Causa C-133/15 Chavez Vilchez – La dipendenza materiale ed emotiva del cittadino dell’Unione “statico” rispetto al familiare cittadino non-UE quale criterio per stabilire l’esistenza di un pregiudizio al “godimento effettivo del contenuto essenziale dei diritti connessi al suo status di cittadino dell’Unione”
Nella sentenza del 10 maggio 2017, la Grande sezione della Corte di Giustizia è tornata sulla giurisprudenza Zambrano (causa C-34/09, 8 marzo 2011, EU:C:2011:124), chiarendo quali parametri devono essere valutati per determinare se il cittadino dell’Unione, che risiede nello Stato membro della propria cittadinanza, può essere considerato in una situazione di effettiva dipendenza dal familiare, cittadino di Paese terzo, tale per cui il rifiuto del diritto di soggiorno sul territorio dello Stato membro a quest’ultimo obbligherebbe il primo a lasciare il territorio dell’Unione, privandolo così del “godimento effettivo del contenuto essenziale dei diritti connessi al suo status di cittadino dell’Unione”.
In linea di principio, le situazioni in cui un cittadino UE risiede nello Stato di cittadinanza insieme al familiare cittadino non-UE e non ha mai esercitato il suo diritto di soggiorno in un altro Stato membro non rientrano nell’ambito applicativo del diritto dell’Unione, proprio in quanto confinate all’interno di un unico Stato membro. Tuttavia, nella nota sentenza Zambrano, la Corte, facendo leva sulla cittadinanza dell’Unione europea quale “status fondamentale dei cittadini degli Stati membri” (ibid. par. 41), ha individuato un limite alla rilevanza puramente interna di tali situazioni, ritenendo che “l’art. 20 TFUE osta a provvedimenti nazionali che abbiano l’effetto di privare i cittadini dell’Unione del godimento reale ed effettivo dei diritti attribuiti dal loro status di cittadini dell’Unione” (ibid. par. 42). In particolare, nel caso di specie ha stabilito che l’art. 20 TFUE “osta a che uno Stato membro, da un lato, neghi al cittadino di uno Stato terzo, che si faccia carico dei propri figli in tenera età, cittadini dell’Unione, il soggiorno nello Stato membro di residenza di questi ultimi, di cui essi abbiano la cittadinanza, e, dall’altro, neghi al medesimo cittadino di uno Stato terzo un permesso di lavoro, qualora decisioni siffatte possano privare detti figli del godimento reale ed effettivo dei diritti connessi allo status di cittadino dell’Unione” (ibid. par. 45).
Nella giurisprudenza successiva, la Corte è più volte tornata sul punto, cercando di chiarire la sostanza del limite del pregiudizio al “godimento reale ed effettivo dei diritti”. Esso si applica solo a situazioni molto particolari, definite anzi “eccezionali”, riconducibili al caso in cui il cittadino dell’Unione, a causa della relazione di dipendenza con il cittadino di Paese terzo al quale è stato negato il diritto di soggiorno nello Stato membro, sarebbe altrimenti costretto ad abbandonare il territorio dell’Unione per seguirlo (si veda, tra le altre, sent. 5 maggio 2011, McCarthy, causa C-434/09, EU:C:2011:277, par. 49; sent. 15 novembre 2011., Dereci e a., causa C-256/11, EU:C:2011:734, par. 67; sent. 8 maggio 2013, Ymeraga, causa C-87/12, EU:C:2013:291, par. 36; sent. 13 settembre 2016, CS, causa C-304/14, EU:C:2016:674, par. 29; sent. 13 settembre 2016, Rendón Marin, causa C-165/14, EU:C:2016:675, par. 74). La Corte ha quindi individuato alcuni elementi che devono essere valutati al fine di determinare la sussistenza della relazione di dipendenza, relativi in particolare alla situazione familiare ed economica del cittadino dell’Unione, alla sua età nonché al suo stato di salute, escludendo così la mera dipendenza affettiva o emotiva da detta valutazione.
Tuttavia, è solo con la sentenza Chavez-Vilchez che la Corte, deliberando nella composizione della Grande sezione, facendo riferimento alla giurisprudenza precedente, ha fatto chiarezza su quali debbano essere i criteri da seguire per determinare se il cittadino dell’Unione può essere considerato in uno stato di effettiva dipendenza con il suo familiare, cittadino di Paese terzo, estendendo tale valutazione anche a elementi attinenti alla sfera emotiva ed affettiva del cittadino dello Stato membro..
Nel caso di specie, otto cittadine di Paesi terzi, prive di un titolo di soggiorno nei Paesi Bassi e madri di figli minorenni di nazionalità olandese, dei quali esse avevano la responsabilità quotidiana ed effettiva, presentavano domanda di aiuti sociali e di assegni familiari. Le domande venivano respinte dalle autorità competenti a motivo che, in assenza di un titolo di soggiorno, esse non avevano alcun diritto a percepire tali aiuti e assegni sulla base della normativa nazionale. Avverso le decisioni di diniego delle prestazioni richieste, le ricorrenti proponevano appello dinanzi al Centrale Raad van Beroep (la Corte d’appello per le questioni in materia di sicurezza sociale e di funzione pubblica), il quale sollevava una questione interpretativa in via pregiudiziale avanti alla Corte di Giustizia al fine di determinare se, in base alla giurisprudenza Zambrano e Dereci e a., le ricorrenti potessero vantare, in quanto madri di bambini cittadini dell’Unione, un diritto di soggiorno ai sensi dell’art. 20 TFUE.
In via preliminare, la Corte di Giustizia ha ritenuto di dover procedere a un esame delle situazioni relative alle diverse ricorrenti, evidenziandone le affinità e le differenze. Secondo la Corte, infatti, ognuna delle situazioni in discussione riguarda una ricorrente priva di un titolo di soggiorno nei Paesi Bassi, madre di un minorenne, cittadino olandese, convivente con essa e di cui la stessa si occupa quotidianamente ed effettivamente, in quanto separata dal padre, anch’esso cittadino neerlandese. Le differenze, invece, sono suddivise dalla Corte in tre categorie: i rapporti tra genitori e figli (diversa frequenza dei contatti dei bambini con i rispettivi padri); la situazione delle madri sotto il profilo del loro diritto di soggiornare nel territorio dell’Unione (due di loro avevano nel frattempo regolarizzato la loro posizione); e, infine, la situazione dei figli minorenni stessi (uno dei minori aveva usufruito del suo diritto di soggiorno in un altro Stato membro, avendo vissuto in Germania con i genitori prima di fare ritorno nei Paesi Bassi insieme alla madre).
Partendo proprio da quest’ultima distinzione, la Corte ha svolto un ragionamento articolato in due parti, relative l’una all’esame della situazione del minore che ha esercitato il suo diritto di libera circolazione, alla luce dell’art. 21 TFUE, come specificato nella direttiva 2004/38, e l’altra all’esame, dal punto di vista dell’art. 20 TFUE, della situazione dei figli delle altre ricorrenti, i quali hanno sempre soggiornato con le loro madri nello Stato membro del quale essi hanno la cittadinanza.
In relazione all’ipotesi in cui il minore abbia soggiornato in un altro Stato membro con i propri genitori, prima di fare ritorno nello Stato membro del quale possiede la cittadinanza insieme alla madre cittadina di Paese terzo, la Corte ha statuito che la direttiva 2004/381 vale a conferire diritti di ingresso e di soggiorno in uno Stato membro soltanto ai familiari di un cittadino dell’Unione “che abbia esercitato il proprio diritto alla libera circolazione stabilendosi in uno Stato membro diverso da quello di cui ha la cittadinanza” (par. 52), senza tuttavia “far sorgere un diritto di soggiorno derivato a favore dei cittadini di un paese terzo, familiari2 di un cittadino dell’Unione, nello Stato membro di cui tale cittadino possiede la cittadinanza” (par. 53).
Allo stesso temo, la Corte ha affermato che “al ritorno di un cittadino dell’Unione nello Stato membro di cui il medesimo ha la cittadinanza, le condizioni di concessione di un diritto di soggiorno derivato sulla base dell’art. 21 par. 1 TFUE, ad un cittadino di un paese terzo, familiare del cittadino dell’Unione in parola, con il quale quest’ultimo ha soggiornato, unicamente in qualità di cittadino dell’Unione, nello Stato membro ospitante, non dovrebbero, in via di principio, essere più rigorose di quelle previste dalla direttiva 2004/38 per la concessione di un siffatto diritto di soggiorno a un cittadino di paese terzo, familiare di un cittadino dell’Unione, il quale abbia esercitato il proprio diritto di libera circolazione stabilendosi in uno Stato membro diverso da quello di cui ha la cittadinanza” (par. 54, corsivo aggiunto). Infatti, la Corte ha ritenuto che, pur non disciplinando l’ipotesi del “ritorno”, la direttiva 2004/38 deve essere applicata per analogia per quanto riguarda le condizioni di soggiorno del cittadino dell’Unione in uno Stato membro diverso da quello di cui il medesimo ha la cittadinanza, “dato che, in entrambi i casi, è il cittadino dell’Unione che costituisce la persona di riferimento affinché a un cittadino di un paese terzo, familiare del suddetto cittadino dell’Unione, possa essere accordato un diritto di soggiorno derivato” (par. 55). Secondo la Corte, spetta al giudice del rinvio valutare se le condizioni enunciate dalla direttiva sono soddisfatte in modo che la madre, cittadina di Paese terzo, possa far valere un diritto di soggiorno derivato “fondato sull’articolo 21 TFUE e sulla direttiva 2004/38” (par. 56). Diversamente, ove la direttiva non sia applicabile al caso di specie, la situazione del figlio, cittadino dell’Unione, e del suo ascendente, cittadino di Paese terzo, dovrà essere esaminata alla luce dell’art. 20 TFUE.
Riguardo alla diversa ipotesi in cui il cittadino dell’Unione non abbia esercitato il suo diritto alla libera circolazione, la Corte è stata chiamata a valutare se l’art. 20 TFUE dovesse essere interpretato nel senso che osta a che uno Stato membro rifiuti il diritto di soggiorno sul suo territorio ad un genitore, cittadino di Paese terzo, che si occupi quotidianamente ed effettivamente di un figlio minorenne avente la cittadinanza di questo Stato membro, qualora non sia escluso che l’altro genitore, avente la cittadinanza del medesimo Stato membro, possa occuparsi quotidianamente ed effettivamente del figlio.
La Corte, ritornando sul principio affermato nella sentenza Zambrano, ha ricordato la natura dei diritti accordati ai cittadini di Paesi terzi, affermando che “le disposizioni del Trattato relative alla cittadinanza dell’Unione non conferiscono alcun diritto autonomo ai cittadini di un paese terzo”. Infatti, i diritti eventualmente conferiti a questi ultimi “non sono diritti propri, bensì derivati da quelli di cui gode il cittadino dell’Unione”, in quanto “la finalità e la ratio di tali diritti derivati si basano sulla constatazione che il rifiuto del loro riconoscimento è idoneo a pregiudicare, in particolare, la libertà di circolazione del cittadino dell’Unione” (par. 62).
L’eccezione a tale principio è rappresentata da “situazioni molto particolari in cui, malgrado il fatto che il diritto derivato relativo al diritto di soggiorno dei cittadini di paesi terzi non sia applicabile e che il cittadino dell’Unione interessato non si sia avvalso della propria libertà di circolazione”, un diritto di soggiorno deve comunque essere accordato al cittadino di un Paese terzo, familiare del cittadino dell’Unione, qualora “come conseguenza del rifiuto di riconoscimento di un siffatto diritto, il cittadino dell’Unione si vedesse di fatto obbligato a lasciare il territorio dell’Unione globalmente inteso, venendo così privato del godimento effettivo del contenuto essenziale dei diritti conferiti da tale status” (par. 63 e giurisprudenza ivi citata). Tali “situazioni particolari”, secondo la Corte, sono caratterizzate dal fatto che, pur essendo disciplinate da normative che in astratto rientrano nella competenza degli Stati membri, “hanno però una relazione intrinseca con la libertà di circolazione e di soggiorno di un cittadino dell’Unione, la quale osta a che tale diritto di ingesso e di soggiorno venga rifiutato ai suddetti cittadini di paesi terzi nello Stato membro in cui risiede il cittadino dell’Unione in questione, per evitare che detta libertà sia pregiudicata” (par. 64).
Nel caso di specie, pertanto, spetta al giudice del rinvio verificare se il rifiuto di soggiorno opposto alle madri, cittadine di Paesi terzi, potrebbe comportare l’obbligo per i figli, cittadini di uno Stato membro, di lasciare il territorio dell’Unione, globalmente considerato, per seguirle. A tale proposito, la Corte ha approfittato di un argomento sollevato dal Governo olandese per chiarire quando il cittadino di uno Stato membro deve essere considerato in una relazione di dipendenza con il familiare, cittadino di un Paese terzo. Detto Governo aveva, infatti, escluso la possibilità di presumere che il cittadino dello Stato membro in questione sarebbe costretto a lasciare il territorio dell’Unione in caso di allontanamento del genitore cittadino di paese terzo che si occupa quotidianamente ed effettivamente del primo, nel caso in cui sia presente sul territorio dell’Unione l’altro genitore, lui stesso cittadino di uno Stato membro e potenzialmente idoneo ad occuparsi del figlio (par. 66 e 67).
La Corte ha considerato quali elementi pertinenti a tale valutazione non solo la questione dell’affidamento del figlio e la circostanza che “l’onere giuridico, finanziario o affettivo correlato a tale figlio sia sopportato dal genitore cittadino di un paese terzo” (par. 68), ma anche “quale sia il genitore che ha la custodia effettiva del minore e se esista una relazione di dipendenza effettiva tra quest’ultimo e il genitore cittadino di un paese terzo”. Nel compiere tale esame, le autorità competenti “devono tener conto del diritto al rispetto della vita familiare, quale enunciato dall’articolo 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, tenendo presente che tale articolo deve essere letto in combinato disposto con l’obbligo di prendere in considerazione l’interesse superiore del minore, riconosciuto all’articolo 24, paragrafo 2, della Carta suddetta” (par. 70). Inoltre, la Corte ha ritenuto che “il fatto che l’altro genitore, cittadino dell’Unione, sia realmente capace di e disposto ad assumersi da solo l’onere quotidiano ed effettivo del figlio minorenne costituisce un elemento pertinente, ma che non è di per sé solo sufficiente per poter constatare che non esiste, tra il genitore cittadino di un paese terzo e il minore, una relazione di dipendenza tale per cui quest’ultimo sarebbe costretto a lasciare il territorio dell’Unione qualora al suddetto cittadino di un paese terzo venisse rifiutato un diritto di soggiorno”. Secondo la Corte, una constatazione in tal senso deve essere fondata sulla presa in considerazione, segnatamente, “dell’età del minore, del suo sviluppo fisico ed emotivo, dell’intensità della sua relazione affettiva sia con il genitore cittadino dell’Unione sia con il genitore cittadino di paese terzo, nonché del rischio che la separazione da quest’ultimo comporterebbe per l’equilibrio di tale minore” (par. 71).
Infine, la Corte si è soffermata sull’onere della prova spettante al cittadino di un Paese terzo e, in particolare, sulla questione se l’art. 20 TFUE osti a che uno Stato membro imponga al cittadino di Paese terzo un obbligo di dimostrare che l’altro genitore, cittadino di Stato membro, non è in grado di occuparsi quotidianamente ed effettivamente del minore. Infatti, secondo il governo olandese, l’onere della prova dell’esistenza di un diritto di soggiorno ricavato dall’art. 20 TFUE spetterebbe alle ricorrenti, cittadine di Paesi terzi, le quali sarebbero tenute a dimostrare che, “a motivo di ostacoli oggettivi che impediscono al genitore cittadino dell’Unione di occuparsi concretamente del minore, quest’ultimo sarebbe a tal punto dipendente dal genitore cittadino di un paese terzo che un rifiuto di riconoscere a quest’ultimo un diritto di soggiorno avrebbe come effetto di obbligare il minore a lasciare, di fatto, il territorio dell’Unione” (par. 74).
Se da un lato, la Corte ha riconosciuto che l’onere della prova spetta, in principio, al familiare, cittadino di Paese terzo, il quale è tenuto a fornire tutti gli elementi comprovanti che “la decisione di rifiuto del diritto di soggiorno al genitore cittadino di un paese terzo priverebbe il minore del godimento effettivo del contenuto essenziale dei diritti connessi allo status di cittadino dell’Unione” (par. 75), dall’altro lato essa ha affermato che “le autorità nazionali competenti devono fare in modo che l’applicazione di una normativa nazionale in materia di onere della prova” non comprometta l’effetto utile dell’articolo 20 TFUE (par. 76). Questo significa che le autorità dello Stato membro devono procedere “alle ricerche necessarie per stabilire dove risieda il genitore cittadino di tale Stato membro per verificare, da un lato, se questi sia o no realmente capace di e disposto ad assumersi da solo l’onere quotidiano ed effettivo del minore e, dall’altro lato, se esista o no una relazione di dipendenza tra il minore e il genitore cittadino di un paese terzo” (par. 77).
1 Direttiva 2004/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativa al diritto dei cittadini dell'Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, in GU L 158 del 30.4.2004, pp. 77–123 (testo disponibile qui).
2 La nozione di “familiare” è quella della direttiva 2004/38/CE, cit.