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CEDU, Belpietro v. Italy, judgment, 24 September 2013 e Ricci v. Italy, judgement, 8 October 2013 (3/2013)

Due recenti sentenze CEDU condannano l'Italia per la previsione della pena del carcere ai giornalisti.

1. Con le recenti sentenze rese nei casi Belpietro v. Italy e Ricci v. Italy la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per aver violato l’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo per la previsione della pena del carcere per la commissione di reati a mezzo stampa e radiodiffusione.

La prima sentenza della Corte europea ha avuto origine dal ricorso presentato dall’allora direttore del quotidiano “Il Giornale”, Maurizio Belpietro, che era stato condannato dalla Corte di Appello di Milano a scontare la pena di 4 mesi di carcere per diffamazione (pena sospesa) a causa della pubblicazione di un articolo che riportava i toni ingiuriosi con i quali un senatore, risultato poi coperto da immunità in virtù dell’art. 68 Cost., additava alcuni magistrati nell’ambito della cosiddetta “guerra” che si sarebbe scatenata in quel periodo tra i carabinieri e la Procura di Palermo.

La condanna di Delpietro è stata pronunciata in applicazione dell’art. 57 del codice penale italiano che, come è noto, stabilisce un obbligo di vigilanza del direttore del giornale necessario ad impedire che con la pubblicazione siano commessi reati e lo considera responsabile  “a titolo di colpa” nel caso in cui siano effettivamente perpetrati illeciti penali.  

In seguito alla conferma della condanna da parte della Corte di Cassazione, Belpietro ha proposto ricorso alla Corte di Strasburgo per lamentare il pregiudizio alla propria libertà di espressione ad opera della sentenza di condanna subita per la commissione del reato di diffamazione a mezzo stampa.

Il caso Ricci, invece, ha avuto origine dalla sentenza di condanna, pronunciata dal Tribunale di Milano e confermata nei successivi gradi di giudizio, alla pena detentiva per 4 mesi (pena sospesa) dell’autore e direttore della trasmissione televisiva “Striscia la notizia”, Antonio Ricci, per aver divulgato alcuni filmati e registrazioni tratti da frequenze riservate all’uso interno dell’emittente televisiva pubblica (RAI). 

Secondo l’autore del programma satirico, la condanna pronunciata dai giudici italiani sarebbe stata basata su un’interpretazione del diritto di cronaca e di satira politica eccessivamente rigida e incompatibile con il livello minimo di protezione garantito dall’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. A suo avviso, alla divulgazione di immagini utili a dimostrare l’ipocrisia dell’emittente televisiva statale sarebbe corrisposto un interesse generale a conoscere il vero ruolo della televisione di Stato, interesse da considerare di rilievo preminente rispetto a quello alla riservatezza e alla confidenzialità delle informazioni divulgate.

2. Pronunciandosi nel caso Belpietro e successivamente nel caso Ricci la Corte europea dei diritti dell’uomo ha, innanzitutto, riaffermato i principi espressi nella sua precedente giurisprudenza sulle limitazioni ammesse alla libertà di espressione. 

Nel caso Belpietro la Corte ha considerato soddisfatto il test della legalità evidenziando come le misure nazionali costituenti ingerenza nel godimento della libertà di espressione del direttore del giornale erano state previste dalla legge, dato che la condanna del direttore del giornale è stata fondata sull’art. 57 del codice penale italiano. Secondo la Corte sarebbe stato rispettato anche il secondo requisito di legalità consistente nel rispetto degli obiettivi legittimi dettati dall’art. 10, comma 2, della Convenzione europea, tra i quali figura anche la tutela della reputazione altrui.

Per quanto riguarda il test della necessità, alla luce del quale l’ingerenza statale deve corrispondere a un “bisogno sociale imperioso” e risultare proporzionata all’obiettivo legittimo perseguito, la Corte ha ricordato che gli Stati contraenti beneficiano di un margine di apprezzamento che è, tuttavia, sottoposto al controllo esterno della Corte europea dei diritti dell’uomo. Nel caso di specie la Corte ha giudicato che la condanna per diffamazione a carico del direttore del giornale fosse nel merito da considerare legittima considerando che la presentazione grafica dell’articolo (in particolare l’utilizzazione di una foto che confermerebbe la tesi riportata nell’articolo) e il risalto ad esso attribuito nell’ambito della testata avrebbero rafforzato il carattere diffamatorio dell’articolo.

La condanna di Delpietro è stata tuttavia considerata sproporzionata a causa della natura e dell’entità delle pene previste, giudicate eccessive rispetto alle circostanze concrete. In particolare, la previsione della pena del carcere avrebbe comportato un effetto dissuasivo sull’esercizio dell’attività giornalistica e, in generale, sul godimento della libertà di espressione.

3. La Corte europea è giunta ad analoga conclusione nella sentenza Ricci v. Italy. Dopo aver ribadito l’esigenza che l’ingerenza statale risulti conforme ai test della legittimità e della necessità, essa ha sottolineato che l’attività giornalistica gode di protezione nell’ambito dell’art. 10 della Convenzione europea purché essa sia svolta in buona fede, sulla base di informazioni di interesse generale attendibili e precise e che siano state ricavate e divulgate nel rispetto dell’etica giornalistica. L’esercizio dell’attività giornalistica comporta infatti doveri e responsabilità tanto più accentuati quanto più marcato sia il rischio di incidere sulla sfera dei diritti e delle libertà altrui.

Nel caso Ricci la Corte ha innanzitutto contestato la posizione assunta dal Tribunale di Milano secondo la quale l’interesse alla protezione della riservatezza delle comunicazioni derivanti da un sistema informatico o telematico avrebbe carattere assoluto, ritenendolo invece suscettibile di bilanciamento con l’esercizio della libertà di espressione.

Tuttavia, l’interesse alla riservatezza è stato considerato prevalente nel caso di specie considerando che il contenuto della divulgazione è parso orientato a ridicolizzare un comportamento individuale piuttosto che a trasmettere informazioni di carattere culturale. Inoltre, la registrazione era stata estratta da una frequenza privata che era destinata all’uso interno della RAI, circostanza questa che non poteva essere ignorata dall’autore del programma e che pertanto provava che egli avesse agito consapevolmente a dispregio dell’etica giornalistica.

Come già nel caso Belpietro, anche in questo caso, dunque, la condanna del giornalista non è parsa di per sé in contrasto con l’art. 10 della Convenzione europea (vedi par. 58 della sentenza). E’ stata invece considerata illegittima la comminazione della pena alla reclusione. Essa infatti è risultata eccessiva nel caso di specie e potenzialmente dissuasiva dell’attività giornalistica e, dunque, foriera di conseguenze pregiudizievoli per l’interesse generale della collettività a ricevere informazioni. 

4. Nei casi Belpietro e Ricci la Corte europea, pur avallando nel merito le sentenze di condanna pronunciate dai giudici nazionali per la commissione di reati attraverso la pubblicazione di informazione mediante i mezzi di comunicazione di massa, ha condannato l’Italia per la violazione dell’art. 10 della Convenzione europea, giudicando sproporzionata la previsione della pena del carcere come sanzione per lo svolgimento di attività giornalistica illegittimamente intrusiva della sfera dei diritti e delle libertà altrui. Lo stesso principio è stato affermato di recente nella sentenza resa nel caso Welsh et Silva Canha v. Portugal, pronunciata il 17 settembre scorso, nella quale la Corte europea ha condannato il Portogallo per la previsione di sanzioni penali in un caso di diffamazione a mezzo stampa.

In tutti questi casi la Corte europea ha considerato che la previsione della pena della reclusione in carcere fosse incompatibile con l’art. 10 della Convenzione europea a causa dell’effetto potenzialmente dissuasivo sull’esercizio dell’attività giornalistica che essa potrebbe determinare a detrimento dei principi e degli interessi fondanti la stessa società democratica. Secondo la Corte infatti: “En pareil cas, la presse porrai ne plus être à même de jouer son rôle indispensable de “chien de garde” et son aptitude à fournir des informations prècises et fiables porrai s’en trouver amoindrie” (sent. Ricci, par. 51) .

Questo recente orientamento conferma la concezione fortemente “funzionalistica” che la Corte europea ha da sempre ricollegato all’art. 10 della Convenzione europea. Nel sistema convenzionale, infatti, alla libertà di espressione non è riconosciuta esclusivamente un’essenza “individualistica”, ossia connessa alla libertà di manifestazione del pensiero come estrinsecazione primaria della personalità dell’individuo, ma anche e sopratutto una dimensione connessa alla salvaguardia di valori primari per la collettività in quanto strumentali alla realizzazione di altri diritti fondamentali (quali, ad esempio, la libertà di riunione e di associazione, il diritto di voto e la stessa libertà di essere informati) e alla salvaguardia dei predicati essenziali della democrazia pluralistica. L’illegittimità delle sanzioni recanti un effetto dissuasivo previste per la commissione di reati attraverso mezzi di comunicazione di massa è dunque da ricollegare all’esigenza di promuovere una massima valorizzazione della funzione democratica della libertà di espressione e di minimizzare l’esercizio del potere di “censura” da parte dell’autorità pubblica.

Le recenti pronunce della Corte europea costringono ad un ripensamento del sistema sanzionatorio dei reati a mezzo stampa previsto dall’ordinamento italiano al fine di assicurare un maggiore allineamento al parametro convenzionale dell’art. 10 della Convenzione europea, come interpretato dal giudice convenzionale, e di evitare future condanne.

Si deve peraltro considerare che la circostanza che la pena possa subire in concreto sospensioni non esclude la responsabilità statale che è invece da ricollegare alla stessa previsione legislativa.

Inoltre, l’illegittimità della pena alla reclusione sembrerebbe avere carattere tendenzialmente assoluto. Pare infatti difficile che alla previsione della sanzione della reclusione in carcere per la commissione di reati a mezzo stampa possa essere riferita un’efficacia meramente retributiva se non nei casi in cui siano commessi reati di estrema gravità, quali quelli tesi a incitare all’odio razziale e alla violenza.

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