Sentenza n. 169 del 2020 – Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale
Deposito del 28/07/2020 – Pubblicazione in G. U. 29/07/2020
Motivo della segnalazione
La decisione è stata originata dall’impugnazione in via incidentale dell’art. 10, l. n. 124/2015, contenente delega al governo per la riforma delle camere di commercio, nonché della disposizione del decreto legislativo delegato che, al fine di dare piena attuazione ai pruncipi della delega, aveva previsto l’adozione di un atto sublegislativo e disciplinato il relativo procedimento di adozione (art. 3, d.lgs. n. 219/2016). Ad avviso del rimettente TAR Lazio, la legge di delegazione sarebbe stata illegittima per violazione del principio di leale collaborazione, in quanto essa non avrebbe assicurato un adeguato coinvolgimento delle Regioni nella fase di approvazione del decreto legislativo concernente la riforma delle camere di commercio: in particolare, per aver previsto un mero parere e non l’intesa tra Stato e Regioni sullo schema dell’atto legislativo.
Dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma di delegazione sarebbe altresì dovuta discendere, «in via derivata», la caducazione dell’intero art. 3 del d.lgs. n. 219 del 2016, il quale ha costituito il fondamento per l’adozione del decreto del Ministro dello sviluppo economico 16 febbraio 2018 (Riduzione del numero delle camere di commercio mediante accorpamento, razionalizzazione delle sedi e del personale), impugnato nei giudizi principali. La Corte richiama la propria giurisprudenza recente in materia di delegazione legislativa e principio di leale collaborazione (sono menzionati, in particolare, il precedente specifico della sentenza n. 261/2017, riguardante lo stesso d.lgs. n. 219/2016, nonché la nota sentenza n. 251/2016: decisioni che avevano accertato violazioni di tale principio) e nel caso di specie giunge ad un dispositivo di infondatezza perché ritiene che sia comunque stato garantito il rispetto di tale principio, in ragione della previsione, da parte del decreto legislativo, di un’intesa fra Stato e Regioni per l'approvazione di un decreto ministeriale di attuazione (come imposto dalla sentenza n. 261/2017) e del successivo perseguimento dell’intesa, sebbene questa non sia stata raggiunta.
Nella motivazione si ribadisce quanto era già stato affermato nella sentenza n. 261 del 2017, ovvero che «la disciplina del sistema camerale si colloca al crocevia di distinti livelli di governo, richiedendo, dunque, un adeguato coinvolgimento delle autonomie regionali» (considerato n. 4). Si sottolinea altresì che la sentenza n. 251 del 2016 ha precisato che, «[n]el seguire le cadenze temporali entro cui esercita la delega, […] il Governo può fare ricorso a tutti gli strumenti che reputa, di volta in volta, idonei al raggiungimento dell’obiettivo finale [...] consiste[nte] nel vagliare la coerenza dell’intero procedimento di attuazione della delega, senza sottrarlo alla collaborazione con le Regioni»: ciò porta ad affermare che in generale "l’adeguatezza del coinvolgimento regionale [...] lungi dall’imporre un rigido automatismo, abbraccia necessariamente un orizzonte ampio, offerto dall’intero procedimento innescato dal legislatore delegante, da valutarsi alla luce dei meccanismi di raccordo complessivamente predisposti dallo Stato» (considerato n. 5.2). Sulla base di tali capisaldi la Corte sviluppa il ragionamento che la conduce a ritenere non fondate le questioni prospettate nel caso di specie.
In primo luogo, si afferma, sempre in termini generali, che «la leale collaborazione, dunque, richiama un metodo procedimentale che permea le relazioni dei livelli di governo, la cui estensione dipende dalle concrete modalità di esercizio delle competenze in un determinato ambito materiale». Quindi, subito dopo, si sottolinea che «nel caso in esame, particolarmente rilevante è stata l’attivazione delle procedure per addivenire a un’intesa sul d.m. di attuazione, sulla scorta di quanto richiesto da questa Corte nella più volte citata sentenza n. 261 del 2017 che aveva ritenuto non legittimo il semplice ricorso al “parere” anziché “all’intesa” nell’approvazione dello stesso». Si ricorda che infatti, «a seguito di tale pronuncia, l’atto ministeriale inizialmente adottato è stato ritirato e sostituito con altro atto su cui il Governo ha, a più riprese, tentato di raggiungere un accordo con le Regioni, come testimonial’andamento delle riunioni della Conferenza Stato-Regioni del 21 dicembre del 2017 e dell’11 gennaio 2018, e come si evince dalle numerose riunioni tecniche che si sono tenute a latere della Conferenza stessa e di cui viene dato atto nei relativi verbali»; e che «solo a seguito di queste reiterate interlocuzioni il Consiglio dei ministri ha deliberato, l’8 febbraio del 2018, di superare l’impasse, autorizzando il Ministro dello sviluppo economico ad adottare il decreto ministeriale». Si osserva inoltre che, «alla luce di tale sequenza, non può essere sottovalutato che la eventuale dichiarazione di illegittimità derivata dell’art. 3 del d.lgs. n. 216 del 2019 porterebbe a sindacare la medesima disposizione normativa due volte per violazione del medesimo principio: “a valle” perché non ha previsto, nella attuazione tramite decreto ministeriale, un adeguato coinvolgimento delle autonomie regionali, “a monte” perché non concertata con le Regioni prima dell’entrata in vigore del decreto legislativo». Da un lato, «è ben vero che, sul piano formale, l’oggetto normativo (attinente all’intero art. 3 d.lgs. n. 219 del 2016 e non al solo comma 4, relativo al procedimento di adozione del decreto ministeriale), è più ampio rispetto alla disposizione già dichiarata incostituzionale». Dall’altro lato, «se si considera però il profilo complessivo dell’asserito vizio di legittimità costituzionale, non sfugge il pericolo che questa Corte arriverebbe a sindacare per due volte il medesimo procedimento legislativo per violazione dello stesso principio». Di conseguenza, «nonostante sia diverso il quando, il momento della violazione o – se si vuole – la singola scansione del procedimento colpita dall’incostituzionalità, non muta la sostanza della lesione, già accertata da questa Corte con la dichiarazione di illegittimità costituzionale disposta dalla sentenza n. 261 del 2017»: «non può dunque sostenersi, come pure impropriamente ritengono i rimettenti evocando la sentenza n. 251 del 2016, che il procedimento innescato dall’art. 10 della legge n. 124 del 2015 sia stato condotto senza rispettare i canoni della leale collaborazione» (considerato n. 5.3). Infine, «non rileva, a questo proposito, la mancata intesa sul testo del d.m.» (considerato n. 5.4), posto che, «per costante giurisprudenza di questa Corte, l’intesa non pone un obbligo di risultati ma solo di mezzi». Infatti, «[s]e, da un lato, il superamento del dissenso deve essere reso possibile, anche col prevalere della volontà di uno dei soggetti coinvolti, per evitare che l’inerzia di una delle parti determini un blocco procedimentale, impedendo ogni deliberazione; dall’altro, il principio di leale collaborazione non consente che l’assunzione unilaterale dell’atto da parte dell’autorità centrale sia mera conseguenza automatica del mancato raggiungimento dell’intesa entro un determinato periodo di tempo (ex plurimis, sentenze n. 239 del 2013, n. 179 del 2012 e n. 165 del 2011) […] o dell’urgenza del provvedere. Il principio di leale collaborazione esige che le procedure volte a raggiungere l’intesa siano configurate in modo tale da consentire l’adeguato sviluppo delle trattative al fine di superare le divergenze» (è citata la sentenza n. 1 del 2016, insieme con altre), come è avvenuto nel caso di specie (considerato n. 5.5).