Sentenza n. 26/2017 – giudizio sull’ammissibilità del referendum abrogativo
Deposito del 27/01/2017 – Pubblicazione in G. U. 01/02/2017, n. 5
Motivo della segnalazione
Con questa sentenza la Corte costituzionale ha deciso intorno all’ammissibilità del referendum abrogativo finalizzato ad abrogare, nella sua interezza, il d.lgs. n. 23/2015, che, nel quadro del c.d. Jobs Act, ha fortemente ristretto l’area di applicazione della tutela reale (cioè con reintegra nel posto di lavoro) per i licenziamenti senza giusta causa o giustificato motivo e, con riguardo ad alcuni commi e frammenti di commi l’art. 18 della legge n. 300/1970 (Statuto dei lavoratori). Come è noto, l’attuale testo dell’art. 18 è il risultato delle modifiche introdotte dalla legge n. 92/2012, la quale ha modificato il regime di garanzia del lavoratore in caso di licenziamento individuale illegittimo, procedendo ad una prima restrizione, poi ampliata dal d.lgs. n. 23/2015, delle ipotesi di tutela reale, conseguita tramite la reintegrazione nel posto di lavoro e ad una contestuale espansione dei casi di tutela obbligatoria, affidata alla sola indennità risarcitoria.
In seguito a tali modifiche è restato fermo che la tutela reale si applica solo se il datore di lavoro occupa in ciascuna unità produttiva o in ciascun Comune più di quindici dipendenti, ovvero più di cinque se si tratta di imprenditore agricolo, e in ogni caso se occupa più di sessanta dipendenti nel complesso.
Obiettivo del quesito referendario era, da una parte, eliminare le novità normative introdotte nel 2012 e nel 2015 e, dall’altra, estendere l’applicazione della tutela reale oltre la dimensione occupazionale sopra ricordata. Più specificamente si mirava, mediante la tecnica del ritaglio ad estendere l’applicazione della tutela reale a qualunque datore di lavoro che occupa, complessivamente, più di cinque dipendenti, limite attualmente previsto per il solo caso dell’imprenditore agricolo e che, rileva la Corte, non ha mai operato, nel nostro ordinamento, al di là di questo specifico caso.
A fronte di ciò, la Corte dichiara l’inammissibilità del quesito per due ordini di ragioni.
Cominciando dalla prima, la Corte afferma avere il quesito carattere propositivo, ponendosi quindi fuori dai limiti prefigurati dall’art. 75 Cost., che configura il referendum come necessariamente abrogativo. La tecnica del ritaglio – rileva la Corte – non è peraltro di per sé causa di inammissibilità del quesito, risolvendosi in un’abrogazione parziale della legge, ammessa dall’art. 75 Cost., rendendosi anzi a volte necessaria «per consentire la riespansione di una compiuta disciplina già contenuta in nuce nel tessuto normativo, ma compressa per effetto dell’applicabilità delle disposizioni oggetto del referendum (sentenze n. 16 e n. 15 del 2008, n. 34 e n. 33 del 2000, n. 13 del 1999)». Rispetto a tale possibilità, il giudice delle leggi afferma essere altra cosa «la manipolazione della struttura linguistica della disposizione, ove a seguito di essa prenda vita un assetto normativo sostanzialmente nuovo», potendosi affermare che «tale assetto, trovando un mero pretesto nel modo con cui certe norme sono state formulate sul piano lessicale, sarebbe da imputare direttamente alla volontà propositiva di creare diritto, manifestata dal corpo elettorale». A tal proposito viene richiamato quanto affermato dalla stessa Corte nelle sentenze nn. 36/1997, 46/2003, 50 e 38/2000).
Proprio gli estremi di un caso di questo genere riscontra la Corte nel quesito sottoposto alla sua attenzione, dal momento che l’individuazione, nella prefigurata disciplina di risulta, del limite numerico generale di cinque dipendenti, al di sopra del quale risulterebbe applicabile la tutela reale contro i licenziamenti ingiustificati, indicherebbe un’opzione che il legislatore ha introdotto in relazione alla sola impresa agricola, sul presupposto delle sue specificità. Tale limite, si afferma, «non esprime pertanto una scelta legislativa potenzialmente idonea a regolare il limite minimo di applicazione della tutela reale relativo al datore di lavoro, qualora il legislatore non avesse optato per l’altro di quindici. Costituisce, infatti, un dato normativo previsto con tutt’altra finalità, che si giustifica nell’ordito legislativo esclusivamente in ragione delle peculiarità cui si è innanzi accennato».
In questo modo, il risultato dell’abrogazione referendaria sarebbe l’introduzione di un contenuto normativo nuovo, che non può derivare legittimamente da un referendum abrogativo, ma dovrebbe, eventualmente, essere il risultato di una scelta del legislatore, alla luce di una valutazione di interessi contrapposti, che il legislatore formula con riguardo alla disciplina generale dell’istituto, e che un referendum di natura esclusivamente abrogativa non può invece determinare di per sé, grazie alla fortuita compresenza nella disposizione di indicazioni numeriche sfruttabili mediante il ritaglio. Sarebbe invece risultato ammissibile, lascia intendere la Corte, un quesito che avesse richiesto la integrale abrogazione del limite occupazionale, «perché in questo caso si sarebbe mirato al superamento della scelta stessa del legislatore di subordinare la tutela reale ad un bilanciamento con valori altri, nell’ambito di un’operazione meramente demolitoria di una certa opzione legislativa (sentenza n. 41 del 2003)».
Il quesito è inoltre dichiarato inammissibile in ragione del difetto di univocità e di omogeneità, che concorre anch’esso a connotare il quesito di propositività.
La Corte, nello specifico, rileva che il quesito incide su due corpi normativi distinti: le norme introdotte dal d.lgs. n. 23/2015 e i frammenti normativi di cui all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Sebbene si abbia in entrambi casi riguardo alla disciplina dei licenziamenti individuali, i due quesiti «sono all’evidenza differenti, sia per i rapporti di lavoro ai quali si riferiscono (iniziati prima o dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 23 del 2015), sia per il regime sanzionatorio previsto». Si deve, quindi, constatare che nel quesito sono incorporate due richieste abrogative disomogenee e suscettibili di risposte diverse, dal momento che «l’elettore […] ben potrebbe volere l’abrogazione del d.lgs. n. 23 del 2015, rifiutando le innovazioni, rispetto all’art. 18 della legge n. 300 del 1970, contenute in tale decreto, senza però volere allo stesso tempo anche la radicale modificazione dell’art. 18, oggetto della richiesta abrogativa».
Il requisito della omogeneità risulterebbe poi minato anche sotto un altro profilo. Nel quesito sono infatti accorpati e sottoposti all’attenzione degli elettori, da una parte, modifiche incidenti sulle tipologie e sui meccanismi di tutela dei lavoratori contro i licenziamenti illegittimi e, dall’altra, modifiche incidenti sulla dimensione occupazionale dei datori di lavoro a cui le regole sulla tutela contro i licenziamenti devono applicarsi. Afferma, infatti, la Corte, all’esito del suo percorso argomentativo. «considerata la diversità dei quesiti, l’elettore in definitiva potrebbe desiderare che la reintegrazione torni a essere invocabile quale regola generale a fronte di un licenziamento illegittimo, ma resti confinata ai soli datori di lavoro che occupano più di quindici dipendenti in ciascuna unità produttiva o Comune, o ne impiegano complessivamente più di sessanta. Oppure potrebbe volere che quest’ultimo limite sia ridotto, ma che, anche per tale ragione, resti invece limitato l’impiego della tutela reale, da mantenere nei casi in cui è attualmente prevista».