Sentenza n. 63/2016 – Giudizio di legittimità costituzionale in via principale
Deposito del 24/03/2016 – Pubblicazione in G.U. 30/03/2016 n. 13
Motivi della segnalazione
Con la sentenza n. 63/2016 la Corte costituzionale ha parzialmente accolto il ricorso con cui il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato gli artt. 70, commi 2, 2-bis, 2-ter e 2-quater, e 72, commi 4, 5 e 7, lettere e) e g), della legge della Regione Lombardia 11 marzo 2005, n. 2, disposizioni modificate, da ultimo, dalla legge regionale 3 febbraio 2015, n. 2.
Le disposizioni impugnate contengono norme per la realizzazione di edifici di culto e di attrezzature destinate a servizi religiosi. Prima della novella legislativa del 2015, la legislazione regionale lombarda affermava l’applicabilità di tali norme agli enti delle confessioni religiose diverse dalla cattolica, “come tali qualificate in base a criteri desumibili dall’ordinamento ed aventi una presenza diffusa, organizzata e stabile” nel Comune in cui si preveda di effettuare gli interventi, i cui statuti esprimano “il carattere religioso delle loro finalità istituzionali” e previa stipulazione di una convenzione fra il Comune e la confessione interessata. Il legislatore regionale del 2015 ha aggiunto un altro requisito, alternativo a quelli ora menzionati: il fatto che la confessione interessata abbia stipulato con lo Stato un’intesa, successivamente approvata con legge, ai sensi dell’art. 8, terzo comma, Cost.
Accogliendo alcune delle censure formulate dalla parte ricorrente, la Corte costituzionale ha preso le mosse dalla premessa, sorretta da alcuni suoi precedenti, che il legislatore non può operare discriminazioni fra confessioni religiose “in base alla sola circostanza che esse abbiano o non abbiano regolato i loro rapporti con lo Stato tramite accordi o intese” (sentenze nn. 195/1993, 346/2002 e 52/2016); né la condizione minoritaria di alcune confessioni può essere addotta come giustificazione di un minor livello di protezione.
La libertà di aprire luoghi di culto è posta sotto la protezione dell’art. 19 Cost. – che individua come unico limite quello dei riti contrari al buon costume – e il suo esercizio non può dunque essere condizionato a una previa regolazione pattizia ai sensi degli artt. 7 e 8, terzo comma Cost. Tale regolazione, invece, “può ritenersi necessaria solo se e in quanto a determinati atti di culto vogliano riconnettersi particolari effetti civili” (sentenza n. 59/1958). Nell’assunzione di decisioni circa l’allocazione di contributi o di spazi a una determinata confessione religiosa, se mai, si potrà tener conto, oltre che degli interessi pubblici in gioco, dell’entità della sua presenza sul territorio, della sua consistenza e incidenza sociale e delle esigenze di culto riscontrate nella popolazione.
Sulla base di questa ricostruzione, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dei commi 2 e 2-bis, lettere a) e b), dell’art. 70 della legge regionale impugnata, ritenendoli incompatibili con gli artt. 3, 8, 19 e 117, secondo comma, lettera c), Cost. Se è vero che la normativa in questione, in quanto disciplina la pianificazione urbanistica dei luoghi di culto, è riconducibile al “governo del territorio” – materia di competenza concorrente – nondimeno il legislatore regionale, anche nell’esercizio delle sue competenze, “non può mai perseguire finalità che esorbitano dai compiti della Regione”, ad esempio dettando discipline “che ostacolino o compromettano la libertà di religione … prevedendo condizioni differenziate per l’accesso al riparto dei luoghi di culto”. Nel caso di specie, appare in contrasto con la Costituzione la scelta d’imporre requisiti differenziati e più stringenti – in vista dell’edificazione di luoghi di culto – per le sole confessioni con cui non sia stata stipulata e poi approvata con legge un’intesa.
La Corte ha invece respinto le censure relative al nuovo comma 2-ter dell’art. 70, introdotto anch’esso dalla legge regionale n. 2/2015: quest’ultimo stabilisce che le convezioni urbanistiche stipulate fra i Comuni e le confessioni religiose diverse dalla cattolica debbano espressamente prevedere la possibilità della risoluzione o della revoca in caso di accertamento, da parte del Comune stesso, di attività non previste nella convenzione. Con una decisione interpretativa di rigetto, la Corte sottolinea che nella concreta applicazione delle previsioni della convenzione il Comune interessato dovrà in ogni caso considerare se fra gli strumenti utilizzabili in simili evenienze, non ve ne siano altri, ugualmente idonei alla salvaguardia degli interessi pubblici rilevanti ma meno pregiudizievoli di una risoluzione o di una revoca in vista della tutela della libertà di culto. Risultano rigettate anche le censure attinenti all’art. 72, comma 7, lett. g), della legge regionale contestata.
Sono invece accolte le censure relative all’art. 72, commi 4 e 7, lett. e), che perseguono “evidenti” finalità di ordine pubblico e sicurezza, esorbitando perciò dai limiti delle competenze regionali.
Risultano inammissibili, infine, le censure rivolte ai commi 2-bis, 2-ter e 2-quater dell’art. 70 in riferimento agli artt. 117, commi primo e secondo, lett. a), Cost., in relazione agli artt. 10, 17 e 19 TFUE, agli artt. 10, 21 e 22 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE e dell’art. 18 del Patto internazionale sui diritti civili e politici. Parimenti inammissibili sono anche le censure attinenti ai commi 4, secondo periodo, e 5 dell’art. 72.