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Causa C-42/17 - La risposta della Corte di giustizia all'invito al dialogo della Corte costituzionale dopo la sentenza Taricco: sì alla disapplicazione, ma nel rispetto del principio di legalità dei reati e delle pene costituzionalmente garantito (1/2018)

Sentenza della Corte di giustizia (Grande sezione) del 5 dicembre 2017, M.A.S. e M.B. (c.d. Taricco II), ECLI:EU:C:2017:936

Nella sentenza in esame, cd. Taricco II, la Corte di giustizia, deliberando nella composizione della grande sezione, ha risposto all'invito al dialogo formulato con ordinanza n. 24 del 2017 dalla Corte costituzionale italiana. Come si ricorderà, quest'ultima aveva chiesto al giudice europeo di chiarire la portata della sentenza Taricco (causa C-105/14, 8 settembre 2015, ECLI:EU:C:2015:555) , al fine di escludere ogni conflitto con il principio di legalità in materia penale quale sancito dall'art. 25 della Costituzione. Nella presente decisione, la Corte di giustizia ha ritenuto che, mancando all'epoca in cui si erano svolti i fatti oggetto del giudizio una normativa di armonizzazione adottata dal legislatore europeo, la valutazione della conformità del diritto dell'Unione a tale principio debba essere rimessa interamente al giudice nazionale: nel caso in cui quest'ultimo dovesse ritenere che l'obbligo di disapplicare le disposizioni del codice penale italiano in materia di prescrizione contrasta con il principio di legalità dei reati e delle pene costituzionalmente garantito, il giudice non sarebbe tenuto a conformarsi a tale obbligo, neppure qualora il rispetto del medesimo consentisse di rimediare a una situazione nazionale incompatibile con il diritto dell'Unione. La questione del rapporto tra la tutela dei diritti fondamentali apprestata dal diritto dell'Unione e dal diritto nazionale non sembra però essersi esaurita, come testimonia da ultimo la sentenza della Corte costituzionale n. 269 del 2017. Essa ha infatti ritenuto che, nei casi di controversie che possono dare luogo a questioni di legittimità costituzionale e, simultaneamente, a questioni di compatibilità con il diritto dell'Unione (c.d. "doppia pregiudizialità"), il giudice nazionale sarà tenuto, in linea di principio, a sollevare in via prioritaria la questione di legittimità costituzionale rispetto alla questione in via pregiudiziale avanti alla Corte di giustizia.

 

Prima di procedere all'esame degli ultimi sviluppi del "dialogo" che ha impegnato la Corte di giustizia e la Corte costituzionale italiana, appare utile ricordare i contenuti salienti della sentenza Taricco e della successiva ordinanza 24/2017.

Nella sentenza Taricco, la Corte di giustizia, deliberando anche in questo caso nella composizione della grande sezione, si era pronunciata sulla domanda pregiudiziale sollevata dal Tribunale di Cuneo nell'ambito di un procedimento penale avviato contro una pluralità di soggetti, ai quali veniva contestato di aver costituito e organizzato un'associazione per delinquere finalizzata a porre in essere una frode in materia di IVA di significativa entità (alcuni milioni di euro). In particolare, il giudice del rinvio aveva posto una questione relativa alla compatibilità con il diritto dell'Unione della normativa italiana in materia di prescrizione del reato. Infatti, gli articoli 160, ultimo comma, e 161, secondo comma, del codice penale italiano prevedevano che, a seguito di un atto interruttivo della prescrizione, il termine della stessa sarebbe stato prolungato di solo un quarto della durata iniziale.

Il giudice nazionale evidenziava pertanto il rischio che, per effetto dell'operatività di tale normativa, tutti i reati oggetto del giudizio si sarebbero prescritti prima che potesse essere pronunciata una sentenza definitiva nei confronti degli imputati, i quali "[avrebbero potuto] quindi beneficiare di un'impunità di fatto dovuta allo scadere del termine di prescrizione" (par. 22, sent. Taricco). Egli sottolineava, altresì, che, "dato che i procedimenti penali relativi a una frode fiscale come quella contestata agli imputati comporterebbero, di norma, indagini assai complesse, con la conseguenza che il procedimento si protrarrebbe a lungo già nella fase delle indagini preliminari" (par. 24, ibid.), l'impunità in questo tipo di procedimenti "costituirebbe in Italia non un'evenienza rara, ma la norma" (par. 24, ibid.).

Il giudice del rinvio aveva quindi individuato quali parametri rilevanti nel diritto dell'Unione, l'art. 101 TFUE, in quanto la normativa nazionale in materia di prescrizione autorizzerebbe "indirettamente una concorrenza sleale da parte di taluni operatori economici stabiliti in Italia rispetto a imprese con sede in altri Stati membri" (par. 25, ibid.), e l'art. 107 TFUE, essendo tali disposizioni "idonee a favorire determinate imprese" (ibid.), in violazione del divieto di aiuti di Stato. Inoltre, egli aveva interrogato la Corte anche sulla compatibilità delle disposizioni nazionali con la direttiva 2006/112/CE, relativa al sistema comune d'imposta sul valore aggiunto, nonché con l'art. 119 TFUE, in quanto l'impunità de facto di cui godrebbero gli evasori fiscali violerebbe "il principio secondo cui gli Stati membri devono vigilare sul carattere sano delle loro finanze pubbliche" (ibid.).

A fronte di tale situazione in cui gli interessi finanziari dell'Unione apparivano a rischio (in quanto le risorse proprie dell'Unione comprendono in particolare le entrate provenienti dall'applicazione di un'aliquota uniforme agli imponibili IVA), la Corte ha ritenuto necessario fornire invece un'interpretazione dell'art. 325 paragrafi 1 e 2 TFUE, il quale "obbliga gli Stati membri a lottare contro le attività illecite lesive degli interessi finanziari dell'Unione con misure dissuasive ed effettive e, in particolare, li obbliga ad adottare, per combattere la frode lesiva degli interessi finanziari dell'Unione, le stesse misure che adottano per combattere la frode lesiva dei loro interessi finanziari" (par. 37, ibid.; in tal senso la Corte si era già espressa nella sent. 26 febbraio 2013, Fransson, causa C-617/10, ECLI:EU:C:2013:105, par. 26). Secondo la Corte, gli Stati membri hanno quindi l'obbligo di assicurare che i casi "di frode grave siano passibili di sanzioni penali dotate, in particolare, di carattere effettivo e dissuasivo" (par. 43, ibid.) e che "le misure prese a tale riguardo [siano] le stesse che gli Stati membri adottano per combattere i casi di frode di par gravità che ledono i loro interessi finanziari" (par. 43, ibid.).

Nel caso di specie, tuttavia, la questione non riguardava la sanzione in sé per sé considerata, quanto piuttosto, come rilevato dal giudice del rinvio, l'applicazione delle disposizioni nazionali in materia di interruzione della prescrizione da cui "consegue, in un numero considerevole di casi, l'impunità penale a fronte di fatti costitutivi di una frode grave" (par. 47, ibid.). In effetti, nella sentenza Taricco, la Corte di giustizia aveva rimesso al giudice nazionale il compito di procedere alla valutazione se le norme in materia di interruzione della prescrizione fossero in contrasto con l'art. 325 TFUE. Nel caso in cui il giudice nazionale "giungesse alla conclusione che le disposizioni nazionali di cui trattasi non soddisfano gli obblighi del diritto dell'Unione relativi al carattere effettivo e dissuasivo delle misure di lotta contro le frodi all'IVA, detto giudice sarebbe tenuto a garantire la piena efficacia del diritto dell'Unione disapplicando, all'occorrenza, tali disposizioni" (par. 49, ibid., corsivo aggiunto), senza dover chiedere o attendere la rimozione di tali disposizioni in via legislativa o tramite qualsiasi altro procedimento costituzionale. Infatti, l'art. 325 paragrafi 1 e 2 TFUE è produttivo di effetti diretti, ponendo "a carico degli Stati membri un obbligo di risultato preciso e non accompagnato da alcuna condizione quanto all'applicazione della regola in ess[o] enunciata" (par. 51, ibid.).

Se tale affermazione non è apparsa una novità nel panorama del diritto dell'Unione, ove, in forza del principio del primato del diritto dell'Unione sul diritto interno, le disposizioni dotate di effetti diretti rendono ipso iure inapplicabile, per il fatto stesso della loro entrata in vigore, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione degli Stati membri, essa ha tuttavia posto delle questioni circa il rispetto dei diritti fondamentali. La stessa Corte ha infatti rilevato che il giudice nazionale, nel caso avesse optato per la disapplicazione delle disposizioni nazionali relative alla prescrizione, avrebbe dovuto "allo stesso tempo assicurarsi che i diritti fondamentali degli interessati siano rispettati" (par. 53, ibid.). Questi ultimi infatti, "potrebbero vedersi infliggere delle sanzioni alle quali, con ogni probabilità, sarebbero sfuggiti in caso di applicazione delle suddette disposizioni di diritto nazionale" (par. 53, ibid.), con conseguente violazione del principio della irretroattività della legge penale più sfavorevole. Tuttavia, la Corte ha aggiunto una doppia qualificazione. Dopo aver richiamato l'art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (d'ora in avanti, "Carta") e l'art. 7 della CEDU, i quali proibiscono entrambi l'applicazione retroattiva della legge penale più sfavorevole, la Corte ha concluso che la disapplicazione non avrebbe determinato la violazione del diritto fondamentale ricavabile da queste disposizioni: ciò in quanto "i fatti contestati agli imputati nel procedimento principale integravano, alla data della loro commissione, gli stessi reati ed erano passibili delle stesse sanzioni penali attualmente previste" (par. 56, ibid.). Pertanto "non ne deriverebbe affatto una condanna degli imputati per un'azione o un'omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva un reato punito dal diritto nazionale" (par. 53, ibid.). Il giudice dell'Unione, in linea con la giurisprudenza della Corte EDU, ha quindi fatto propria una concezione processuale della prescrizione, in quanto quest'ultima disciplina solo la perseguibilità dei reati. In coda a questa prima qualificazione, la Corte ne ha aggiunta una seconda, non proprio cristallina alla luce del tenore della prima: la disapplicazione non comporta quindi una violazione del principio sancito dall'art.49 della Carta, pur "con riserva di verifica da parte del giudice nazionale" (ibid., corsivo aggiunto).

A seguito della sentenza Taricco, a livello nazionale erano sorti dubbi circa la compatibilità di una tale soluzione con il principio di legalità dei reati e delle pene, come sancito dall'art. 25, secondo comma della Costituzione italiana, secondo cui "Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso". Le scelte relative al regime della punibilità devono quindi essere assunte esclusivamente dal legislatore mediante norme sufficientemente determinate e applicabili solo a fatti commessi quando erano già in vigore. L'ordinamento giudico italiano, infatti, a differenza della Corte di giustizia, ha accolto una concezione sostanziale della prescrizione, essendo un istituto che va ad incidere sulla punibilità della persona; con la conseguenza che il suo regime legale costituisce parte integrante del principio di legalità in materia penale sancito dall'art 25 della Costituzione. La Corte costituzionale, nel ragionamento svolto e che sarà brevemente esposto, ha confermato la qualificazione sostanziale del regime della prescrizione, della quale, anzi, ha riconosciuto la natura di principio supremo dell'ordinamento nazionale. Invero, la Corte costituzionale si è quindi spinta a "suggerire" alla Corte di giustizia tre possibili letture al fine di evitare il contrasto.

Al'origine delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte d'appello di Milano con ordinanza del 18 settembre 2015 e dalla Corte di cassazione (III sez. pen.) con ordinanza dell'8 luglio 2016, vi era quindi la questione se l'art. 325 TFUE, come interpretato nella sentenza Taricco, comportasse l'ingresso nell'ordinamento giuridico di una regola contraria al principio sancito dall'art. 25 della Costituzione. In particolare, vi era la richiesta, da parte dei giudici remittenti, di applicare la dottrina dei "controlimiti", per la prima volta affermata dalla Corte costituzionale nella sentenza Frontini (sent. n.183 del 1973), in base alla quale l'osservanza dei principi supremi dell'ordine costituzionale italiano e dei diritti inalienabili della persona costituiscono la condizione affinché il diritto dell'Unione possa essere applicato in Italia (sent. n. 183 del 1973, sent. n.232 del 1989 e n. 170 del 1984). Con la conseguenza che, qualora venga meno tale osservanza, sarebbe necessario dichiarare l'illegittimità costituzionale della legge nazionale che ha autorizzato la ratifica e resi esecutivi i Trattati, per la sola parte in cui essa consente che quell'ipotesi normativa si realizzi (quindi, nel caso di specie, l'illegittimità costituzionale dell'art. 2, L. n.130/2008). Di fronte a tale scenario, la Corte italiana ha deciso tuttavia di non applicare direttamente i controlimiti ma, con ordinanza n. 24 del 2017, ha sollevato una questione in via pregiudiziale alla Corte di giustizia al fine di determinare l'esatta portata della sentenza Taricco. Essa ha infatti sfruttato tale meccanismo per instaurare un dialogo con il giudice europeo, ponendo a quest'ultimo tre diverse questioni sorrette da altrettante - alternative - ricostruzioni al fine di "escludere ogni conflitto con il principio di legalità in materia penale" (ord. n.24/2017) costituzionalmente garantito.

In primo luogo, la Corte costituzionale ha ritenuto che, sebbene il giudice dell'Unione abbia escluso l'incompatibilità dell'art. 325 TFUE nell'interpretazione fornita nella causa Taricco, rispetto all'art. 49 della Carta con riguardo al divieto di retroattività, egli "non ha esaminato l'altro profilo proprio del principio di legalità, ovvero la necessità che la norma relativa al regime di punibilità sia sufficientemente determinata" (punto 9, ibid.). Si tratta, secondo il giudice italiano, di "un'esigenza comune alle tradizioni costituzionali degli Stati membri" (ibid., corsivo aggiunto) e come tale deve essere quindi osservata anche "se si dovesse ritenere che la prescrizione ha natura processuale, o che comunque può essere regolata anche da una normativa posteriore alla commissione del reato" (ibid.). L'art. 49 della Carta dovrebbe infatti essere interpretato in maniera conforme all'art. 52 par. 4 della medesima, ai sensi del quale "laddove la presente Carta riconosca i diritti fondamentali quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, tali diritti sono interpretati in armonia con dette tradizioni". Pertanto secondo la Corte costituzionale, sarebbe compito della Corte di giustizia verificare la coerenza del significato attribuito all'art. 325 TFUE, con l'art. 49 della Carta, "sotto il profilo della carente determinatezza della norma europea, quando interferisce con i diritti degli imputati in un processo penale" (ibid.): infatti, secondo la Corte italiana, tale eventualità potrebbe avverarsi in quanto l'art. 325 del TFUE, pur formulando un obbligo di risultato chiaro e incondizionato, "omette di indicare con sufficiente analiticità il percorso che il giudice penale è tenuto a seguire per conseguire lo scopo" (ibid.). Se tale lettura fosse condivisa anche dalla Corte di giustizia, il giudice italiano riterrebbe superate le questioni di legittimità costituzionale.

In secondo luogo, la Corte costituzionale ha indicato una ulteriore - e alternativa - possibile soluzione al contrasto, chiedendo anche in questo caso "conferma" alla Corte di giustizia della lettura data alla sentenza Taricco, in base alla quale "la regola tratta dall'art. 325 TFUE è applicabile solo se è compatibile con l'identità costituzionale dello Stato membro, e che spetta alle competenti autorità di quello Stato farsi carico di una siffatta valutazione" (punto 7, ibid., corsivo aggiunto). Tale lettura è basata sull'art. 53 della Carta, il quale afferma che "nessuna disposizione della presente Carta deve essere interpretata come limitativa o lesiva dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali riconosciuti, nel rispettivo ambito di applicazione, (…) dalle costituzioni degli Stati membri". Infatti, la Costituzione italiana conferisce al principio di legalità penale un oggetto più ampio di quello riconosciuto dalle fonti europee (art. 49 Carta e art. 7 CEDU) - non essendo limitato solo alla descrizione del fatto di reato e alla pena, ma includendo ogni profilo sostanziale concernente la punibilità (quindi anche il regime della prescrizione) - e, di conseguenza accorda un livello di protezione più elevato a tale principio. Anche perché, altrimenti, "il processo di integrazione europea avrebbe l'effetto di degradare le conquiste nazionali in tema di libertà fondamentali e si allontanerebbe dal suo percorso di unificazione nel segno del rispetto dei diritti umani (art. 2 TUE)" (ibid.).

La Corte, peraltro, ritiene possibile una tale soluzione in quanto, all'epoca dei fatti, mancava del tutto una normativa di armonizzazione in materia. Infatti, secondo il giudice italiano è necessario tenere distinto il caso di specie da quello deciso nella sentenza Melloni della Corte di giustizia (causa C-399/11, del 26 febbraio 2013, ECLI:EU:C:2013:107), ove essa ha escluso che lo Stato membro potesse applicare il livello di tutela dei diritti fondamentali accordato dalla propria Costituzione, sebbene più elevato, in quanto questo avrebbe "comportato la rottura dell'unità del diritto dell'Unione in una materia basata sulla reciproca fiducia in un assetto normativo uniforme" (ibid., corsivo aggiunto). Al contrario, secondo la Corte, "il primato del diritto dell'Unione non è posto in discussione nel caso oggi in giudizio, perché, come si è già osservato, non è in questione la regola enunciata dalla sentenza in causa Taricco, e desunta dall'art. 325 del TFUE, ma solo l'esistenza di un impedimento di ordine costituzionale alla sua applicazione diretta da parte del giudice" (ibid.). Tale impedimento è rinvenuto dalla Corte italiana nel fatto che "la prescrizione in Italia appartiene al diritto penale sostanziale, e soggiace perciò al principio di legalità in materia penale" (ibid.).

La Corte costituzionale ha infine richiamato l'art. 4 paragrafi 2 e 3 TUE e l'art. 2 TUE, secondo i quali "il primato del diritto dell'Unione non esprime una mera articolazione tecnica del sistema delle fonti nazionali e sovranazionali" (punto 6, ibid.); esso riflette piuttosto "il convincimento che l'obiettivo dell'unità, nell'ambito di un ordinamento che assicura la pace e la giustizia tra le Nazioni, giustifica una rinuncia a spazi di sovranità, persino se definiti da norme costituzionali" (ibid.). Tuttavia, "la forza stessa dell'unità in seno ad un ordinamento caratterizzato dal pluralismo (art. 2 TUE) nasc[e] dalla sua capacità di includere il tasso di diversità minimo, ma necessario per preservare la identità nazionale insita nella struttura fondamentale dello Stato membro (art. 4 par. 2 TUE)" (ibid.). Infatti, "in caso contrario i Trattati europei mirerebbero contraddittoriamente a dissolvere il fondamento costituzionale stesso dal quale hanno tratto origine per volontà degli Stati membri" (ibid.). Pertanto, se la Corte di giustizia ha il compito di specificare il significato del diritto dell'Unione ai fini di un'uniforme applicazione, essa non può imporre, tramite la sua interpretazione, allo "Stato membro la rinuncia ai principi supremi del suo ordinamento costituzionale" (ibid.). Facendo leva sull'art. 4 par. 2 TUE, la Corte costituzionale ha quindi sollevato la questione se il giudice nazionale debba dare applicazione alla regola di diritto dell'Unione anche quando essa confligge con un principio cardine dell'ordinamento italiano.

Facendo uso del procedimento accelerato, la grande sezione della Corte di giustizia ha reso la sentenza Taricco II il 5 dicembre 2017, precisando la portata della sentenza Taricco e rispondendo ad ognuna delle tre questioni poste dalla Corte costituzionale. Il giudice europeo ha dato avvio al proprio ragionamento sottolineando l'importanza del meccanismo del rinvio pregiudiziale, quale "strumento di cooperazione tra la Corte e i giudici nazionali" (par. 23), per poi tornare, con le dovute differenze, sugli aspetti della sentenza Taricco relativi all'obbligo posto dall'art. 325 TFUE, alle conseguenze della violazione di tale obbligo nonché al rispetto dei diritti fondamentali.

Riprendendo quanto già sviluppato nella sentenza Taricco in relazione all'art. 325 paragrafi 1 e 2, TFUE, la Corte ha ribadito che esso "pone a carico degli Stati membri obblighi di risultato precisi, che non sono accompagnati da alcuna condizione quanto all'applicazione delle norme enunciate" (par. 38) ed è pertanto idoneo a produrre effetti diretti. Di conseguenza, il giudice nazionale è tenuto a disapplicare le disposizioni interne, anche in materia di prescrizione, qualora esse "ostino all'applicazione di sanzioni effettive e dissuasive per combattere le frodi lesive degli interessi finanziari dell'Unione" (par. 39). Dopo tale premessa, che non aggiungeva nulla di nuovo rispetto al contenuto della sentenza Taricco, la Corte di giustizia ha preso in esame l'aspetto più controverso delle questioni sottoposte dalla Corte costituzionale, ovvero il rispetto dei diritti fondamentali, in particolare del principio di legalità dei reati e delle pene.

Innanzitutto, la Corte ha ricordato che "il settore della tutela degli interessi finanziari dell'Unione attraverso la previsione di sanzioni penali rientra nella competenza concorrente dell'Unione e degli Stati membri" (par. 43) e che, alla data dei fatti di cui al procedimento principale, "il regime della prescrizione applicabile ai reati in materia di IVA non era stato oggetto di armonizzazione da parte del legislatore dell'Unione" (par. 44). Pertanto, l'Italia "era quindi libera, a tale data, di prevedere che, nel suo ordinamento giuridico, detto regime ricadesse, al pari delle norme relative alla definizione dei reati e alla determinazione delle pene, nel diritto penale sostanziale e fosse a questo titolo soggetto, come queste ultime norme, al principio di legalità dei reati e delle pene" (par. 45). La Corte di giustizia ha fatto leva proprio sulla mancanza, all'epoca dei fatti, di un'armonizzazione legislativa per arrivare alla soluzione adottata. La portata di tale conclusione sembra quindi provvisoria, come appare confermato dalla precisazione formulata poco dopo dalla Corte: essa ha infatti affermato che tale armonizzazione è successivamente avvenuta, in modo parziale, con la direttiva 2017/1371/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 luglio 2017, relativa alla lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell'Unione mediante il diritto penale (GU 2017, L 198, p. 29).

Al momento di decidere se disapplicare la normativa interna in materia di prescrizione penale, i giudici nazionali sono quindi tenuti a valutare se i diritti fondamentali, in particolare il principio di legalità in materia penale, siano rispettatati. Infatti, in linea di principio, "resta consentito alle autorità e ai giudici nazionali applicare gli standard nazionali di tutela dei diritti fondamentali, a patto che tale applicazione non comprometta il livello di tutela previsto dalla Carta, come interpretata dalla Corte, né il primato, l'unità o l'effettività del diritto dell'Unione" (par. 47, corsivo aggiunto).

Partendo dai rilievi mossi dal giudice del rinvio, il quale aveva ritenuto che "tali diritti non sarebbero rispettati in caso di disapplicazione delle disposizioni del codice penale in questione" (par. 49), la Corte ha tenuto a sottolineare l'importanza che il principio di legalità dei reati e delle pene, "nei suoi requisiti di prevedibilità, determinatezza e irretroattività della legge penale applicabile" (par. 51, corsivo aggiunto), riveste sia nell'ordinamento giuridico dell'Unione, sia negli ordinamenti giuridici nazionali. Come nella sentenza Taricco, il giudice dell'Unione ha richiamato le diverse fonti che tutelano tale principio (art.7 della CEDU e art. 49 della Carta, il quale ha significato e portata identici al diritto garantito dalla CEDU), con la significativa aggiunta delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri ("il principio di legalità dei reati e delle pene appartiene alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri", par. 53, corsivo aggiunto). Partendo proprio dal contenuto del principio di legalità nell'aspetto della prevedibilità, la Corte, richiamando l'art. 7 par. 1 della CEDU e la relativa giurisprudenza della Corte EDU, ha riconosciuto che "le disposizioni penali devono rispettare determinati requisiti di accessibilità e di prevedibilità per quanto riguarda tanto la definizione del reato quanto la determinazione della pena" (par. 55). Invece, il requisito della determinatezza "implica che la legge definisca in modo chiaro i reati e le pene che li reprimono" (par. 56); secondo la Corte, tale condizione è soddisfatta "quando il singolo può conoscere, in base al testo della disposizione rilevante e, se del caso, con l'aiuto dell'interpretazione che ne sia stata fatta dai giudici, gli atti e le omissioni che chiamano in causa la sua responsabilità penale" (ibid., par. 56). Infine, il principio di irretroattività della legge penale "osta in particolare a che un giudice possa, nel corso di un procedimento penale, sanzionare penalmente una condotta non vietata da una norma nazionale adottata prima della commissione del reato addebitato, ovvero aggravare il regime di responsabilità penale di coloro che sono oggetto di un procedimento siffatto" (par. 57).

La Corte di giustizia ha quindi concluso il proprio ragionamento - riprendendo un passaggio della sentenza Taricco - ritenendo che spetti al giudice nazionale verificare se la condizione - secondo cui "le disposizioni del codice penale in questione impediscono di infliggere sanzioni penali effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell'Unione, [- può] condu[rre] a una situazione di incertezza nell'ordinamento giuridico italiano quanto alla determinazione del regime di prescrizione applicabile, incertezza che contrasterebbe con il principio di determinatezza della legge penale applicabile" (par 59). Infatti, se così fosse, il giudice nazionale non sarebbe tenuto a disapplicare le disposizioni del codice penale in questione. Inoltre, il giudice nazionale sarebbe ugualmente esonerato dal disapplicare la normativa penale nazionale, "ove alle persone accusate di aver commesso reati in materia di IVA prima della sentenza Taricco" (par. 60) potrebbero "essere inflitte sanzioni alle quali, con ogni probabilità, sarebbero sfuggite se le suddette disposizioni fossero state applicate" (ibid., par. 60) .

In definitiva, secondo la Corte, la valutazione della conformità deve essere rimessa interamente al giudice nazionale, il quale se "dovesse quindi essere indotto a ritenere che l'obbligo di disapplicare le disposizioni del codice penale in questione contrasti con il principio di legalità dei reati e delle pene, (…) non sarebbe tenuto a conformarsi a tale obbligo, e ciò neppure qualora il rispetto del medesimo consentisse di rimediare a una situazione nazionale incompatibile con il diritto dell'Unione" (par. 61). In questo caso, spetterà al legislatore nazionale provvedere ad assicurare la conformità del diritto nazionale rispetto agli obblighi derivanti dal diritto dell'Unione.

La Corte di giustizia, con la sentenza Taricco II, sembra comprendere e cogliere l'invito al dialogo formulato dalla Corte costituzionale, riconoscendo agli Stati membri un maggior margine di manovra rispetto al passato. Essi infatti hanno la possibilità di accordare un livello di tutela maggiore ai diritti fondamentali in base alle costituzioni nazionali rispetto a quello previsto della Carta (nei limiti dell'assenza di uno standard armonizzato di protezione a livello di diritto secondario dell'Unione), e anche se questo, a prima vista, può sembrare andare a discapito del principio del primato, unità e effettività del diritto dell'Unione. Tuttavia, l'equilibrio raggiunto con tale decisione non appare stabile e nuovi episodi di "dialogo" (o scontro) sembrano profilarsi all'orizzonte, sia perché alcuni aspetti della sentenza Taricco II necessitano di ulteriori precisazioni, sia - come sarà brevemente esaminato - nuove questioni (o vecchie questioni sotto altre vesti) sembrano porsi in relazione ai rapporti tra diritto interno e diritto dell'Unione.

A meno di un mese dalla sentenza Taricco II, la Corte costituzionale italiana è tornata ad occuparsi del rapporto tra il diritto dell'Unione e il diritto interno, sotto il profilo della tutela dei diritti fondamentali, all'interno di un obiter dictum nella sentenza n. 269 del 14 dicembre 2017.

Il giudice costituzionale si è pronunciato su due questioni incidentali di legittimità costituzionale1 sollevate dalla Commissione tributaria provinciale di Roma e relative al presunto contrasto di alcune disposizioni della L. n. 287/1990 ("Norme per la tutela della concorrenza e del mercato") con gli artt. 3, 53 primo e secondo comma e con l'art. 23 della Costituzione. La questione era stata infatti sollevata in relazione ad un presunto vizio di legittimità per disparità di trattamento, violazione della capacità contributiva e della riserva di legge, e concernente la circostanza per cui le imprese con più di 50 milioni di fatturato erano soggette ad un prelievo fiscale per finanziare l'attività regolatrice dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato, prelievo da cui erano esclusi alcuni soggetti quali le imprese minori, i consumatori e le amministrazioni pubbliche. L'oggetto del giudizio non atteneva quindi alla compatibilità della normativa interna con il diritto dell'Unione; si trattava, invero, di questioni puramente interne. Tuttavia, la Corte costituzionale, partendo da un aspetto invocato davanti al giudice a quo relativo agli artt. 49 e 56 TFUE sulla libertà di stabilimento e sulla libera prestazione dei servizi, ha sfruttato l'occasione per fornire una precisazione "dei limiti entro i quali la previa delibazione del contrasto con il diritto dell'Unione europea debba ritenersi imposta al giudice a quo a pena di inammissibilità delle questioni sollevate" (punto 5, sent. n. 269 del 2017).

La Corte costituzionale ha esordito ricordando la sua precedente giurisprudenza, affermando che "il contrasto con il diritto dell'Unione europea condiziona l'applicabilità della norma censurata nel giudizio a quo - e, di conseguenza la rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale che si intendano sollevare sulla medesima (ordinanza n. 2 del 2017) - soltanto quando la norma europea è dotata di effetto diretto" (punto 5.1, ibid.). Infatti, "ove la legge interna collida con una nome dell'Unione europea, il giudice - fallita qualsiasi ricomposizione del contrasto su base interpretativa o, se del caso, attraverso rinvio pregiudiziale - applica direttamente la disposizione dell'Unione europea dotata di effetti diretti" (ibid.), in tal modo soddisfacendo "il primato del diritto dell'Unione e lo stesso principio di soggezione del giudice soltanto alla legge (art. 101 Cost)" (ibid.). Al contrario, ove una norma di diritto dell'Unione fosse priva di effetti diretti, l'eventuale contrasto potrebbe essere risolto solo attraverso una "questione di legittimità costituzionale, riservata alla esclusiva competenza di questa Corte, senza delibare preventivamente i profili di incompatibilità con il diritto europeo" (ibid.).

Ebbene, dopo tale premessa ricognitiva della giurisprudenza precedente, la Corte costituzionale sembra aver invertito la propria rotta, prendendo in esame il ruolo dei giudici e il rapporto tra questione di legittimità costituzionale e questione in via pregiudiziale, nel caso in cui siano presenti eventuali "violazioni dei diritti della persona" (ibid), tanto sotto il profilo della legittimità costituzionale, che dal punto di vista della compatibilità con il diritto dell'Unione. Infatti, secondo la Corte, "una precisazione si impone alla luce delle trasformazioni che hanno riguardato il diritto dell'Unione europea e il sistema dei rapporti con gli ordinamenti nazionali dopo l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona" (punto 5.2, ibid.). Il giudice costituzionale sembra infatti riferirsi all'attribuzione di effetti giuridici vincolanti alla Carta dei diritti fondamentali che, in base all'art. 6 par. 1 TUE - come modificato proprio dal Trattato di Lisbona -, è stata equiparata ai Trattati. La Carta, per i suoi "caratteri peculiari in ragione del suo contenuto di impronta tipicamente costituzionale" (ibid.), contiene principi e diritti che "intersecano in larga misura i principi e i diritti garantiti dalla Costituzione italiana" (ibid.), cosicché "può darsi il caso che la violazione di un diritto della persona infranga, ad un tempo, sia le garanzie presidiate dalla Costituzione italiana, sia quelle codificate dalla Carta dei diritti dell'Unione, come è accaduto da ultimo in riferimento al principio di legalità dei reati e delle pene (Corte di giustizia dell'Unione europea, grande sezione, 5 dicembre 2017, nella causa C-42/17, M.A.S, M.B.)" (ibid.). Si tratta di casi che la Corte qualifica di "doppia pregiudizialità".

Tali ipotesi, secondo la Corte, "postulano la necessità di un intervento erga omnes di questa Corte, anche in virtù del principio che situa il sindacato accentrato di costituzionalità delle leggi a fondamento dell'architettura costituzionale (art. 134 Cost.)" (ibid., corsivo aggiunto). In queste ipotesi, "la Corte giudicherà alla luce dei parametri interni ed eventualmente di quelli europei (ex artt. 11 e 117 Cost.), secondo l'ordine di volta in volta appropriato, anche al fine di assicurare che i diritti garantiti dalla citata Carta dei diritti siano interpretati in armonia con le tradizioni costituzionali" (ibid.), richiamate dall'art. 6 TUE e dall'art. 52 par. 4 della Carta. Inoltre, nei casi appena citati di "controversie che possono dare luogo a questioni di legittimità costituzionale e, simultaneamente, a questioni di compatibilità con il diritto dell'Unione" (ibid.) - il diritto dell'Unione non è ostativo "al carattere prioritario del giudizio di costituzionalità di competenza delle Corti costituzionali nazionali" (ibid., corsivo aggiunto). Questo purché "i giudici ordinari restino liberi di sottoporre alla Corte di giustizia "in qualunque fase del procedimento ritengano appropriata e finanche al termine del procedimento incidentale di controllo generale delle leggi, qualsiasi questione pregiudiziale a loro giudizio necessaria"; di "adottare qualsiasi misura necessaria per garantire la tutela giurisdizionale provvisoria dei diritti conferiti dall'ordinamento giuridico dell'Unione"; di disapplicare, al termine del giudizio incidentale di legittimità costituzionale, la disposizione legislativa nazionale in questione che abbia superato il vaglio di costituzionalità, ove, per altri profili, la ritengano contraria al diritto dell'Unione" (ibid.) (in particolare, Corte di giustizia, sentenze Melki Abdeli, cause riunite C-188/10 e 189/10, 22 giugno 2010, ECLI:EU:C:2010:363 e A c. B, causa C-112/13, 11 settembre 2014, ECLI:EU:C:2014:2195.

In definitiva, quindi, la Corte costituzionale ha ritenuto che "laddove una legge sia oggetto di dubbio di illegittimità tanto in riferimento ai diritti protetti dalla Costituzione italiana, quanto in relazione a quelli garantiti dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea in ambito di rilevanza comunitaria, debba essere sollevata la questione di legittimità costituzionale, fatto salvo il ricorso al rinvio pregiudiziale per le questioni di interpretazione o di invalidità del diritto dell'Unione, ai sensi dell'art. 267 TFUE" (ibid.).

La sentenza n. 269 del 2017 suggerisce che l'esito della saga Taricco ha condotto solo ad una calma momentanea. La decisione della Corte costituzionale potrebbe risultare problematica dal punto di vista della conformità con il diritto dell'Unione, in particolare con il principio del primato e dell'efficacia diretta, in quanto comporterebbe una limitazione al potere di disapplicazione del giudice nazionale in presenza di un'ipotesi di doppia pregiudizialità e di un conflitto con norme dell'Unione dotate di effetto diretto. Tuttavia, trattandosi di un obiter dictum espresso nell'ambito di un caso a rilevanza puramente interna, sarà necessario attendere come l'apparente cambio di rotta (se) sarà coltivato nella futura giurisprudenza costituzionale e quale sarà il suo impatto nell'orientamento delle corti ordinarie.

 


1 Ordinanze del 2 maggio 2016 e del 25 ottobre 2016

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