Sulla parità di trattamento dei cittadini di paesi terzi in materia di prestazioni sociali ed alcuni (non superflui) chiarimenti sulla presunta 'comunitarizzazione' della Cedu da parte del Trattato di Lisbona:
«Spazio di libertà, di sicurezza e di giustizia − Articolo 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea − Direttiva 2003/109/CE − Status dei cittadini di paesi terzi soggiornanti di lungo periodo − Diritto alla parità di trattamento per quanto riguarda la previdenza sociale, l’assistenza sociale e la protezione sociale − Deroga al principio della parità di trattamento per le misure rientranti nell’assistenza sociale e nella protezione sociale − Esclusione delle “prestazioni essenziali” dall’ambito di applicazione di tale deroga − Normativa nazionale che prevede un sussidio per l’alloggio a favore dei conduttori meno abbienti − Ammontare dei fondi destinati ai cittadini di paesi terzi determinato in proporzione ad una media ponderata diversa − Rigetto di una domanda di sussidio per l’alloggio a motivo dell’esaurimento dello stanziamento destinato ai cittadini di paesi terzi»
Il ricorrente nel procedimento principale era un cittadino albanese residente e stabilmente occupato nella Provincia autonoma di Bolzano dal 1994, e titolare di un permesso di soggiorno a tempo indeterminato. Dopo aver beneficiato - dal 1998 al 2008 - del sussidio per l’alloggio previsto all’articolo 2, primo comma, lettera k), della legge provinciale n. 13, del 17 dicembre 1998 (nella versione vigente all’epoca dei fatti), il sig. Kamberaj vedeva rigettata la domanda relativa all’anno 2009, a motivo che lo stanziamento destinato ai cittadini di paesi terzi era esaurito. Il sussidio per l’alloggio consiste in un contributo al pagamento del canone di locazione dei conduttori meno abbienti, i cui potenziali beneficiari - in ogni caso, residenti nella Provincia di Bolzano - sono distinti in due categorie: i cittadini dell’Unione, senza distinzione in base alla nazionalità, ed i cittadini di paesi terzi e gli apolidi. Per accedere al sussidio, i cittadini UE devono presentare una dichiarazione di appartenenza o di aggregazione ad uno dei tre gruppi linguistici; diversamente, per i cittadini di paesi terzi e gli apolidi è richiesto che essi, alla data della presentazione della loro domanda, abbiano soggiornato continuativamente e regolarmente da almeno cinque anni nel territorio provinciale e che ivi abbiano svolto un’attività lavorativa per almeno tre anni. La distinzione trova ragione d’essere nel fatto che per ciascuna categoria è previsto uno specifico stanziamento di risorse: in particolare, la distribuzione delle risorse relative al sussidio viene effettuata tramite delibera della Giunta provinciale, in proporzione alla media ponderata tra la consistenza numerica ed il fabbisogno di ciascuna categoria. Tuttavia, a partire dal 2009, sono stati attribuiti dei coefficienti diversi (rispettivamente, 1 e 5) alla consistenza numerica delle due categorie. Ciò era giustificato dalla Provincia con riferimento a difficoltà statistiche o amministrative per gestire le domande di sussidio per l’alloggio presentate dai cittadini di paesi terzi. Tuttavia, l’applicazione di coefficienti diversi in pratica sfavoriva la categoria dei cittadini di paesi terzi, in quanto lo stanziamento disponibile per soddisfare le loro domande di sussidio per l’alloggio risultava più esiguo, con il rischio che si esaurisse più rapidamente. Il giudice a quo dubitava pertanto della compatibilità con il diritto dell’Unione del diverso trattamento.
Il giudice del rinvio formulava ben sette quesiti pregiudiziali, individuando varie disposizioni del diritto - primario e secondario - dell’Unione che, a suo dire, ostavano al doppio regime previsto dalla legge provinciale. Tuttavia, la Corte di giustizia ha ritenuto ricevibili solo alcune delle domande poste. In particolare, la Corte ha ritenuto irricevibile la quarta questione, relativa al presunto contrasto tra la legge provinciale e la direttiva 2000/43/CE, che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica,[1] dal momento che quest’ultima «si applica unicamente alle discriminazioni dirette o indirette fondate sulla razza o sull’origine etnica», mentre «non riguarda le differenze di trattamento basate sulla nazionalità e non pregiudica le disposizioni e le condizioni relative all’ingresso nonché alla residenza dei cittadini di paesi terzi e degli apolidi nel territorio degli Stati membri, né qualsiasi trattamento derivante dalla condizione giuridica dei cittadini dei paesi terzi e degli apolidi» (par. 49). Invece, la Corte ha ritenuto ricevibile il quesito circa la compatibilità della differenza di trattamento con la direttiva 2003/109/CE, relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo.[2] Parimenti, la Corte ha ritenuto ricevibile la seconda questione pregiudiziale, con la quale il giudice nazionale chiedeva, in sostanza, se «il richiamo a[lla CEDU] effettuato dall’articolo 6[, paragrafo 3] TUE imponga al giudice nazionale di dare diretta attuazione alle disposizioni di tale convenzione (..), disapplicando la norma di diritto nazionale in conflitto, senza dovere previamente sollevare una questione di costituzionalità dinanzi alla Corte costituzionale» (par. 59).
Le considerazioni svolte dalla Corte a tale ultimo proposito non appaiono superflue, soprattutto alla luce di certa giurisprudenza nazionale post-Lisbona.[3] L’art. 6, paragrafo 3, TUE recita che ‘I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell'Unione in quanto principi generali’. Nella sentenza in esame, la Corte di giustizia ha osservato che, se questa disposizione «consacra la giurisprudenza costante della Corte secondo la quale i diritti fondamentali sono parte integrante dei principi generali del diritto dei quali la Corte garantisce l’osservanza», tuttavia l’art. 6, par. 3, TUE «non disciplina il rapporto tra la CEDU e gli ordinamenti giuridici degli Stati membri e nemmeno determina le conseguenze che un giudice nazionale deve trarre nell’ipotesi di conflitto tra i diritti garantiti da tale convenzione ed una norma di diritto nazionale» (paragrafi 61 e 62). Ne consegue che «il rinvio operato dall’articolo 6, paragrafo 3, TUE alla CEDU non impone al giudice nazionale, in caso di conflitto tra una norma di diritto nazionale e detta convenzione, di applicare direttamente le disposizioni di quest’ultima, disapplicando la norma di diritto nazionale in contrasto con essa» (par. 63; corsivo sottolineato aggiunto).
Ad avviso della Corte, l’art. 11 della direttiva, che sancisce la parità di trattamento tra soggiornanti di lungo periodo e cittadini nazionali, osta ad una normativa nazionale quale quella in esame se quest’ultima soddisfa due condizioni, una positiva ed una negativa. In primo luogo, occorre che la normativa nazionale rientri in una delle categorie contemplate dall’art. 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva, ovvero la previdenza sociale, l’assistenza sociale e la protezione sociale (condizione positiva). Ciò in quanto la parità di trattamento quale tutelata dalla direttiva opera limitatamente ai settori dalla stessa indicati. Dal momento che la disposizione appena citata rinvia alle definizioni di previdenza sociale, assistenza sociale e protezione sociale, «non spetta alla Corte dare delle parole di cui trattasi una definizione autonoma ed uniforme ai sensi del diritto dell’Unione[; i]nfatti, un rinvio siffatto implica che il legislatore dell’Unione abbia inteso rispettare le differenze che sussistono tra gli Stati membri riguardo alla definizione ed alla portata esatta delle nozioni di cui trattasi» (par. 77). Tuttavia, la Corte ha al contempo chiarito che il rinvio al diritto nazionale «non implic[a] che gli Stati membri possano pregiudicare l’effetto utile della direttiva 2003/109 al momento dell’applicazione del principio della parità di trattamento previsto da tale disposizione» (par. 78). Inoltre, dall’art. 51, par. 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea deriva che «allorché stabiliscono le misure di previdenza sociale, di assistenza sociale e di protezione sociale definite dalla loro legislazione nazionale e soggiacenti al principio della parità di trattamento sancito all’articolo 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109, gli Stati membri devono rispettare i diritti ed osservare i principi previsti dalla Carta, segnatamente quelli enunciati all’articolo 34 di quest’ultima» (par. 80). Poiché l’art. 34, par. 3, della Carta prevede che l’Unione – e gli Stati membri quando attuano il diritto di quest’ultima – ‘riconosce e rispetta il diritto all’assistenza sociale e all’assistenza abitativa volte a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti, secondo le modalità stabilite dal diritto dell’Unione e le legislazioni e prassi nazionali’ (corsivo aggiunto), spetta al giudice del rinvio valutare «tenendo conto dell’obiettivo di integrazione perseguito da tale direttiva, (..) se un sussidio per l’alloggio, come quello previsto dalla legge provinciale, rientri in una delle categorie contemplate da detto articolo 11, paragrafo 1, lettera d)» (par. 81).[4]
In secondo luogo, affinché l’art. 11 della direttiva possa operare, occorre anche che lo Stato membro non si sia avvalso, rispetto al sussidio in esame, della possibilità di limitare l’applicazione del principio della parità di trattamento previsto dall’art. 11, paragrafo 4, della direttiva, in base al quale «[g]li Stati membri possono limitare la parità di trattamento in materia di assistenza sociale e protezione sociale alle prestazioni essenziali». A tal proposito, la Corte ha precisato che il fatto che il tredicesimo considerando[5] non menzioni tra le prestazioni essenziali un sussidio per l’abitazione quale quello previsto dalla legge provinciale non è di per sé decisivo, dal momento che all’elenco deve essere riconosciuto carattere meramente indicativo (paragrafi 84 e 85). Ha poi ricordato che, in quanto eccezione alla regola generale della parità di trattamento prevista dall’art. 11, par. 1, della direttiva, la deroga prevista dal paragrafo 4 della stessa disposizione deve essere interpretata in modo restrittivo (par. 86), ed in ogni caso lo Stato membro deve manifestare espressamente la propria intenzione di avvalersi della stessa (par. 87). Da ultimo, la Corte ha precisato che la determinazione della nozione di ‘prestazioni essenziali’ non è rimessa completamente ai singoli Stati membri, dal momento che il rinvio al diritto nazionale contenuto nel tredicesimo considerando si riferisce esclusivamente alle modalità di concessione di tali prestazioni (par. 89); ne consegue che, interpretata alla luce della finalità della direttiva, la nozione di prestazioni sociali non può ricomprendere «le prestazioni di assistenza sociale o di protezione sociale concesse dalle autorità pubbliche, a livello nazionale, regionale o locale, che contribuiscono a permettere all’individuo di soddisfare le sue necessità elementari, come il vitto, l’alloggio e la salute» (par. 91). Con il verosimile intento di circoscrivere ulteriormente la discrezionalità del legislatore e giudice nazionali nell’individuare le prestazioni che soddisfano tali requisiti, la Corte ha anche aggiunto che «conformemente all’articolo 34 della Carta, l’Unione riconosce e rispetta il diritto all’assistenza sociale e all’assistenza abitativa volte a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongono di risorse sufficienti[; ne] consegue che, nei limiti in cui il sussidio di cui trattasi nel procedimento principale risponde alla finalità enunciata nel citato articolo della Carta, esso non può essere considerato, nell’ambito del diritto dell’Unione, come non compreso tra le prestazioni essenziali ai sensi dell’articolo 11, paragrafo 4, della direttiva 2003/109» (par. 92).[6]
[4] Una posizione più netta a tal riguardo era stata espressa dall’AG Bot nelle sue conclusioni, al cui par. 85 si legge: «[o]rbene, [gli Stati membri] non possono, a tal riguardo, prescindere dal fatto che l’art. 34 della Carta, intitolato «Sicurezza sociale e assistenza sociale», menziona espressamente l’«assistenza abitativa» al suo n. 3. Mi sembra dunque estremamente difficile che uno Stato membro, allorquando dà attuazione all’art. 11, n. 1, lett. d), della direttiva 2003/109, possa escludere un sussidio casa, come quello di cui trattasi nella causa principale, dall’ambito di applicazione di tale disposizione».
[5] «Con riferimento all’assistenza sociale, la possibilità di limitare le prestazioni per soggiornanti di lungo periodo a quelle essenziali deve intendersi nel senso che queste ultime comprendono almeno un sostegno di reddito minimo, l’assistenza in caso di malattia, di gravidanza, l’assistenza parentale e l’assistenza a lungo termine. Le modalità di concessione di queste prestazioni dovrebbero essere determinate dalla legislazione nazionale».».
[6] Si vedano, anche in questo caso, le più nette considerazioni dell’Avvocato Generale Bot: «[h]o già esposto le ragioni per le quali, a mio avviso, il tenore letterale dell’art. 34, n. 3, della Carta rende estremamente difficile che uno Stato membro possa decidere, al fine di escludere l’applicazione dell’art. 11, n. 1, lett. d), della direttiva 2003/109, che un sussidio casa, come quello di cui trattasi nella causa principale, non rientri in nessuna delle categorie relative alle prestazioni sociali, all’assistenza sociale e alla protezione sociale, quali definite ai sensi della legislazione nazionale. A mio avviso, l’art. 34, n. 3, della Carta, atteso che considera espressamente l’«assistenza abitativa» come destinata «a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti», «(a)l fine di lottare contro l’esclusione sociale e la povertà», depone a favore dell’inclusione di un sussidio casa, come quello in esame nella controversia principale, nella nozione di «prestazioni essenziali», quale da me precedentemente definita» (par. 95).