’amministrazione, dai segretari generali ai dirigenti generali, nonché sulla scelta di quei funzionari ministeriali che si devono rapportare con le istituzioni europee. La stabilità nel potere d’indirizzo e coordinamento del Presidente del Consiglio si riverbera nei confronti dell’attività di tutto il governo, auspicando che un governo di legislatura significhi anche stabilità di direzione in ogni ministero.
Indirizzo politico europeo ed indirizzo politico interno si possono così saldare insieme.
4. Revisione costituzionale da realizzare in modo condiviso
Una modifica costituzionale che vada ad incidere sulla forma di governo non deve pertanto essere considerata pregiudizialmente da escludere o comunque ritenere che “sia interesse di tutti evitare soluzioni istituzionali che possano seriamente far correre questo rischio alla nostra Repubblica parlamentare” (Tarchi), ma cercare di avere una visione più propositiva come ha detto da ultimo l’attuale Presidente della Corte costituzionale in una intervista a Il Sole 24 ore del 28 giugno 2024. Augusto Barbera ha ancora una volta ribadito quanto da decenni sta auspicando, ossia che “la forma di governo non solo può essere messa in discussione, anzi mi sento di dire che deve essere messa in discussione, visto che dalla costituente uscì un sistema fatto apposta per non permettere ai vincitori delle elezioni di governare”, spiegando poi nel dettaglio le ragioni della auspicata riforma costituzionale che, in sedi diverse ha cercato in passato di agevolare, proprio per evitare le distorsioni della forma di governo che in seno all’Assemblea costituente furono inserite proprio perché nessuna delle “parti contrapposte" si fidava dell’altra. Si ricorda, infatti, come Giuseppe Dossetti dichiarò espressamente che la formulazione di quella parte della Costituzione “fu un patto di garanzia fra parti contrapposte rivolto a sottrarre ciascuna dal pericolo di sopraffazione per opera delle altre”. Ma i tempi ormai sono cambiati ed occorre agevolare la fiducia reciproca fra maggioranza ed opposizione.
D’altra parte, si deve anche affermare che il rafforzamento della posizione del Presidente del consiglio e la stabilità del governo non devono snaturare completamente la nostra forma di governo, che sotto altri punti di vista ha funzionato, che si caratterizza anche grazie al principio checks and balance tante volte richiamato e che sicuramente costituisce una garanzia dell’asse democratico. Pertanto, è anche necessario mantenere la centralità delle decisioni collegiali del governo, così da evitare ogni spinta verso un accentramento di tutti i poteri nel solo Presidente del Consiglio, che ha avuto una sua degenerazione durante la pandemia con l’uso ed abuso dei DPCM (su cui si rinvia a quanto già si è detto in questa Rivista, n. 3/2022, L’accentramento del potere decisionale nel Governo e le fonti di gestione dell’emergenza sanitaria), e senza la essenziale condivisione delle scelte che riguardano la politica generale del governo. Così ancora sarà necessario non limitarsi ad una modifica delle poche norme sul governo, ma anche rafforzare il ruolo dell’opposizione, per poi giungere anche ad una ridefinizione del ruolo delle due Camere, evitando quel monocameralismo di fatto che si è realizzato da un po’ di anni, ma che ne snatura le funzioni, altera comunque i rapporti istituzionali e l’assetto costituzionale.
Non deve neppure preoccupare, d’altra parte, la Relazione sullo Stato di diritto in Italia 2024 appena pubblicata che, nell’analizzare il progetto di riforma costituzionale sul “premierato” solleva dei dubbi in ordine al bilanciamento dei poteri istituzionali ed in particolare per la riduzione dei poteri del Presidente della Repubblica. Un cambiamento ed un adattamento degli organi interessati è un risultato inevitabile rispetto al modo in cui è stato interpretato fino ad ora il potere del Capo dello Stato, che non è poi esattamente quanto era voluto dai costituenti e che è scritto in Costituzione. Quanto è ricercato con la riforma costituzionale è proprio l’attribuzione di un potere stabile per cinque anni al Presidente del Consiglio ed al suo governo, evitando così eventuali crisi, per quanto è possibile, durante la legislatura ed anche soluzioni di maggioranze estemporanee, anche incidendo quindi sull’attuale estensione dei poteri del Presidente della Repubblica, escludendo così anche la soluzione dei governi tecnici e “del Presidente”, che costituiscono un’anomalia tutta italiana.
Forse più che una critica in ordine alla violazione dello Stato di diritto, potrebbe essere interpretata anche come un timore da parte dell’Unione europea di una riforma che attribuisca all’Italia quella stabilità che non è mai riuscita a conseguire. La successione costante dei governi rappresentava sicuramente uno status utile per gli altri Stati europei. La debolezza altrui è inevitabilmente strumento di forza per quegli Stati che, per natura o per riforme cercate e volute in tempi passati, hanno modificato la propria forma di governo in modo sicuramente incisivo (come è avvenuto in Francia e su cui da ultimo per una ricostruzione storica M. Marchi, Presidenzialismo a metà. Modello francese, passione italiana, Il Mulino, Bologna, 2023 nonché in particolare M. Cavino, A. Di Giovine, E. Grosso, La Quinta Repubblica Francese dopo la riforma costituzionale del 2008, Giappichelli, Torino, 2010).
Se si concorda che un rafforzamento nel ruolo del Presidente del Consiglio e del governo costituisca una strada che debba necessariamente essere percorsa per garantire la stabilità governativa, che da così tanto tempo si va inseguendo, è anche necessario che questo obiettivo venga raggiunto con una nuova formulazione costituzionale che sia espressione della più ampia maggioranza, cercando effettivamente un compromesso con una parte significativa delle opposizioni.
Come ha già rilevato Orlando Roselli nell’editoriale prima richiamato, “senza condivisione le forze di maggioranza corrono il rischio (come già avvenuto) di scoprirsi minoranza nel Paese in sede di referendum” e, proprio perché si reputa che una riforma costituzionale sia essenziale per consentire all’Italia una maggiore capacità di incidere sulle politiche europee, è necessario che le forze politiche giungano finalmente ad una soluzione condivisa di riforma della Costituzione che possa favorire quella stabilità governativa che stiamo cercando da più di settant’anni e che nessuna legge ordinaria e riforma elettorale è riuscita ad assicurare.