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Il licenziamento e la Carta sociale europea: Corte cost., sent. 194/2018 (1/2019)

Sentenza n. 194/2018 - giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale

Deposito del 08/11/2018; Pubblicazione in G. U. 14/11/2018 n. 45

Motivo della segnalazione

Come già accaduto nella sentenza 120/2018, la Corte costituzionale rinvia, nel proprio iter logico-argomentativo, alla Carta europea dei diritti sociali, segnando così un sensibile passo in avanti nella relazione dei diritti sociali, (anche) con riferimento a fonti sovranazionali sino a tempi recenti trascurate.

Con la decisione qui segnalata, la Corte costituzionale si è pronunciata sull’incompatibilità con la Costituzione dell’art. 1, comma VII, lett. c), della legge 10 dicembre 2014, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro) e degli artt. 2, 3 e 4 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183).

La questione di legittimità costituzionale è stata sollevata dal Tribunale ordinario di Roma. La disciplina de qua prevede, in riferimento ai casi di licenziamento illegittimo, che al lavoratore assunto con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dal 7 marzo 2015 spetti un’indennità «in misura [...] modesta», stabilita in modo «automati[co]» con esclusione, quindi, di «qualsiasi discrezionalità valutativa del giudice» e, in particolare, «crescente solo in base alla anzianità di servizio»; secondo il giudice a quo, ciò si pone in contrasto «con gli artt. 3, 4, primo comma, 35, primo comma, 76 e 117, I comma, della Costituzione.».

 

Con riferimento all’art. 3 vengono indicati quattro profili di illegittimità costituzionale. Il primo viene individuato nella circostanza che le disposizioni impugnate tutelano «i lavoratori assunti a decorrere dal 7 marzo 2015 in modo ingiustificatamente deteriore rispetto a quelli assunti, anche nella stessa azienda, prima di tale data i quali continuano a godere del più favorevole regime di tutela previsto dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970, come modificato dall’art. 1, comma 42, della legge n. 92 del 2012»; inoltre, va considerato che «la data di assunzione appare come un dato accidentale ed estrinseco a ciascun rapporto che in nulla è idoneo a differenziare un rapporto da un altro a parità di ogni altro profilo sostanziale».

Il secondo profilo di incompatibilità con il principio d’eguaglianza riguarda il fatto che la normativa de qua, con riferimento ai lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, garantisce «i lavoratori privi di qualifica dirigenziale in modo ingiustificatamente deteriore rispetto ai dirigenti, i quali, «non soggetti alla nuova disciplina, continueranno a godere di indennizzi di importo minimo e massimo ben più consistente».

Il terzo profilo di incompatibilità con l’art. 3 Cost. viene individuato nel fatto che «il carattere «fiss[o] e crescente solo in base all’anzianità di servizio» dell’indennità da esse prevista comporta anche che «situazioni molto dissimili nella sostanza» (quanto, in particolare, alla gravità del pregiudizio subito dal lavoratore) vengano tutelate in modo ingiustificatamente identico.».

Infine, si eccepisce l’irragionevolezza della disciplina supra richiamata poiché «l’indennità da ess[a] prevista, in quanto «modesta, fissa e crescente solo in base all’anzianità di servizio», non costituisce né un adeguato ristoro del concreto pregiudizio subito dal lavoratore a causa del licenziamento illegittimo né un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare illegittimamente, sicché «non [è] soddisfa[tto] il test del bilanciamento dei contrapposti interessi in gioco».

La normativa de qua viene poi considerata come incompatibile con gli artt. 4 e 35, I comma, Cost. perché le disposizioni denunciate non sarebbero rispettose del valore attribuito al lavoro dalle norme costituzionali appena menzionate (punto 1.2.2 del considerato in diritto). Inoltre, il giudice rimettente ravvisa che le disposizioni denunciate non rispettano, quanto all’art. 76 Cost., il criterio direttivo, dettato dall’art. 1, comma 7, della legge n. 183 del 2014, della «coerenza con la regolazione dell’Unione europea e le convenzioni internazionali» e, quanto all’art. 117, I comma, Cost., i «vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali», perché si pongono in contrasto con le norme dell’Unione europea e internazionali che sanciscono il diritto del lavoratore «a una tutela efficace nei confronti di un licenziamento [...] ingiustificato».

Le norme interposte violate, per il giudice capitolino, sono perciò tre: in primo luogo, l’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, visto che esso dispone che «Ogni lavoratore ha il diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto dell’Unione e alle legislazioni e prassi nazionali.». In secondo luogo, l’art. 10 della Convenzione OIL 158/1982 (non ratificata però dall’Italia), ove si prevede che « se il giudice o l’organismo arbitrale competenti che abbiano reputato ingiustificato il licenziamento non hanno il potere di annullarlo, e/o di ordinare o di proporre la reintegrazione del lavoratore, o non ritengono che ciò sia possibile nella situazione data, “dovranno essere abilitati ad ordinare il versamento di un indennizzo adeguato o ogni altra forma di riparazione considerata come appropriata”». Infine, l’art. 117 Cost, I comma, sarebbe violato stante l’inconciliabilità di quanto disposto dalla normativa denunciata con il contenuto dell’art. 24 della Carta sociale europea, nella sua versione riveduta, ratificata e resa esecutiva dal nostro Paese con la l. 30/1999. L’art. 24 della CSE, rubricato «Diritto ad una tutela in caso di licenziamento» prevede che «per assicurare l’effettivo esercizio del diritto ad una tutela in caso di licenziamento, le Parti s’impegnano a riconoscere: a) il diritto dei lavoratori di non essere licenziati senza un valido motivo legato alle loro attitudini o alla loro condotta o basato sulle necessità di funzionamento dell’impresa, dello stabilimento o del servizio; b) il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo, ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione.» (punto 1.2.3 del considerato in diritto).

La Consulta svolge quindi alcune considerazioni relative al rapporto fra la normativa de qua e lo ius superveniens rappresentato dal d.l. 87/2018 (conv. in legge 96/2018) e all’ammissibilità della disciplina denunziata (in particolare, con riferimento all’applicabilità nel caso di specie).

La Corte valuta come inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma VII, lettera c), della legge n. 183 del 2014 per difetto di motivazione sulla non manifesta infondatezza e irrilevanti le questioni inerenti agli artt. 2 e 4 e al II comma dell’art. 3 del d. lgs. 23/2015.

Di conseguenza, il giudizio di legittimità costituzionale resta circoscritto all’art. 3, I comma, del d.lgs. 23/2015.

Il giudice delle leggi si sofferma poi sull’invocabilità dei parametri interposti appena richiamati.

La questione di legittimità costituzionale relativa all’art. 10 della Convenzione OIL 158/1982, stante la mancata ratifica della Convenzione stessa, non è ammissibile. L’assenza della ratifica fa sì che essa non possa integrare il parametro costituzionale invocato, dal momento che l’art. 117, I comma, Cost., fa riferimento ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali. La Consulta rileva poi come «non si possa pervenire a diversa conclusione neanche con riguardo alla possibile idoneità di tale Convenzione a integrare il parametro dell’art. 76 Cost. Se è vero, infatti, che l’alinea dell’art. 1, comma 7, della legge di delegazione n. 183 del 2014 fa riferimento, senza ulteriori specificazioni, alle «convenzioni internazionali», da tale generica dicitura non si può certamente far discendere l’obbligo per il legislatore delegato del rispetto di convenzioni cui l’Italia, non avendo inteso ratificarle, non è vincolata.» (punto 5.4 del considerato in diritto). La Corte costituzionale, poi, passa alla fondatezza della prima delle quattro questioni di legittimità costituzionale sollevate sulla base dell’art. 3 Cost. Essa non è fondata: per la Corte, il giudice ha trascurato di valutare, in ordine alla ragionevolezza delle misure de qua, il fatto che esse trovano la propria ratio giustificatrice nell’esigenza «di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione».

Anche a seconda delle qlc basate sull’art. 3 Cost. è infondata.

Con riferimento alla questione relativa all’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, la cui violazione si tradurrebbe in una violazione degli artt. 76 e 117, I comma, Cost., infatti, la Corte ribadisce che «perché la Carta dei diritti UE sia invocabile in un giudizio di legittimità costituzionale, occorre, dunque, che la fattispecie oggetto di legislazione interna “sia disciplinata dal diritto europeo – in quanto inerente ad atti dell’Unione, ad atti e comportamenti nazionali che danno attuazione al diritto dell’Unione, ovvero alle giustificazioni addotte da uno Stato membro per una misura nazionale altrimenti incompatibile con il diritto dell’Unione – e non già da sole norme nazionali prive di ogni legame con tale diritto” (sentenza n. 80 del 2011)» (cfr. sentenza n. 63 del 2016, punto 7. del Considerato in diritto; nello stesso senso, sentenza n. 111 del 2017 e ordinanza n. 138 del 2011). E l’art. 3, I comma, non è stato adottato – nonostante le deduzioni della difesa delle parti costituite – in attuazione del diritto dell’Unione; di conseguenza, l’art. 30 non può costituire un parametro di legittimità costituzionale (punto 8 del considerato in diritto).

La Corte dichiara poi fondate le questioni legittimità costituzionale relative agli «artt. 3, 4, I comma, 35, I comma, e 76 e 117, I comma, Cost.» (gli ultimi due articoli menzionati questi ultimi sono invocati in relazione all’art. 24 della Carta sociale europea). La Consulta ripercorre poi la propria giurisprudenza in materia di licenziamenti, per «enucleare l’ambito delle tutele fondate sugli artt. 4, primo comma, e 35, primo comma, Cost., interpretati congiuntamente» (punto 10 del considerato in diritto). Chiarita la tutela meramente indennitaria apprestata dal legislatore con la disciplina de qua, il giudice delle leggi rilevava che il quantum dell’indennità, impostato a partire dalla «previsione di una misura risarcitoria uniforme, indipendente dalle peculiarità e dalla diversità delle vicende dei licenziamenti intimati dal datore di lavoro», viene quindi a tradursi «in un’indebita omologazione di situazioni che possono essere – e sono, nell’esperienza concreta – diverse.» (punto 11 del considerato in diritto). L’ammontare della prestazione forfettaria dovuta al lavoratore ingiustamente licenziato è, per la Corte, inadeguata tanto rispetto alla «sua primaria funzione riparatorio-compensativa», quanto rispetto alla sua funzione dissuasiva nei confronti del datore di lavoro (punto 12.2 del considerato in diritto). L’irragionevolezza della scelta compiuta dal legislatore è ancor più evidente tenendo presente il particolare valore attribuito al lavoro nella carta costituzionale del 1948 (in proposito, la Corte richiamava la sent. 163/1983, in cui si dice che «[…] va però rilevato che l’art. 3 della Costituzione attribuisce ad ogni cittadino il diritto fondamentale di realizzare lo sviluppo della sua personalità, il quale viene attuato, come è stato generalmente avvertito, principalmente attraverso il lavoro, a cui pertanto deve essere garantito il libero accesso da parte di tutti. Principio questo energicamente ribadito nel successivo art. 4, per cui “la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”»). Di seguito, la Consulta si confronta con l’art. 24 della CSE, sottolineando – ed è un aspetto degno di nota – la posizione assunta dal Comitato europeo dei diritti sociali nel decidere il reclamo n. 106/2014, Finnish Society of Social Rights c. Finlandia. In particolare, la Corte riprende il punto 45 della decisione appena menzionata, sottolineando che «[il Comitato europeo dei diritti sociali] ha chiarito che l’indennizzo è congruo se è tale da assicurare un adeguato ristoro per il concreto pregiudizio subito dal lavoratore licenziato senza un valido motivo e da dissuadere il datore di lavoro dal licenziare ingiustificatamente.» (punto 14 del considerato in diritto). Inoltre, la Consulta ha modo di sottolineare che «[…] l’art. 24, che si ispira alla già citata Convenzione OIL n. 158 del 1982, specifica sul piano internazionale, in armonia con l’art. 35, terzo comma, Cost. e con riguardo al licenziamento ingiustificato, l’obbligo di garantire l’adeguatezza del risarcimento, in linea con quanto affermato da questa Corte sulla base del parametro costituzionale interno dell’art. 3 Cost. Si realizza, in tal modo, un’integrazione tra fonti e – ciò che più rileva – tra le tutele da esse garantite (sentenza n. 317 del 2009, punto 7. del Considerato in diritto, secondo cui «[i]l risultato complessivo dell’integrazione delle garanzie dell’ordinamento deve essere di segno positivo»).» (punto 14 del considerato in diritto). Tramite la violazione dell’art. 24 della CSE risultano quindi essere violati anche gli artt. 76 e 117, I comma, Cost.

In conclusione, pertanto, «in parziale accoglimento delle questioni sollevate in riferimento agli artt. 3 (in relazione sia al principio di eguaglianza, sotto il profilo dell’ingiustificata omologazione di situazioni diverse, sia al principio di ragionevolezza), 4, primo comma, 35, primo comma, e 76 e 117, primo comma, Cost. (questi ultimi due articoli in relazione all’art. 24 della Carta sociale europea)» l’art. 3, I comma, viene dichiarato costituzionalmente illegittimo limitatamente alle parole «di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio […]».

Osservatorio sulle fonti

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