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Riflessioni a margine di una prima indagine sulle leggi e sugli organi ed organismi regionali in tema di pari opportunità (2/2014)

La rassegna delle leggi che istituiscono e disciplinano gli organi regionali a tutela delle pari opportunità è diretta a fornire un quadro generale delle principali normative sul tema, allo scopo di fornire elementi di comparazione tra le soluzioni di volta in volta prescelte.

In una prospettiva di maggiore completezza si è ritenuto di inserire il riferimento ad organi ed organismi, investiti di funzioni di promozione, supporto e sviluppo delle pari opportunità, operanti a livello regionale in ottemperanza a prescrizioni della normativa statale.

Questo il contesto di riferimento delle riflessioni qui svolte.

L’aspetto dal quale si ritiene di muovere nelle considerazioni che seguiranno riguarda le potenziali capacità espansive della definizione “pari opportunità”, ossia di una formula espressiva capace di adattarsi e di comprendere in sé non soltanto le politiche di genere ma anche tutte quelle riconducibili al principio generale di non discriminazione.

Le pari opportunità costituiscono, infatti, una declinazione del principio di eguaglianza e, nei fatti, di eguaglianza sostanziale, poiché rappresentano sia il principio ispiratore che l’obiettivo delle scelte politiche dirette alla predisposizione di istituti e di strumenti capaci di rimuovere ostacoli al pieno sviluppo della persona, e non solo della donna, nei diversi ambiti.

Le pari opportunità sembrano oggi poter assolvere ad una funzione molto più ampia, se si guarda al bacino dei destinatari cui, in alcuni casi, la normativa sul tema si rivolge. 

Nello spirito delle pari opportunità di matrice costituzionale e di declinazione regionale risiede il nucleo di politiche complessivamente non discriminatorie e, come tali, comprensive dell’inclusione sociale delle categorie svantaggiate e delle stesse minoranze. 

Il che potrebbe, forse, non ritenersi del tutto appropriato ove si guardi alle diverse categorie di soggetti interessati dalle politiche di non discriminazione e, quindi, alle donne, ai portatori di handicap, alle persone malate, agli stranieri (regolari o meno), ai soggetti di fede religiosa diversa da quella prevalente in un determinato contesto territoriale, alle persone omosessuali, ai soggetti in condizione di svantaggio economico[1].

Ponendo, però, l’accento sul fenomeno discriminatorio che in diversa misura e modalità questi soggetti subiscono, si spiega l’esigenza dell’ordinamento di garantire loro di pari opportunità.

È, tuttavia, indubbio che le pari opportunità traggano origine e nomen iuris dall’insieme di scelte politiche e relative misure dirette ad eliminare ogni discriminazione basata sul sesso, che abbia come conseguenza o come scopo di compromettere o di impedire il riconoscimento, il godimento o l'esercizio dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale e civile o in ogni altro campo, tra donne e uomini, seguendo la prospettiva delineata a suo tempo dall’art. 1 della l. 132/1985 e poi ripresa dal Codice delle pari opportunità nel testo consolidatosi a seguito delle modifiche intervenute nel 2010.

Sul piano delle fonti, un aspetto che può sembrare curioso è che la materia delle pari opportunità non trova una collocazione nell’ambito delle competenze normative specificamente ed espressamente indicate dall’art. 117 della Costituzione. 

Resta il fatto che, ai sensi dell’art. 117, c. 7, le regioni rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive.

La disposizione costituzionale sopra richiamata mette certamente in luce come le pari opportunità rappresentino un obiettivo trasversale rispetto alle competenze normative ripartite tra stato e regioni.

La formulazione di esso evoca e, per molti aspetti, completa quanto inserito nel corpo originario dell’art. 51 Cost. dalla legge cost. n. 1/2001, ove si legge che la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini, con specifico riguardo all’accesso ai pubblici uffici ed alle cariche elettive.

Se non per la maggiore ampiezza e potenziale ricaduta di quanto previsto dal c. 7 dell’art. 117, quello che sembra desumersi dal dettato costituzionale è che si tratti, in entrambi i casi, di norme eminentemente programmatiche, come pare evidente dal tenore letterale. L'art. 51 opera un riferimento ad “appositi provvedimenti” per l'applicazione del principio di pari opportunità, mentre l’art. 117 si riferisce espressamente alle “leggi regionali” tenute alla considerazione delle pari opportunità nella elaborazione delle politiche di competenza. Dal rispettivo disposto delle disposizioni pare discendere che in mancanza di appositi provvedimenti legislativi di carattere attuativo, il principio non può trovare alcuna concreta ed immediata applicazione, fermo restando che un carattere immediatamente precettivo può essere individuato solo nella sua accezione negativa, ovvero nel cd. divieto di discriminazione tra i sessi[2].

Nel quadro descritto, nel 2006 è entrato in vigore il Codice delle pari opportunità -d.lgs. 198/2006- che, soprattutto nella versione originaria, sembra scontare l’obsolescenza dei testi unici che raccolgono la normativa antecedente alla riforma del Titolo V rispetto al nuovo riparto di competenze tra stato e regioni e questo, a prescindere dagli isolati riferimenti “alle competenze dello Stato”. 

Ci si riferisce, in particolare, alla figura dei Consiglieri di parità (disciplinata, oggi, dagli artt. 12 ss. del Codice), inseriti nel Titolo II del Codice, recante disposizioni in tema di organizzazione per la promozione delle pari opportunità, nominati anche a livello regionale oltre che nazionale e provinciale, ossia di soggetti che devono possedere requisiti di specifica competenza ed esperienza pluriennale in materia di lavoro femminile, di normative sulla parità e pari opportunità nonché di mercato del lavoro, comprovati da idonea documentazione.

In questo caso, infatti, con un richiamo espresso al quadro delle competenze delineatosi a seguito della riforma del Titolo V, si legge che i Consiglieri di parità intraprendono ogni utile iniziativa, nell'ambito delle competenze dello Stato, ai fini del rispetto del principio di non discriminazione e della promozione di pari opportunità per lavoratori e lavoratrici. 

Al di là della formulazione, quello che non pare affatto chiaro è quali siano poi, in sede applicativa, i confini effettivi delle materie di competenza dello stato cui viene fatto riferimento, tenuto conto che il principio delle pari opportunità tra uomo e donna, in forza dell’art. 1 del Codice, è destinato a trovare un’applicazione indifferenziata in tutti i campi, politico, economico, sociale, culturale e civile o in ogni altro ambito.

Alla luce dell’ampiezza della formulazione dell’art. 1 del Codice è abbastanza evidente che l’incidenza delle funzioni dei consiglieri di parità regionale sia difficilmente circoscrivibile, ove si guardi in termini rigorosi alle competenze statali ricavabili dall’art. 117 Cost. e salvo che non si voglia drasticamente limitare il loro intervento alla sola materia del lavoro, tenuto conto che vi è una prevalenza di riferimenti a tale specifico ambito[3].

Le riflessioni che appaiono avvalorate dalla circostanza che il consigliere di parità regionale fa parte in molti casi delle commissioni pari opportunità (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Friuli Venezia Giulia, Molise, Provincia autonoma di Bolzano, Puglia, Sicilia, Toscana) o partecipa di diritto alle riunioni della commissione (Sardegna) o è membro di diritto delle consulte (Lazio, Val d’Aosta) o centri pari opportunità (Umbria) o, su invito, partecipa alle riunioni del consiglio pari opportunità (Lombardia).

Da altro punto di vista ci si chiede se il limite delle competenze dello stato, sia ragionevole avuto riguardo ai compiti che il Consigliere di parità è chiamato a svolgere ed al loro portato di promozione e supporto delle politiche ed attività in tema di pari opportunità. Circostanza, questa, che potrebbe legittimare un intervento del consigliere di parità ad ampio raggio, quale tollerabile ingerenza da parte dello stato nei confronti delle regioni in nome ed in applicazione del principio di leale collaborazione.

Si tratta di una considerazione che sembrerebbe confortata anche dal fatto che il Consigliere di parità, designato dalla regione e nominato di concerto dal ministro del lavoro e dal ministro delle pari opportunità, svolge le proprie funzioni in un ufficio ubicato presso la rispettiva regione.

Accanto al Consigliere di parità, la normativa statale introduce, ad opera del cosiddetto collegato al lavoro (l. 183/2010), il Comitato unico di garanzia per le pari opportunità, la valorizzazione del benessere di chi lavora e contro le discriminazioni ha composizione paritetica ed è formato da un componente designato da ciascuna delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello di amministrazione e da un pari numero di rappresentanti dell’amministrazione in modo da assicurare nel complesso la presenza paritaria di entrambi i generi. Il presidente del Comitato unico di garanzia è designato dall’amministrazione.

Si tratta di un organismo che ciascuna amministrazione (ivi compresa quella regionale) è tenuta ad istituire al proprio interno. Il C.U.G. assorbe in sé i comitati pari opportunità ed i comitati paritetici sul fenomeno del mobbing[4] e ad esso sono attribuiti compiti consultivi e di verifica. In questo caso, le funzioni del Comitato sono tutte interne all’organizzazione amministrativa regionale e si è osservato come l’obiettivo del legislatore, in tale ipotesi, sia sì quello di razionalizzazione dell’apparato organizzativo pubblico, ma con un contestuale svuotamento delle prerogative della contrattazione collettiva che, nei fatti, viene privata delle negoziazioni sui “luoghi” della consultazione in materia di parità[5].

Sul piano delle fonti, in questo caso l’intervento del legislatore statale nell’ambito dell’organizzazione regionale si spiega nel coacervo di competenze, esclusive e concorrenti, relative all’ordinamento civile[6], ai livelli minimi e ai principi fondamentali in materia di tutela del lavoro. 

Nel quadro descritto, nella prospettiva di una maggiore omogeneità e coerenza, la rassegna si è limitata all’individuazione delle leggi regionali istitutive della commissione -o dei centri, consigli o consulte che dir si voglia- in materia di pari opportunità.

La normativa regionale oggetto di segnalazione può essere suddivisa in due grandi gruppi, caratterizzati, l’uno ed il più numeroso, dal mantenimento della normativa originaria, modificata ed aggiornata nel tempo (Basilicata, Calabria, Campania, Friuli Venia Giulia, Lazio, Marche, Molise, Piemonte, Puglia, Sardegna, Veneto), l’altro (Abruzzo, Emilia Romagna, Lombardia,, Province autonome di Trento e di Bolzano, Sicilia, Toscana, Val d’Aosta) dall’adozione di una normativa risalente, al massimo, al 2009 con cui viene introdotta una disciplina oggetto di una integrale riscrittura.

Caso a sé quello della regione Liguria, la cui legge regionale in tema di commissione pari opportunità è stata abrogata ad opera di una legge regionale del 2008, recante norme per la promozione del lavoro, nell’ambito della quale vi è un capo – il V- dedicato alle pari opportunità, nel quale tuttavia non vi è alcun cenno al mantenimento della commissione pari opportunità disciplinata dalla legge regionale del 1988.

Tuttavia, esiste, la VIII commissione consiliare permanente in materia di pari opportunità, con competenze in tema di affermazione e tutela dell’uguaglianza dei diritti dei cittadini e dei diritti di parità e pari opportunità tra uomo e donna, realizzazione della parità giuridica, sociale, economica e di rappresentanza[7].

In Liguria l’altro organo chiamato a svolgere funzioni in tema di pari opportunità è la commissione di concertazione indicata e disciplinata dalla l.r. 27/1998. Alla commissione spettano le funzioni di carattere consultivo[8] in tema di impatto di genere degli atti legislativi ed amministrativi regionali, nell’ambito di progetti diretti ad incrementare l’ingresso delle donne nel mercato del lavoro, con riferimento alle indagini periodiche in tema di condizione femminile, su iniziative di promozione e di diffusione di informazioni relative alle garanzie legislative in materia. La commissione di concertazione, inoltre, nella direzione indicata all’inizio di queste riflessioni in tema di pari opportunità svolge funzioni consultive, come si legge all’art. 59 della l.r. 30/2008, anche con riferimento al diritto al lavoro dei disabili e delle categorie di persone svantaggiate, individuate all’art. 52 della legge regionale richiamata.

La tendenza ad uno sconfinamento delle politiche e delle azioni in materia di pari opportunità dall’ambito delle sole politiche di genere pare potersi apprezzare, in alcuni casi, nella normativa regionale più recente recante una specifica disciplina in tema di commissione pari opportunità, laddove la commissione pari opportunità è chiamata ad operare per la valorizzazione della differenza di genere ed [anche per] il superamento di ogni altra discriminazione diretta ed indiretta (età, razza, origine etnica, disabilità e lingua, credo religioso, orientamento sessuale), per la promozione e la realizzazione delle pari opportunità tra uomo e donna nell'educazione, nella formazione, nella cultura e nei comportamenti, nella partecipazione alla vita politica e sociale, nelle istituzioni, nella vita familiare e professionale, nell'accesso alle cariche elettive ed alle funzioni direttive (così, testualmente, art. 1, c. 2, della l.r. Abruzzo 26/2012).

Si tratta di una sensazione che sembra confermata, oltre che dal dato testuale ricavabile dalla disposizione sopra richiamata, dalla genericità e dalla potenziale latitudine di alcune competenze assegnate dalla legge regionale dell’Abruzzo, quali quella (art. 2, c. 2,lett. e)) di raccogliere e diffondere le informazioni riguardanti le condizioni di discriminazione, di cui all'articolo 1, comma 2, assicurando sulle stesse un dibattito costante e promuovendo un migliore utilizzo delle fonti di informazione esistenti e quella (art. 2, c. 2, lett. f)) di operare per la rimozione di ogni forma di discriminazione rilevata o denunciata, ma anche quella (art. 2, c. 2, lett. b)) di esprimere parere obbligatorio su provvedimenti amministrativi e legislativi e programmi regionali aventi rilevanza diretta per la parità di genere o che comunque la Commissione stessa richiede di esaminare, con la quale si avverte un’apertura ad un intervento nell’ambito residuale di ogni altra forma di discriminazione.

L’imprinting del nomen iuris in prima battuta legato alle politiche di genere non parrebbe però escludere, nella nuova dimensione regionale ed anche alla luce dei principi rinvenibili a livello statutario, una progressiva estensione di competenze in materia di attuazione regionale di politiche ed azioni di non discriminazione. Tuttavia, come si avrà modo di osservare, è ancora prematuro aspettarsi un sicuro sviluppo più ampio delle competenze delle commissioni  pari opportunità nella direzione auspicata.

Rispetto alle considerazioni che precedono è sicuramente peculiare, quanto meno nella formulazione, la scelta dell’Emilia Romagna che esprime una sensibilità rispetto alle più generali politiche di non discriminazione, ma pur sempre ed esclusivamente in una prospettiva di genere: La Commissione è organo consultivo della Regione in ordine a provvedimenti ed iniziative riguardanti il contrasto ad ogni forma di discriminazione di genere e la promozione di politiche di pari opportunità con particolare riguardo alle condizioni di fatto e di diritto delle donne, anche migranti, per la tutela e l'effettiva attuazione dei principi di uguaglianza e di piena parità tra donne e uomini (art. 1, c. 2). In senso analogo, sembra potersi concludere avuto riguardo al ben più scarno art. 1, c. 3, della legge regionale toscana del 2009, ma anche dell’art. 1, c. 1, della legge regionale della siciliana del 2012 e di quella, del 2009, della Val d’Aosta. La Regione […] opera per garantire il superamento di ogni forma di discriminazione diretta o indiretta ancora esistente nei confronti delle donne, anche secondo quanto indicato all’art. 1, c. 2, della legge regionale umbra segnalata.

Invece, per la rimozione di ogni discriminazione fondata sul sesso e così in un’ottica più tradizionale, si esprimono le normative di cui alla legge della provincia autonoma di Bolzano e quella di Trento.



[1] Rispetto all’elenco desumibile dall’art. 3 della Costituzione restano, forse, esclusi dalle attuali politiche statali e regionali di non discriminazione i soggetti con opinioni politiche dissenzienti rispetto alla maggioranza, ma questo sembra oggi facilmente spiegabile in ragione del sicuro radicamento raggiunto dalla libertà di opinione e manifestazione del pensiero e, sul piano politico, delle garanzie previste a tutela delle opposizioni.

[2]Al riguardo, si segnala la recente pronuncia di Cons. St., V, 23 giugno 2014, n. 3144, della quale alcuni passaggi hanno fornito lo spunto ed il supporto per le considerazioni del testo.

[3] In coerenza con la normativa nell’ambito della quale detta figura ha avuto la sua prima origine ed istituzione, ossia con il d.l. 726/1984, conv. con modif. in l. 863/1984.

[4] Così, Topo, Gli effetti modificativi del collegato al lavoro 2010 sulla disciplina del lavoro pubblico, in Il lavoro nella giurisprudenza, 2011, 97.

[5] Ancora, cfr. Topo, ibidem.

[6] In particolare, per il mobbing, cfr. C. cost. 359/2003. Sulla competenza esclusiva in materia di ordinamento civile si rinvia a Calzolaio, La materia “ordinamento civile”: una ulteriore competenza trasversale dello Stato?, in www.forumdiquaderni costituzionali.it, 2006.

[7] V. art. 20 del Regolamento interno del Consiglio regionale della Liguria.

[8] “La Regione, sentita la commissione di concertazione…”, si legge al c. 4 dell’art. 20 della l.r. 30/2008.

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