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Per la seconda volta in pochi mesi la Corte dichiara illegittima una norma interna contrastante con norme comunitarie sprovviste di effetto diretto (3/2010)

Sentenza n. 227/2010- Giudizio di costituzionalità in via incidentale

Deposito del 24/062010 - Pubblicazione in G. U. 30/06/2010

Motivi della segnalazione

Nella sentenza n. 227/2010 la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, c. 1, lett. r della legge n. 69/2005 (Disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri), nella parte in cui non prevede il rifiuto di consegna anche del cittadino di un altro Paese membro dell’Unione europea, che legittimamente ed effettivamente abbia residenza o dimora nel territorio italiano, ai fini dell’esecuzione della pena detentiva in Italia conformemente al diritto interno. La Corte ha così accolto una questione di legittimità per violazione dell’art. 117.1 Cost. e, benché non fosse stato richiamato nell’ordinanza di rimessione, dell’art. 11 (in virtù della consolidata giurisprudenza della Corte sull’utilizzazione dei parametri di legittimità a cui l’atto del giudice a quo, anche senza evocarli formalmente, fa tuttavia chiaramente riferimento).

I profili d’interesse della decisione sono legati al fatto che si tratta di un caso di contrasto della disposizione legislativa nazionale con un atto normativo europeo sprovvisto di effetto diretto. Come noto, infatti, l’art. 11 Cost. fonda il potere-dovere del giudice comune di dare immediata applicazione alle norme comunitarie dotate di effetto diretto, non applicando le norme nazionali che si trovino in contrasto con esse (cfr. la sent. n. 170/1984, punto 5 del Considerato in diritto). Benché la possibilità di sollevare la questione di legittimità di una norma interna  per violazione di una norma europea sprovvista di effetto diretto fosse già stata ammessa (cfr. le pronunce n. 170/1984, 317/1996, 267/1999, 284/2007), questo è – dopo la recente sentenza n. 28/2010 – il secondo caso in cui una vicenda del genere si conclude con una sentenza di accoglimento.

Giunge all’attenzione della Corte la decisione quadro sul mandato di arresto europeo, deliberata nel 2002 in quell’ambito di competenze noto come terzo pilastro fino all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, che ne ha disposto la “comunitarizzazione”. Si tratta perciò di un atto che vincola gli Stati membri quanto al risultato da ottenere, salva restando la competenza delle autorità degli Stati stessi in ordine alla forma e ai mezzi. Nel 2005 la Corte europea di giustizia ha affermato l’obbligo di interpretazione conforme del diritto interno alla lettera ed allo scopo della decisione quadro, realizzando una sorta di parificazione fra questa e la direttiva (sentenza Pupino). In primo luogo il giudice rimettente ha perciò valutato ed escluso la possibilità di procedere ad un’interpretazione conforme della disposizione impugnata – un’eventualità, quest’ultima, esclusa dall’ormai avvenuta formazione di un “diritto vivente”. Ne deriva perciò che “il contrasto tra la normativa di recepimento e la decisione quadro, insanabile in via interpretativa, non poteva trovare rimedio nella disapplicazione della norma nazionale da parte del giudice comune, trattandosi di norma dell’Unione europea priva di efficacia diretta, ma doveva essere sottoposto alla verifica di costituzionalità”. Ciò significa, in sostanza, che “gli atti nazionali che danno attuazione ad una decisione quadro con base giuridica nel TUE ... non sono sottratti alla verifica di legittimità rispetto alle conferenti norme del ... Trattato FUE, che integrano a loro volta i parametri costituzionali ... che a quelle norme fanno rinvio”.

Il parametro costituzionale risulta infatti integrato dal divieto di discriminazione in base alla nazionalità nel campo di applicazione dei Trattati europei (art. 18 TFUE). Questo divieto, che di per sé è suscettibile di ricevere diretta applicazione, non è però “dotato di una portata assoluta tale da far ritenere sempre e comunque incompatibile la norma nazionale che formalmente vi contrasti. Al legislatore dello Stato membro, infatti, è consentito di prevedere una limitazione alla parità di trattamento tra il proprio cittadino e il cittadino di altro Stato membro, a condizione che sia proporzionata e adeguata”. Il giudice delle leggi soggiunge, a questo proposito, che la disapplicazione (sic) della norma interna in ipotesi incompatibile sarebbe preclusa dalla circostanza che nel caso di specie si verte in materia penale.

Da questa ricostruzione scaturisce perciò il potere-dovere del giudice-comune non già di non applicare la norma interna, bensì di sollevare questione di legittimità costituzionale; e la Corte si trova a valutare tale questione sulla base dei parametri sopra elencati e, sulla scorta di un consolidato orientamento giurisprudenziale, della giurisprudenza della Corte di giustizia concernente l’interpretazione della decisione quadro. Le sentenze Wolzenburg e Kozlowski consentono così di concludere che la disposizione interna impugnata contrasta con la ratio della norma europea cui dovrebbe dare attuazione e dà luogo a una discriminazione che, in assenza di una ragionevole giustificazione, non supera il test di proporzionalità. Se infatti l’art. 4.6 della decisione quadro, anche per finalità di reinserimento sociale della persona condannata, attribuisce agli Stati membri la facoltà di prevedere il rifiuto di consegna nelle ipotesi in cui “la persona ricercata dimori nello Stato membro di esecuzione, ne sia cittadino o vi risieda”, la normativa italiana “utilizz[a] il criterio esclusivo della cittadinanza, escludendo qualsiasi verifica in ordine alla sussistenza di un legame effettivo e stabile con lo Stato membro dell’esecuzione”, con ciò “[escludendo] radicalmente l’ipotesi che il cittadino di altro Stato membro possa beneficiare del rifiuto di consegna e dunque dell’esecuzione della pena in Italia”.

 

Osservatorio sulle fonti

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