Sentenza n. 51/2017 - giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale
Deposito del 10/03/2017 – Pubblicazione in G. U. 15/03/2017 n. 11
Motivo della segnalazione.
Con la sentenza in questione, il giudice delle leggi ha avuto modo di ribadire la sua posizione circa l’incostituzionalità della legislazione delegata per violazione dell’art. 76 Cost.
La decisione della Corte costituzionale trae origine da sette ordinanze di rimessione da parte della sesta sezione del Consiglio di Stato. In sei delle sette ordinanze, di contenuto pressoché identico, si dubitava della legittimità costituzionale dell’art. 43, comma 1, del d. lgs.3 marzo 2011, n. 28 (Attuazione della direttiva 2009/28/CE sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili, recante modifica e successiva abrogazione delle direttive 2001/77/CE e 2003/30/CE), in riferimento agli artt. 3, 25, 76 e 117, comma 1, Cost., in relazione (quest’ultimo) anche all’art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (da ora: CEDU).
La settima ordinanza (reg. ord. n. 241 del 2014), invece, sottoponeva al giudizio della Consulta l’art. 23, comma 3, dello stesso decreto legislativo, in riferimento ai medesimi parametri di cui sopra, fatta eccezione per quello di cui all’art. 25 Cost.
I sette giudizi sono stati riuniti per essere decisi con un’unica sentenza.
Il summenzionato d. lgs. 28/2011 va a inserirsi in un complesso ordito normativo, inerente al supporto alle fonti energetiche rinnovabili; in esso trovano spazio, in linea con quanto stabilito a livello europeo e a livello internazionale, misure incentivanti quali quelle definite dal d. lgs. 387/2003 (Attuazione della direttiva 2001/77/CE relativa alla promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell’elettricità). Per avere accesso agli incentivi, in relazione ad alcuni impianti, dotati di determinate caratteristiche ed entrati in funzione prima di una certa data, si prevedeva, fra le altre cose, la dichiarazione di un professionista. E le disposizioni censurate andavano a comminare delle sanzioni per chi avesse reso false dichiarazioni o utilizzato false certificazioni per aver accesso agli incentivi summenzionati.
Secondo le ordinanze di rimessione, sia l’art. 43, comma 1, che l’art. 23, comma 3, potevano essere considerati come in violazione dell’art. 76 Cost., per aver introdotto una sanzione interdittiva non rispondente ai principi della legge di delega (n. 96 del 2010) ed anzi in contrasto con gli stessi; dell’art. 3 Cost., per violazione dei principi di ragionevolezza e proporzionalità nell’esercizio della discrezionalità legislativa; e dell’art. 117, I comma, Cost., in relazione al “vincolo derivante dall’ordinamento comunitario”, in tema di proporzionalità nella irrogazione di sanzioni. Inoltre, per quanto riguarda l’art. 43, si ipotizzava anche un contrasto con l’art. 25 Cost., “per il carattere retroattivo della introdotta sanzione afflittiva; e di violazione, per tal stesso profilo, dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 7 della CEDU” (punto 4.1 del considerato in diritto).
La Corte ha preso le mosse dal possibile contrasto con l’art. 76 Cost., considerando tale questione come pregiudiziale rispetto alle altre. Il giudice delle leggi ha quindi fatto riferimento a quanto dettato dalla legge delega (l. 96 del 2010); in particolare, sono venuti in rilievo i criteri dettati sub art. 2 della legge delega. Ivi, puntualmente si dispone che nei decreti legislativi attuativi possono essere stabilite discipline contenenti trattamenti sanzionatori amministrativi e penali, ulteriori rispetto a quelli previsti dalla legislazione previgente, «per le infrazioni alle disposizioni dei decreti stessi». Più specificamente, la legge delega prevede che essi possano consistere «nel pagamento di una somma non inferiore a 150 euro e non superiore a 150.000 euro». Come sottolineato dalla Corte (punto 5.1 del considerato in diritto) nella legge delega si prevede che, nell’ambito dei limiti minimi e massimi previsti, le sanzioni […] sono determinate nella loro entità, «tenendo conto della diversa potenzialità lesiva dell’interesse protetto che ciascuna infrazione presenta in astratto, di specifiche qualità personali del colpevole, comprese quelle che impongono particolari doveri di prevenzione, controllo o vigilanza, nonché del vantaggio patrimoniale che l’infrazione può recare al colpevole ovvero alla persona o all’ente nel cui interesse egli agisce».
Orbene, le misure di carattere interdittivo introdotte dal legislatore delegato sono esorbitanti rispetto a quanto previsto dai criteri direttivi dettati dalla l. 96/2010, dal momento che secondo questi ultimi le sanzioni possibili sono unicamente di natura pecuniaria. Quanto disposto dalle norme censurate – ha rilevato la Corte – costituisce “misura eccentrica rispetto al perimetro dell’intervento disegnato dalla legge di delega che, in tema di infrazioni, ha previsto unicamente l’esercizio del potere di irrogare sanzioni penali o amministrative, limitando queste ultime solo a quelle di tipo pecuniario” (punto 5.2 del considerato in diritto).
Le altre censure sono state assorbite.