Non ogni violazione della libertà di religione tutelata dalla Carta dei diritti fondamentali integra un «atto di persecuzione» ai sensi della direttiva 2004/83/CE
«Direttiva 2004/83/CE – Norme minime sull’attribuzione dello status di rifugiato o dello status conferito dalla protezione sussidiaria – Articolo 2, lettera c) –Riconoscimento quale “rifugiato” – Articolo 9, paragrafo 1 – Nozione di “atti di persecuzione” – Articolo 10, paragrafo 1, lettera b) – Religione come motivo della persecuzione – Collegamento fra tale motivo di persecuzione e gli atti di persecuzione – Cittadini pachistani membri della comunità religiosa Ahmadiyya – Atti delle autorità pachistane diretti a vietare il diritto di manifestare la propria religione in pubblico – Atti sufficientemente gravi da giustificare il fondato timore dell’interessato di essere esposto a persecuzione a causa della sua religione – Esame su base individuale dei fatti e delle circostanze – Articolo 4»
Su richiesta del Bundesverwaltungsgericht (Corte amministrativa federale tedesca), la Corte di giustizia, deliberando nella composizione della Grande sezione, ha precisato la nozione di «atti di persecuzione» utilizzata dalla direttiva 2004/83/CE, recante norme minime sull’attribuzione a cittadini di paesi terzi o apolidi della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta.[1] In particolare, la Corte era chiamata a precisare la nozione in riferimento alle ipotesi in cui il richiedente asilo asserisce di correre il rischio, nel proprio paese, di essere perseguitato per motivi religiosi. Il rinvio pregiudiziale mirava, in sintesi, a stabilire se ogni violazione della libertà di religione, come tutelata dall’art. 10 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, costituisca una persecuzione ai sensi della direttiva. A tale quesito, la Corte ha risposto negativamente. Prima di esaminare il merito della decisione, è opportuno ricordare brevemente le disposizioni rilevanti della direttiva 2004/83/CE.
Come si evince dal suo articolo 1, la direttiva mira a stabilire norme minime sull’attribuzione ai cittadini di paesi terzi o apolidi della qualifica di beneficiario della protezione internazionale, nonché sul contenuto della protezione giuridica. La base giuridica della direttiva è infatti l’art. 63 CE, che consentiva l’adozione da parte della Comunità di norme minime in materia di asilo. Invece, l’art. 78 TFUE, che ha sostituito l’art. 63 CE, fa adesso riferimento allo sviluppo di una «politica comune in materia di asilo, di protezione sussidiaria e di protezione temporanea».[2] All’art. 2 della direttiva si precisa che, ai fini della stessa, per «rifugiato» si intende il «cittadino di un paese terzo il quale, per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza ad un determinato gruppo sociale, si trova fuori dal paese di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di detto paese, oppure apolide che si trova fuori dal paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale per le stesse ragioni succitate e non può o, a causa di siffatto timore, non vuole farvi ritorno, e al quale non si applica l'articolo 12 [che indica le ipotesi di esclusione dallo status di rifugiato]». Questa nozione è identica a quella contenuta all’art. 1, sezione A, paragrafo 2, della Convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati, firmata a Ginevra il 28 luglio 1951.[3] Il requisito della conformità della normativa dell’Unione alla Convenzione di Ginevra ed al suo Protocollo[4] era infatti espressamente previsto dall’art. 63 CE, ed è ora ripreso dall’art. 78 TFUE,[5] nonché dall’art. 18 della Carta. Quest’ultima disposizione merita particolare attenzione. Essa è rubricata «Diritto di asilo» e sancisce che «[i]l diritto di asilo è garantito nel rispetto delle norme stabilite dalla convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 e dal protocollo del 31 gennaio 1967, relativi allo status dei rifugiati, e a norma del trattato sull'Unione europea e del trattato sul funzionamento dell'Unione europea». Dunque, la disposizione della Carta enuncia un vero e proprio «diritto» di asilo, che non è invece affermato dalla Convenzione di Ginevra.[6] Inoltre, quest’ultima neanche fornisce una definizione di «persecuzione». Questa si ritrova, invece, all’art. 9 della direttiva, rubricato «Requisiti per essere considerato rifugiato», il cui primo paragrafo stabilisce che «[g]li atti di persecuzione ai sensi dell’articolo 1A della convenzione di Ginevra devono: a) essere sufficientemente gravi, per loro natura o frequenza, da rappresentare una violazione grave dei diritti umani fondamentali, in particolare dei diritti per cui qualsiasi deroga è esclusa a norma dell’articolo 15, paragrafo 2, della [CEDU]; oppure b) costituire la somma di diverse misure, tra cui violazioni dei diritti umani, il cui impatto sia sufficientemente grave da esercitare sulla persona un effetto analogo a quello di cui alla lettera a)». Il paragrafo 2 della stessa disposizione aggiunge che «Gli atti di persecuzione che rientrano nella definizione di cui al paragrafo 1 possono, tra l’altro, assumere la forma di: a) atti di violenza fisica o psichica (...); b) provvedimenti legislativi, amministrativi, di polizia e/o giudiziari, discriminatori per loro stessa natura o attuati in modo discriminatorio; c) azioni giudiziarie o sanzioni penali sproporzionate o discriminatorie; (...)». Il paragrafo terzo precisa poi che vi deve essere un collegamento tra i motivi indicati alla lettera c) dell’art. 2 (ovvero, la razza, la religione, la nazionalità, l’opinione politica o l’appartenenza ad un determinato gruppo sociale) e gli atti di persecuzione. Per quanto riguarda, in particolare, il motivo della «religione», l’art. 10 della direttiva, rubricato «Motivi di persecuzione», afferma alla lettera b) che esso include, in particolare, le convinzioni teiste, non teiste e ateiste, la partecipazione a, o l'astensione da, riti di culto celebrati in privato o in pubblico, sia singolarmente sia in comunità, altri atti religiosi o professioni di fede, nonché le forme di comportamento personale o sociale fondate su un credo religioso o da esso prescritte.
Quanto all’art. 9, paragrafo 1, della direttiva si può osservare che, mentre il riferimento al carattere di violazione grave (con la conseguenza che non ogni violazione è rilevante ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato) appare consustanziale alla nozione di persecuzione, l’ancoraggio di quest’ultima alla violazione dei diritti previsti come inderogabili dalla CEDU[7] è invece il frutto di una precisa scelta politica: come ricorda l’Avvocato generale Bot al punto 62 delle sue conclusioni, «nel 2002, nell’ambito dei lavori in seno al Consiglio, il legislatore dell’Unione ha fatto riferimento ai diritti fondamentali dell’uomo, insistendo innanzitutto sul ‘diritto alla vita, [sul] diritto di non essere sottoposto a tortura, [sul] diritto alla libertà e alla sicurezza’ prima di prendere in considerazione, a seguito delle riserve espresse da taluni Stati membri, i diritti che non ammettono alcuna deroga ai sensi dell’articolo 15, paragrafo 2, della CEDU».[8] E’ comunque vero che l’inciso «in particolare» di cui all’art. 9, paragrafo 1, lettera a), suggerisce che anche la violazione di diritti fondamentali diversi da quelli inderogabili può costituire una persecuzione, purché si tratti di una violazione grave; inoltre, il riferimento alle «violazioni dei diritti umani» contenuto alla lettera b) non è limitato alle sole violazioni dei diritti inderogabili. In sintesi, il tenore letterale della disposizione suggerisce che la violazione grave dei diritti previsti come inderogabili dalla CEDU è solo il ‘nucleo duro’ della nozione di atti di persecuzione. Peraltro, l’art. 3 della direttiva fa salva la facoltà degli Stati membri - che sono tutti parte della Convenzione di Ginevra - di introdurre o mantenere in vigore «disposizioni più favorevoli in ordine alla determinazione dei soggetti che possono essere considerati rifugiati o persone ammissibili alla protezione sussidiaria nonché in ordine alla definizione degli elementi sostanziali della protezione internazionale», purché compatibili con la direttiva.
Venendo al rinvio pregiudiziale proposto dal Bundesverwaltungsgericht, questo rivolgeva tre domande alla Corte di giustizia. Con le prime due, che la Corte ha esaminato congiuntamente, il giudice a quo chiedeva in sostanza di chiarire se l’articolo 9, par. 1, lettera a), della direttiva deve essere interpretato nel senso che qualsiasi violazione del diritto alla libertà di religione che leda l’articolo 10, par. 1, della Carta[9] è idonea a configurare un «atto di persecuzione» ai sensi di tale disposizione della direttiva ovvero è al contrario necessaria una violazione del «nucleo essenziale» della libertà di religione. Con la terza domanda, invece, il giudice tedesco mirava a stabilire se l’articolo 2, lettera c), della direttiva[10] (che fornisce la nozione di «rifugiato») deve essere interpretato nel senso che il timore del richiedente di essere perseguitato è fondato quando questi può evitare di esporsi a una persecuzione nel suo paese d’origine rinunciando ad esercitarvi taluni atti religiosi.
I quesiti venivano sollevati nell’ambito di due controversie che vedevano opposto il Bundesministerium des Innern (Ministero tedesco degli interni) a due cittadini pachistani che avevano visto rigettate le proprie domande di asilo dal Bundesamt (Ufficio federale per la migrazione ed i rifugiati). Entrambi i cittadini avevano addotto, a sostegno delle proprie domande, di essere stati costretti a lasciare il proprio paese a motivo dell’appartenenza alla comunità musulmana Ahmadiyya, un movimento riformatore dell’Islam. In effetti, l’art. 298 C del codice penale pakistano dispone che i membri di tale comunità sono passibili di una pena fino a tre anni di reclusione o di una pena pecuniaria se affermano di essere musulmani, qualificano come Islam la loro fede, pregano o propagano la loro religione o se cercano proseliti, mentre l’articolo 295 C stabilisce che chiunque oltraggia il nome del profeta Maometto può essere punito con la pena di morte o l’ergastolo oltre a una pena pecuniaria. I due cittadini, nel presentare le loro domande, avevano affermato di essere stati maltrattati a motivo del loro credo religioso; inoltre, Y aveva dichiarato di essere stato minacciato di morte e denunciato alla polizia per aver insultato il nome di Maometto, e Z di essere stato detenuto a motivo del suo credo religioso. Tuttavia, il Bundesamt aveva respinto entrambe le domande, ritenendo che non esistessero elementi sufficienti per affermare che i richiedenti avessero lasciato il loro paese d’origine per il fondato timore di essere ivi perseguitati.
Riguardo alle prime due questioni pregiudiziali, la Corte di giustizia, dopo aver ricordato gli artt. 9, paragrafo 1, lettere a) e b), 9, paragrafo 3, e 10, paragrafo 1, lettera b), ha osservato che «[i]l diritto alla libertà di religione sancito dall’articolo 10, paragrafo 1, della Carta corrisponde al diritto garantito all’articolo 9 della CEDU» (par. 56),[11] e che «[l]a libertà di religione rappresenta uno dei cardini di una società democratica e costituisce un diritto umano fondamentale», ed ha ammesso che «[l]a violazione del diritto alla libertà di religione può presentare una gravità tale da essere assimilata ai casi contemplati all’articolo 15, paragrafo 2, della CEDU» (par. 57). Tuttavia, la Corte ha subito precisato che «ciò non significa affatto che qualsiasi violazione del diritto alla libertà di religione garantito dall’articolo 10, paragrafo 1, della Carta costituisca un atto di persecuzione che obblighi le autorità competenti a concedere alla vittima di tale violazione lo status di rifugiato ai sensi dell’articolo 2, lettera d), della direttiva» (par. 58). In particolare, poiché la direttiva fa riferimento ad una «violazione grave», devono escludersi sia quelle limitazioni previste dalla legge[12] che, in quanto conformi all’art. 52, par. 1, della Carta, non costituiscono delle violazioni dell’art. 10, par. 1, della stessa, sia le limitazioni che, pur non essendo coperte dall’art. 52, par. 1, della Carta e che pertanto costituiscono delle violazioni del suo art. 10, tuttavia «non presentano una gravità pari a quella della violazione dei diritti umani fondamentali inderogabili in forza dell’articolo 15, paragrafo 2, della CEDU» (paragrafi 60 e 61). In particolare, la Corte fa riferimento alla «intrinseca gravità» degli atti lesivi del diritto alla libertà di religione di cui all’art. 10 della Carta, «unitamente alla gravità delle loro conseguenze per la persona interessata», da intendersi, quest’ultima, come «la gravità delle misure e delle sanzioni che potrebbero essere adottate nei confronti dell’interessato» (paragrafi 65 e 66). Ad avviso della Corte, dunque, «una violazione del diritto alla libertà di religione può costituire una persecuzione a norma dell’articolo 9, paragrafo 1, lettera a), della direttiva quando il richiedente asilo, a causa dell’esercizio di tale libertà nel paese d’origine, corre un rischio effettivo, in particolare, di essere perseguitato, o di essere sottoposto a trattamenti o a pene disumani o degradanti» (par. 67). Questa parte della sentenza non brilla, invero, per chiarezza. La Corte sembra suggerire due criteri pratici per individuare se sussiste un atto di persecuzione rilevante ai fini della direttiva: ma mentre il primo - valutare se la persona corre un rischio effettivo di «essere perseguitato» - è essenzialmente “circolare”, il secondo - valutare se la persona corre il rischio effettivo di essere sottoposto a pene inumane e degradanti - è solo una delle ipotesi riconducibili al criterio della violazione dei diritti di cui all’art. 15, paragrafo 2. Una lettura plausibile - alla luce anche delle considerazioni svolte dall’Avvocato generale - suggerisce che la persecuzione religiosa sussiste sia nei casi in cui sia violato o vi sia il rischio che sia violato uno dei diritti inderogabili di cui all’art. 15, paragrafo 2, della CEDU per un motivo riconducibile alla religione del richiedente asilo, sia quando una la libertà religiosa di quest’ultimo subisce delle limitazioni che sono incompatibili con l’art. 10, paragrafo 1 della Carta, la cui trasgressione è sanzionata con misure idonee ad offendere gravemente i suddetti diritti inderogabili.[13] Sicuramente più chiara, ed in linea con la definizione di «religione» fornita dalla direttiva,[14] è la precisazione che per individuare in concreto gli atti di persecuzione religiosa rilevanti «non è pertinente distinguere tra gli atti che ledono un “nucleo essenziale» (“forum internum”) del diritto fondamentale alla libertà di religione, che non comprenderebbe le pratiche religiose in pubblico (“forum externum”), e quelli che non incidono su tale presunto “nucleo essenziale”» (par. 62).
Si può notare che la Corte di giustizia, dopo aver precisato che l’art. 10, paragrafo 1, della Carta corrisponde all’art. 9, paragrafo 1, della CEDU, non ha tuttavia fatto alcun riferimento alla giurisprudenza pertinente della Corte di Strasburgo. L’art. 52, paragrafo 3, della Carta precisa che i diritti della Carta che corrispondono a diritti garantiti dalla CEDU hanno lo stesso significato e portata di questi ultimi, fatta salva la possibilità per il diritto dell’Unione di accordare una tutela più elevata. In altre parole, il livello di protezione offerto dalla CEDU funge da minimum floor, e non da ceiling. In ogni caso, la spiegazione corrispondente all’art. 52, paragrafo 3, della Carta precisa che il significato e la portata dei diritti corrispondenti devono essere determinati avendo riguardo anche alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Dei riferimenti alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo si trovano, invece, nelle conclusioni dell’Avvocato generale, che sottolinea come sia l’interpretazione della nozione di persecuzione che la considerazione della irrilevanza della distinzione tra «forum internum» e «forum externum» da lui proposte - e dalla Corte sostanzialmente riprese - corrispondono alla interpretazione dell’art. 9 della CEDU fornita dalla Corte di Strasburgo.[15] Nella giurisprudenza della Corte di giustizia, anche dopo l’entrata in vigore della Carta, non si riscontra ancora un riferimento sistematico e argomentato alla giurisprudenza della Corte europea, come invece sembra esigere l’art. 52, paragrafo 3, della Carta e la sua spiegazione. Si può però anche notare che né nelle conclusioni dell’Avvocato generale né nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo da questo citata si trova l’ulteriore precisazione svolta dalla Corte secondo cui la valutazione circa la sussistenza di un atto di persecuzione deve essere effettuata avendo riguardo a tutti gli atti ai quali il richiedente asilo è stato o rischia di essere esposto nel proprio paese, e alla luce della situazione personale del richiedente (par. 68). Ciò implica che «[l]a circostanza soggettiva che l’osservanza di una determinata pratica religiosa in pubblico, colpita dalle restrizioni contestate, sia particolarmente importante per l’interessato al fine di conservare la sua identità religiosa costituisce un elemento pertinente nella valutazione del livello di rischio che il richiedente corre nel suo paese d’origine a causa della sua religione, quand’anche l’osservanza di siffatta pratica religiosa non costituisca un elemento centrale per la comunità religiosa in oggetto» (par. 70).
Da ultimo, la Corte ha proceduto all’esame della terza questione pregiudiziale, con la quale il giudice a quo chiedeva, in sostanza, di chiarire se il timore del richiedente asilo di essere perseguitato in caso di ritorno nel paese d’origine è da ritenersi «fondato» ai sensi dell’art. 2, lettera c), della direttiva nel caso in cui è acclarato che egli compirà atti di esercizio della libertà religiosa (dai quali potrebbe, in ipotesi, astenersi) che metteranno in pericolo la sua vita, integrità fisica o incolumità. Questa domanda è di particolare interesse rispetto ai casi in cui il richiedente asilo non adduce a giustificazione della propria richiesta il fatto di essere già stato vittima di persecuzioni, ma piuttosto prospetta l’avverarsi di questo scenario in caso di ritorno nel proprio Stato. La Corte di giustizia ha affermato che la valutazione delle domande di asilo deve essere fatta unicamente alla luce dei fatti e delle circostanze di cui all’art. 4 della direttiva, il quale non contiene alcuna indicazione circa la necessità di verificare se il richiedente potrebbe evitare un rischio di persecuzione «rinunciando alla pratica religiosa controversa e, di conseguenza, alla protezione che la direttiva si prefigge di garantirgli riconoscendogli lo status di rifugiato» (par. 78). Pertanto, la terza questione è stata risolta nel senso che, «quando è assodato che, una volta rientrato nel proprio paese d’origine, l’interessato si dedicherà a una pratica religiosa che lo esporrà ad un rischio effettivo di persecuzione, gli dovrebbe essere riconosciuto lo status di rifugiato» (par. 79). In quanto affermato dalla Corte si scorge l’eco delle conclusioni dell’Avvocato generale, secondo il quale una diversa soluzione priverebbe la direttiva del suo effetto utile, «perché non permetterebbe di proteggere le persone che, scegliendo di esercitare i loro diritti e le loro libertà nel loro paese d’origine, si espongono ad atti di persecuzione».[16] Altrettanto interessante è la considerazione dell’Avvocato generale per cui l’interpretazione secondo cui il fondato timore non può sussistere quando il richiedente asilo potrebbe evitare il rischio di persecuzione astenendosi dal manifestare pubblicamente la propria fede od il proprio credo è in contrasto con il rispetto che l’art. 1 della Carta esige per la dignità umana, nonché con gli artt. 10, paragrafo 1, e 52, paragrafo 1, della Carta, «perché tende a privare l’interessato di un diritto fondamentale che gli è garantito [dall’art. 10] al di là dei casi espressamente previsti dalla legge».[17] Se le autorità competenti degli Stati membri avallassero questa interpretazione aggraverebbero la situazione di violazione dei diritti fondamentali di cui il richiedente è in pratica già vittima (per le limitazioni imposte nel paese d’origine all’esercizio della libertà religiosa).[18] Sembra quindi emergere, nelle conclusioni, l’idea - certamente condivisibile - secondo cui, se anche l’obiettivo della direttiva non è quello di concedere la protezione in ogni caso in cui il richiedente asilo è esposto, nel suo Stato, ad una violazione dei diritti fondamentali quali tutelati all’interno dell’UE,[19] ciò non toglie che il parametro che opera in materia di protezione dei diritti fondamentali per gli atti dell’Unione e la loro attuazione ed applicazione concreta da parte degli Stati membri/competenti autorità amministrative e giudiziarie nazionali è comunque la Carta.
Nicole Lazzerini
[2] In proposito, si rimanda a A. Adinolfi, ‘La realizzazione del «sistema europeo comune di asilo» dopo il Trattato di Lisbona’, in E. Triggiani (ed), Europa e Mediterraneo, Napoli, 2010, p. 237 ss.
[3] In Recueil des traités des Nations unies, vol. 189, pag. 150, n. 2545 (1954). La Convenzione è entrata in vigore il 22 aprile 1954 ed è stata successivamente completata dal protocollo relativo allo status dei rifugiati, concluso a New York il 31 gennaio 1967, ed entrato in vigore il 4 ottobre 1967. In particolare, il protocollo ha eliminato la limitazione geografica ed ampliato l’ambito di applicazione temporale della Convenzione, eliminando il requisito secondo cui il timore di persecuzione doveva trovare causa in avvenimenti anteriori al 1° gennaio 1951. I testi della Convenzione e del Protocollo sono reperibili anche on-line al sito: http://www.unhcr.it/news/dir/13/convenzione-di-ginevra.html.
[5] Al primo paragrafo, l’art. 78 TFUE recita che «L'Unione sviluppa una politica comune in materia di asilo, di protezione sussidiaria e di protezione temporanea, volta a offrire uno status appropriato a qualsiasi cittadino di un paese terzo che necessita di protezione internazionale e a garantire il rispetto del principio di non respingimento. Detta politica deve essere conforme alla convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 e al protocollo del 31 gennaio 1967 relativi allo status dei rifugiati, e agli altri trattati pertinenti».
[6] In proposito, si veda M.-T. Gil-Bazo, ‘The Charter of Fundamental Rights of the European Union and the Right to be granted Asylum in the Union’s Law’, Refugee Survey Quarterly, 2008 (3), p. 33 ss.
[7] Ovvero, il diritto alla vita, il divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti (art. 3 CEDU), il divieto di schiavitù ed il principio di legalità in materia penale (rispettivamente, articoli 2, 3, 4, par. 1, e 7 CEDU). Questi corrispondono agli artt. 2, 4, 5, par. 1, e 49 della Carta.
[8] Si noti, comunque, che un criterio simile è stato accolto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo: infra, nel testo e nota 15.
[9] L’art. 10 della Carta, rubricato, «Libertà di pensiero, di coscienza e di religione», recita che «1. Ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione. Tale diritto include la libertà di cambiare religione o convinzione, così come la libertà di manifestare la propria religione o la propria convinzione individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l'insegnamento, le pratiche e l'osservanza dei riti. 2. Il diritto all'obiezione di coscienza è riconosciuto secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l'esercizio».
[10] L’art. 2, lettera c), della direttiva definisce «rifugiato» il «cittadino di un paese terzo il quale, per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza ad un determinato gruppo sociale, si trova fuori dal paese di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di detto paese».
[11] L’art. 10, paragrafo 1, della Carta recita che «Ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione. Tale diritto include la libertà di cambiare religione o convinzione, così come la libertà di manifestare la propria religione o la propria convinzione individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l'insegnamento, le pratiche e l'osservanza dei riti». La spiegazione relativa a questa disposizione precisa che «Il diritto garantito al paragrafo 1 corrisponde a quello garantito dall'articolo 9 della CEDU e, ai sensi dell'articolo 52, paragrafo 3 della Carta, ha significato e portata identici a detto articolo. Le limitazioni devono pertanto rispettare l'articolo 9, paragrafo 2, che recita: ‘La libertà di professare la propria religione o il proprio credo non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che, stabilite dalla legge, costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla pubblica sicurezza, alla protezione dell’ordine, della salute o della morale pubblica, o alla protezione dei diritti e della libertà altrui’».
[12] Sulla nozione di «legge» di cui all’art. 52, paragrafo 1, della Carta, si vedano le conclusioni dell’Avvocato generale Cruz Villalón nella causa C-70/10, Scarlet Extended [2011], non ancora pubblicata in Raccolta, in particolare paragrafi 88 ss.
[13] Si vedano, in particolare, i paragrafi da 63 a 69 delle conclusioni dell’Avvocato generale Bot.
[14] L’art. 10, paragrafo 1, lett. b), statuisce che la nozione «“religione” include, in particolare, le convinzioni teiste, non teiste e ateiste, la partecipazione a, o l’astensione da, riti di culto celebrati in privato o in pubblico, sia singolarmente sia in comunità, altri atti religiosi o professioni di fede, nonché le forme di comportamento personale o sociale fondate su un credo religioso o da esso prescritte».
[15] L’Avvocato generale fa riferimento, in particolare, alle sentenze 13 dicembre 2001, Chiesa metropolitana di Bessarabia e a. c. Moldova, Recueil des arrêts et décisions 2001-XII, e sentenza 28 febbraio 2006, Z. e T. c. Regno Unito, Recueil des arrêts et décisions 2006-III. In particolare, in quest’ultima sentenza la Corte di Strasburgo ha affermato che «The Court’s case-law indeed underlines that freedom of thought, religion and conscience is one of the foundations of a democratic society and that manifesting one’s religion (..). This is however first and foremost the standard applied within the Contracting States, which are committed to democratic ideals, the rule of law and human rights. The Contracting States nonetheless have obligations towards those from other jurisdictions, imposed variously under the 1951 United Nations Convention on the Status of Refugees and under the above-mentioned Articles 2 and 3 of the Convention. As a result, protection is offered to those who have a substantiated claim that they will either suffer persecution for, inter alia, religious reasons or will be at real risk of death or serious ill-treatment, and possibly flagrant denial of a fair trial or arbitrary detention, because of their religious affiliation (as for any other reason). Where however an individual claims that on return to his own country he would be impeded in his religious worship in a manner which falls short of those proscribed levels, the Court considers that very limited assistance, if any, can be derived from Article 9 [ECHR] by itself. Otherwise it would be imposing an obligation on Contracting States effectively to act as indirect guarantors of freedom of worship for the rest of world. (..) it would be difficult to visualise a case in which a sufficiently flagrant violation of Article 9 would not also involve treatment in violation of Article 3 of the Convention». A questo proposito, si veda anche il paragrafo Si veda anche il paragrafo 28 delle conclusioni dell’Avvocato generale, riportato infra, nel testo. Nel senso che l’art. 9 CEDU copre anche la libertà di esercitare o manifestare pubblicamente la propria religione, si veda anche la sentenza del 25 maggio 1993 Kokkinakis c. Greece,, Series A no. 260-A, p. 17, par. 31.