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Le leggi regionali siciliane (agosto – dicembre 2020) (1/2021)

L’attività legislativa della Regione Siciliana, nel periodo compreso tra agosto e dicembre 2020, è consistita nella approvazione di diciassette leggi, un numero piuttosto significativo rispetto alla media dell’Assemblea Regionale.

Sei di queste sono state oggetto di impugnazione da parte dello Stato ai sensi dell’art. 127 della Costituzione.

1. Secondo il Governo, la legge della regione Sicilia n. 11 agosto 2020, n. 17 recante Riordino dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Sicilia, presenterebbe profili di illegittimità costituzionale con riferimento all’art. 5 in quanto tale norma eccederebbe le competenze attribuite alla Regione siciliana dall’art. 17, lettere b), e c), dello Statuto speciale e violerebbe sia l’art. 117, terzo comma, Cost., sia l’art. 120, secondo comma, Cost. 

La legge regionale ha dettato la disciplina di riordino dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Sicilia, secondo quanto disposto dall’art. 10 del decreto legislativo n. 106 del 2012 (Riorganizzazione degli enti vigilati dal Ministero della salute, a norma dell’articolo 2 della legge 4 novembre 2010, n. 183).

L’art. 5, comma 1, della legge in esame prevede che l’Assessore regionale per la salute, nelle more della costituzione dei nuovi organi dell’Istituto, provvede a nominare un commissario straordinario per lo svolgimento delle funzioni previste dall’articolo 11, comma 1, lettere a) e b), del d.lgs. n. 106 del 2012, che resta in carica fino all’insediamento di tali organi.

Tale disposizione, laddove prevede che sia l’assessore regionale alla salute a nominare il commissario, finché la stessa Regione non completi la procedura di costituzione dei nuovi organi, contrasterebbe sia con le previsioni dell’art. 10 del d.lgs. n. 106 del 2012, che attribuiscono alle regioni il compito di disciplinare “le modalità gestionali, organizzative e di funzionamento degli Istituti... salva in ogni caso la competenza esclusiva dello Stato”, sia con l’art. 1, comma 579, della legge n. 190 del 2014, che prevede la nomina di un commissario da parte del Ministero della salute in caso di inerzia o ritardo della Regione nella costituzione dei nuovi organi. 

Inoltre, la disposizione in questione elimina la necessaria dualità tra il soggetto che ha il potere di nomina commissariale e quello che ha la facoltà di far venire meno i presupposti per l’esercizio dello stesso (in entrambi i casi identificandolo con la Regione).

Ed ancora, essa non indica il termine nel rispetto del quale la Regione dovrebbe provvedere alla nomina dei nuovi organi, cosicché la carica di commissario potrebbe essere esercitata a tempo indeterminato, con conseguente stabile sostituzione dello stesso agli ordinari organi istituzionali. 

L’art. 5 della legge in esame, pertanto, conferendo alla Regione l’esercizio del potere sostitutivo posto in capo al Governo, violerebbe l’art. 120, secondo comma, della Costituzione. 

Lo stesso art. 5, inoltre, eccederebbe dalle competenze statutarie previste dall’art. 17, lettere b), e c), e violerebbe i principi fondamentali in materia di tutela della salute di cui all’art. 117, terzo comma, Cost. 

Le disposizioni sulla nomina degli organi degli IZS dovrebbero infatti conformarsi ai principi fondamentali nella materia di potestà legislativa concorrente “tutela della salute”, rimessi alla determinazione della legge statale.

Il Governo richiama a tal proposito la giurisprudenza costituzionale secondo la quale sarebbero da ricondursi alla materia della tutela della salute, le disposizioni statali dettate in tema di “governance” delle aziende sanitarie, alle quali non possono che assimilarsi gli Istituti Zooprofilattici Sperimentali, in quanto enti sanitari di diritto pubblico le cui attività istituzionali sono preordinate alla tutela della salute umana ed animale.

Spetta perciò allo Stato la determinazione dei principi fondamentali in materia, tra cui devono annoverarsi quei principi - dettati con riferimento alle modalità di costituzione degli organi e di conferimento degli incarichi - che si collocano in una prospettiva di miglioramento del “rendimento” del servizio offerto e dunque di garanzia, oltreché del buon andamento dell’amministrazione, della qualità dell’attività assistenziale erogata e di funzionamento dei servizi.

Con riguardo poi ai limiti posti alla legislazione regionale concorrente in materia di sanità pubblica e assistenza sanitaria di cui all’art. 17, lettere b), e c), dello Statuto regionale, la Corte ha ritenuto che «l’ampiezza della potestà legislativa della Regione Siciliana in materia di sanità pubblica coincide con quella di tipo concorrente, delineata dal Titolo V della Costituzione per le Regioni ordinarie in materia di “tutela della salute” (art. 117, terzo comma, Cost.), con la conseguenza che i “principi generali” della materia ai quali deve attenersi la legislazione siciliana corrispondono ai “principi fondamentali” che, nella stessa materia, vincolano le Regioni a statuto ordinario» (sent. n. 159 del 2018, n. 430 del 2007, n. 448 del 2006)”. 

2. Una particolare attenzione meritano le ragioni che hanno indotto il Governo ad impugnare legge regionale 13 agosto 2020, n. 19 contenente Norme per il governo del territorio.

La delibera adottata si presenta ampiamente articolata e colpisce estesamente alcuni elementi fondamentali dell’intervento organico di revisione normativa realizzato dalla Regione nell’agosto dello scorso anno.

La legge regionale in esame disciplina, come affermato nell’articolo 1, «nel rispetto dello Statuto regionale, dell’ordinamento nazionale ed europeo, le azioni della Regione, delle Città metropolitane, dei liberi Consorzi comunali e dei comuni nel governo del territorio e stabilisce i principi fondamentali per la tutela del suolo e delle sue funzioni, anche al fine di promuovere e tutelare l’ambiente, il paesaggio e l’attività agricola nonché di impedire in via di principio l’ulteriore consumo di suolo».

Secondo il Governo, tale intervento eccederebbe dalle competenze statutarie riconosciute alla Regione Sicilia dall’articolo 14, lettere b), f) ed n) dello Statuto speciale di autonomia della Regione Siciliana e violerebbe gli articoli 9 e 117 primo e secondo comma lettere l) ed s) della Costituzione.

La regione Siciliana ha infatti competenza legislativa esclusiva in materia di tutela del paesaggio, nonché di conservazione delle antichità e delle opere artistiche, ai sensi dell’art. 14, comma 1, lett. n), dello Statuto di autonomia; ma tale competenza si esplica, ai sensi del predetto Statuto «nei limiti delle leggi costituzionali dello Stato, senza pregiudizio delle riforme agrarie e industriali, deliberate dalla Costituente del popolo italiano».

Le diverse censure ruotano tutte intorno a due assunti fondamentali, intimamente connessi tra loro.

Innanzitutto «la legge regionale, benché ricca di riferimenti testuali alle esigenze di tutela dei beni culturali e del paesaggio, risulta improntata nel concreto ad una visione riduttiva dei predetti interessi, e in particolare per quanto riguarda la tutela del paesaggio, che risultano assorbiti e - per così dire – “diluiti” nell’ordinaria funzione di pianificazione urbanistica, senza assicurare la differenziazione e la prevalenza della disciplina di tutela».

Da ciò deriverebbe – ed è il secondo profilo – che il Piano regionale con valenza paesaggistica (PTR) perderebbe quel ruolo di “Costituzione del paesaggio e del territorio” che gli è invece riconosciuto nel sistema nazionale della tutela del paesaggio, vincolante anche per la Regione Siciliana,

Tale piano paesaggistico «esprime le scelte di fondo della pianificazione futura del territorio e deve porsi evidentemente e necessariamente in una dimensione temporale di stabilità e di lungo periodo. Conseguentemente, un po’ come avviene per la Costituzione nel sistema delle fonti normative, la modifica del predetto piano deve richiedere procedure non ordinarie, ma “rinforzate” e aggravate, che consentano da un lato una più approfondita e meditata valutazione, dall’altro lato una più ampia condivisione, acquisita con la partecipazione determinante di una pluralità di attori istituzionali, che trascenda la singola compagine politico-amministrativa regionale che, in un determinato momento politico-istituzionale, si trova a essere titolare della funzione».

I parametri di legittimità costituzionale invocati sono costituti dall’art. 9 e dall’art. 117, c. 2, lett. l) ed s) della Costituzione. Essi sono integrati, quali parametri interposti, «dai principi fondamentali sottesi al Codice dei beni culturali e del paesaggio (in particolare gli articoli 135, 143, 145), di stretta derivazione dall’art. 9 della Costituzione».

 La legislazione della Regione Siciliana, pur godendo di un particolare grado di autonomia in materia di tutela dei beni culturali e del paesaggio, trova un preciso limite nelle previsioni del Codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, qualificabili come “norme di grande riforma economico-sociale”, che si impongono anche alle Autonomie speciali (Corte Cost., sentenza n. 238 del 2013).

Secondo il Governo, l’impianto della legge regionale non garantirebbe né la necessaria separatezza e distinzione tra le funzioni di tutela paesaggistica e quelle di disciplina urbanistica, né la rigidità e immodificabilità a opera dell’ordinaria pianificazione urbanistica della disciplina d’uso dei beni paesaggistici, stabilita nei relativi provvedimenti di vincolo (ai sensi degli articoli 140, comma 2, e 141bis del Codice dei beni culturali e del paesaggio) ovvero in sede di pianificazione paesaggistica (ai sensi degli articoli 135 e 143 del medesimo Codice).

Per questo la legge regionale si porrebbe in contrasto con il principio fondamentale posto dall’articolo 9 della Costituzione, in forza del quale la tutela dei beni culturali e del paesaggio costituisce un interesse costituzionale primario e assoluto (Corte cost. n. 367 del 2007), necessariamente sovraordinato e differenziato rispetto all’ordinaria funzione di disciplina dell’uso del territorio.

I principi fondamentali ricavabili dal Codice dei beni culturali e del paesaggio impongono che la disciplina d’uso dei beni paesaggistici sottoposti a tutela sia frutto di valutazioni tecnico-discrezionali riconducibili all’Amministrazione specificamente preposta alla tutela (nel caso della Regione Siciliana, l’Assessorato regionale dei beni culturali e dell’identità siciliana), abbia separata evidenza rispetto alla disciplina delle aree non vincolate e — ciò che più conta — sia intangibile ad opera dell’ordinaria pianificazione urbanistica e dei piani di settore.

Nella Regione Siciliana, dotata di potestà legislativa e amministrativa in materia di tutela dei beni culturali e del paesaggio, il predetto principio di co-pianificazione obbligatoria, pur non potendo esprimersi nelle medesime forme previste per le regioni a statuto ordinario, ossia mediante la compartecipazione necessaria dello Stato alle scelte in materia di paesaggio, deve ugualmente essere salvaguardato. Ciò deve necessariamente avvenire assicurando che il piano paesaggistico sia elaborato congiuntamente e condiviso integralmente con il competente Assessorato dei beni culturali e dell’identità siciliana, il quale deve assumere, nel contesto regionale, una posizione differenziata e autonoma rispetto a quella dell’Assessorato regionale del territorio e dell’ambiente, e deve conseguentemente essere messo in condizione di svolgere un effettivo ruolo di presidio dell’interesse alla tutela del paesaggio corrispondente a quello demandato al Ministero per i beni e le attività culturali nell’ambito delle regioni non dotate di autonomia in materia.

Il piano urbanistico-territoriale regionale deve, inoltre, esaurire tutti i contenuti propri del piano paesaggistico (articoli 135 e 143 del Codice di settore) e deve dare separata evidenza alla disciplina d’uso dei beni paesaggistici, assicurandone la prevalenza, in ogni caso, rispetto alla pianificazione urbanistica e di settore, nonché l’assoluta immodificabilità con gli ordinari procedimenti di variante urbanistica.

2.1. La prima norma oggetto di impugnazione è l’art. 8, comma 5, secondo la quale «Per assicurare la flessibilità del sistema della pianificazione, il piano di ampiezza territoriale minore può contenere esplicite proposte di modifiche al piano di ampiezza territoriale maggiore, qualora sia acquisito l’accordo del relativo ente con le procedure di concertazione previste dalla presente legge».

La norma non esclude il piano paesaggistico dai piani “di ampiezza territoriale maggiore” modificabili da quelli di ampiezza minore, con ciò ponendosi in contrasto con il principio di gerarchia dei piani stabilito dall’art. 145, comma 5, del Codice di settore.

Il Codice dei beni culturali e del paesaggio assegna al piano paesaggistico il ruolo di strumento primario di disciplina e tutela del territorio, tanto che il carattere cogente delle sue disposizioni si impone sul contenuto degli altri strumenti di pianificazione eventualmente difformi.

Il predetto principio verrebbe posto nel nulla dalla previsione, contenuta nel richiamato articolo 8, comma 5, secondo la quale il PTR, pur prevalendo sugli strumenti di pianificazione urbanistica, assume carattere flessibile ed è esposto a ordinarie procedure di variante, peraltro avviate anche in sede di approvazione di uno strumento sotto ordinato. E ciò senza alcuna distinzione tra le previsioni del PTR che si riferiscono ad ambiti non tutelati e quelle che recano la disciplina d’uso dei beni paesaggistici.

2.2. Gli articoli 15, commi 1 e 2, e 19, commi da 1,2, 3, 4, 5 e 6 lettera f), dedicati alla pianificazione territoriale regionale, appaiono sovvertire il modello di piano paesaggistico attualmente vigente in Sicilia, elaborato dall’Assessorato dei beni culturali e dell’identità siciliana e di cui alle Linee guida del Piano paesistico territoriale regionale - PTPR approvate con D.A. n. 6080 del 21 maggio 1999.

Nelle predette Linee guida si precisa che la Regione Siciliana, nell’individuazione delle modalità di esercizio dell’azione amministrativa derivante dalle attribuzioni ad essa conferite, si è determinata con l’art. 3 della legge regionale n. 80 del 1977, stabilendo che «tutte le attribuzioni di competenza della Regione nella materia dei beni culturali e ambientali sono svolte dall’assessorato Regionale dei Beni culturali e ambientali e della pubblica istruzione, che esercita le funzioni previste dal suddetto D.P.R. 30 agosto 1975, n. 637».

 La nuova disciplina prevista nella legge regionale impugnata, invece, prevede, all’art. 15, commi 1 e 2, che L’Assessorato regionale del territorio e dell’ambiente, in relazione alle competenze istituzionali proprie, di concerto con l’Assessorato regionale dei beni culturali e dell’identità siciliana, anche avvalendosi dei dati del SITR, elabora ed aggiorna il Piano territoriale regionale con valenza paesaggistica (PTR) di cui al Titolo IV.

La nuova disciplina regionale, pertanto, incardina il PTR e la definizione delle relative Linee guida nell’Assessorato regionale del territorio e dell’ambiente, assegnando un ruolo meramente concertante all’Assessorato regionale dei beni culturali e dell’identità siciliana, che viene addirittura escluso dalla gestione dello stesso Piano.

Anche sotto tale profilo la soluzione adottata dal legislatore regionale sarebbe distonica rispetto a quelle della disciplina statale.

Questa ha imposto una distinzione, già sul piano organizzativo, tra l’ufficio che si occupa della tutela paesaggistica e quello che ha competenza in materia urbanistica, allo scopo di evitare che la valutazione urbanistica possa condizionare quella paesaggistica.

Tale soluzione, secondo il Governo, realizza non solo una distinzione di funzioni, ma garantisce l’attribuzione delle due funzioni a due soggetti diversi, «assicurando che l’Amministrazione preposta alla tutela del paesaggio non sia posta in un ruolo meramente ancillare rispetto a quella dotata di competenza urbanistica, come emerge invece dall’impianto della legge regionale in esame».  

Una indicazione in tal senso è ricavabile anche dalla giurisprudenza amministrativa: «La doverosa distinzione organizzativa (...) riflette la distinzione sostanziale tra la funzione di tutela del paesaggio e quella di governo del territorio o urbanistica: è una distinzione che ha base nell’art. 9 della Costituzione (e oggi è confermata dall’art. 117, secondo comma, lett. s), Cost.) e che è rimarcata dalla costante giurisprudenza specie costituzionale (a muovere da Corte cost., 24 luglio 1972, n. 141 e, ad es., a Corte cost., 23 novembre 2011, n. 309)” (Consiglio di Stato, n. 2784 del 2015).

2.3. L’articolo 21 disciplina il procedimento di formazione del Piano territoriale regionale, mediante conferenze di pianificazione (commi 3, 4 e 5), stabilendo anche una durata del piano e il suo aggiornamento (comma 7).

Tale previsione, secondo i rilievi del Governo, presenterebbe tre diversi profili di illegittimità.

In primo luogo «il previsto iter di approvazione tramite “conferenza di pianificazione”, alla quale partecipa un numero larghissimo di soggetti, rende nei fatti la rappresentatività delle istanze legate ai beni culturali e al paesaggio nettamente minoritaria, ciò che appare in contrasto con il valore primario e assoluto assegnato al paesaggio dall’art. 9 della Costituzione (Corte cost., sentenza n. 367 del 2007)».

Inoltre, quanto ai commi 1 e 2, si rilevano i medesimi profili di incostituzionalità già evidenziati in relazione agli articoli 15, commi 1 e 2, e 19, relativi all’assegnazione delle competenze all’Assessorato regionale del territorio e dell’ambiente anziché al competente Assessorato dei beni culturali e dell’identità siciliana.

Infine, il comma 7 fissa in dieci anni la durata del PTR, disponendone l’aggiornamento ogni cinque anni o anche in qualsiasi momento prima di tale termine, su istanza dei comuni o altri enti pubblici interessati o soggetti privati rappresentativi di interessi collettivi o diffusi, anche ai sensi delle risultanze del documento di programmazione economico-finanziaria regionale (DEF).

Secondo il Governo «La fissazione di una durata decennale del PTR appare illegittima, in quanto non trova fondamento in analoga previsione del Codice, né nel sistema dei vincoli paesaggistici i quali, a differenza dei vincoli urbanistici, sono permanenti e non sono neppure sottoponibili a revoca o revisione da parte del Piano (cfr. art. 140, comma 2, del Codice di settore)».

In questo modo si contraddirebbe il ruolo di “Costituzione del paesaggio” proprio del piano paesaggistico, che dovrebbe garantire la stabilità del regime di tutela dei beni paesaggistici.

I profili di illegittimità indicati sarebbero poi aggravati dalla mancanza, nella legge in esame, di una disciplina transitoria che affronti il rapporto e l’eventuale passaggio tra il sistema attuale e quello previsto con il PTR.

2.4. Gli articoli 22, 25 e 26, comma 4 disciplinano i «Contenuti del piano territoriale consortile (PTC) e del piano della Città metropolitana (PCM)” (art. 22) e i “Contenuti del piano urbanistico generale comunale (PUG)» (art. 25).

I primi due assegnano ai predetti strumenti anche il compito - rispettivamente - di dettare disposizioni volte ad assicurare la tutela e la valorizzazione dei beni ambientali e culturali presenti sul territorio (art. 22, comma 2, lett. d) e di individuare i beni paesaggistici, ambientali, culturali e storico-architettonici da sottoporre a tutela e ne specificano il relativo regime normativo compatibile con la tutela di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 e successive modificazioni, anche nelle aree sottoposte a vincolo paesaggistico e nei manufatti sottoposti a vincolo storico-artistico (art. 25, comma 3, lett. l).

Il successivo art. 26, recante il “Procedimento di formazione ed approvazione del PUG e delle relative varianti”, stabilisce, al comma 4, che «Entro il termine di novanta giorni dall’avvio del procedimento, il comune, tenendo conto dell’atto di indirizzo dell’amministrazione e dei contributi eventualmente pervenuti, elabora un documento preliminare del PUG che: (..) f) descrive le risorse territoriali e naturali e identifica i beni culturali e paesaggistici da considerare quali invarianti e determinanti per le scelte di sviluppo».

Tale disciplina affida alla pianificazione urbanistica comunale la definizione in concreto della disciplina d’uso dei beni paesaggistici, che dovrebbe invece essere svolta dal piano paesaggistico, al quale deve essere attribuita una posizione sovraordinata e preminente rispetto agli strumenti urbanistici comunali. Essa così si porrebbe in contrasto con gli articoli 135, 136, 143 e 145 del Codice di settore, che rilevano quali norme interposte rispetto alla violazione dell’articolo 14 dello Statuto speciale e dell’articolo 117, secondo comma, lett. s), della Costituzione.

2.5. L’articolo 27 concerne la disciplina del patrimonio culturale dei beni isolati, i quali - ancora una volta - sono individuati esclusivamente nel piano urbanistico comunale generale (PUG), anche con riferimento agli interventi e alla destinazione d’uso.

La previsione è considerata incostituzionale poiché non contiene una disciplina di raccordo con il Codice di settore, senza fare espressamente salvo il regime di tutela dei beni vincolati ai sensi della parte seconda del Codice, art. 134, 135, 136, 143 e 145 e, con riferimento ai beni paesaggistici, non limitandosi ad ammettere gli interventi soltanto nei casi e limiti previsti dal piano paesaggistico.

2.6. Altra disposizione impugnata è quella di cui all’articolo 36 che, nel disciplinare gli “Interventi di compensazione urbanistica a tutela dell’ambiente”, stabilisce, al comma 3, che «Nell’ipotesi di delocalizzazione o riqualificazione di siti produttivi dismessi o di manufatti in degrado o incongrui, in quanto suscettibili, per impatto visivo, per dimensioni planivolumetriche o per caratteristiche tipologiche e funzionali, di snaturare o di alterare in modo permanente la caratteristica di un luogo, della sua identità storica, culturale o paesaggistica, la compensazione si connota come paesaggistico-ambientale e consiste nell’attribuzione premiale di diritti edificatori ai proprietari interessati. L’attribuzione di tali diritti edificatori può essere finalizzata al recupero dei costi di bonifica dei siti industriali dismessi per la fornitura di servizi eco sistemici nelle zone rurali del territorio comunale.

Essa presenterebbe profili di illegittimità per un duplice ordine di ragioni.

In primo luogo, per ciò che attiene alla delocalizzazione di volumi “incongrui”, con l’incentivazione di un premio volumetrico, essa si presterebbe a introdurre una forma surrettizia di condono edilizio.

Tale carattere “incongruo” può, infatti, facilmente dipendere dall’abusiva realizzazione delle opere e, d’altro canto, la norma regionale non ha cura di limitare il proprio ambito applicativo ai soli volumi legittimamente realizzati, così violando l’art. 14, primo comma, lettera f), dello Statuto speciale e dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost.

I casi e limiti della sanatoria delle opere abusive sono, infatti, stabiliti dalla legge statale (artt. 36 e 37 del d.P.R. n. 380 del 2001, oltre alle norme eccezionali di condono edilizio emanate in passato) e si impongono anche alle regioni a Statuto speciale. Nel caso di specie, l’introduzione di una surrettizia forma di condono edilizio eccederebbe la competenza legislativa esclusiva attribuita alla Regione in materia di urbanistica dall’art. 14, primo comma, lettera f), dello Statuto, con conseguente invasione della sfera di competenza esclusiva statale in materia di «ordinamento penale» di cui all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost, anche alla luce della giurisprudenza della Corte costituzionale in materia (sentenze nn. 232, 107 e 50 del 2017, n. 233 del 2015, n. 101 del 2013, n. 196 del 2004).

Sotto altro profilo, la disposizione censurata, nella parte in cui rimette in capo alla collettività i costi di bonifica di siti industriali dismessi,  confliggerebbe con il principio fondamentale del c.d. “chi inquina paga”; per tale ragione essa si porrebbe in contrasto con l’articolo 14 dello Statuto speciale e con l’art. 117, primo comma della Costituzione, con riferimento all’art. 191, paragrafo 2, del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), il quale espressamente prevede che la politica dell’Unione in materia ambientale è fondata, fra l’altro sul principio “chi inquina paga”, nonché all’art. 1 della direttiva 2004/35/CE del 21 aprile 2004 sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale.

La disposizione in esame violerebbe l’articolo 14 , lettera b) dello Statuto speciale e l’art. 117, secondo comma, lett. s), della Costituzione, in riferimento agli artt. 3-ter, 242, 242-bis e 244 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, recante “Norme in materia ambientale”, dai quali emerge come la tutela dell’ambiente e degli ecosistemi naturali (oltreché del patrimonio culturale) deve essere garantita da tutti gli enti pubblici e privati e dalle persone fisiche e giuridiche pubbliche o private mediante una adeguata azione che sia informata, fra l’altro al principio del «chi inquina paga». Nel dettaglio, con riferimento agli interventi di bonifica di siti inquinati, i citati artt. 242, 242-bis e 244 del decreto legislativo n. 152 del 2006, precisano che gli stessi gravano sul responsabile della contaminazione, cioè sul soggetto al quale sia oggettivamente imputabile l’inquinamento in quanto lo abbia causalmente determinato.

Anche in questo caso si rammenta la giurisprudenza costituzionale che conferma la soggezione anche della Regione Siciliana al principio “chi inquina paga” (sentenza n. 93 del 2017) così come la qualificabilità delle disposizioni adottate dallo Stato nella materia di competenza esclusiva «tutela dell’ambiente» e dell’ecosistema quali norme di riforma economico-sociale, capaci di imporsi, come tali, anche alle Regioni a statuto speciale (sentenza n. 198 del 2018). Ciò in quanto la disciplina statale relativa alla tutela dell’ambiente costituisce un limite alla disciplina che le Regioni e le Province autonome dettano in altre materie di loro competenza» (sentenza n. 67 del 2010), anche ove si tratti (...) di competenze esclusive (Corte cost. n. 232 del 2017).

2.7. L’articolo 37, che contiene disposizioni di tutela e pianificazione del territorio rurale e di tutela dei boschi e delle foreste risulterebbe censurabile con riferimento ai commi 3, 4, 5, 6 lettere c) e d), 7, 8 e 9.

In particolare, il comma 3 subordina la realizzazione di tutti gli interventi edilizi nel territorio rurale al rispetto delle «specifiche norme di tutela del paesaggio rurale indicate da apposite linee guida approvate con decreto dell’Assessore regionale per il territorio e l’ambiente di concerto con l’Assessore regionale per l’agricoltura, lo sviluppo rurale e la pesca mediterranea».

Al riguardo, si rileva che la disciplina di tutela del paesaggio rurale di riferimento deve essere quella del piano paesaggistico, al quale più opportunamente la norma dovrebbe rinviare. Al fine di assicurare la tutela del paesaggio rurale nelle more dell’approvazione del piano, si ritiene legittimo il rinvio alle linee guida, da recepirsi poi nel predetto strumento, che dovrebbero però essere elaborate dall’Assessorato competente in materia di tutela del paesaggio.

Il comma 4 prevede poi che «Nelle more dell’approvazione del decreto di cui al comma 3, sugli immobili ricadenti all’interno del territorio rurale di cui al comma 2, sono consentiti esclusivamente gli interventi di recupero e riqualificazione delle volumetrie esistenti, che risultino catastate alla data di entrata in vigore della presente legge, e gli ampliamenti per l’insediamento di attività agrituristiche di cui al comma 5. E altresì consentito, previa autorizzazione delle amministrazioni competenti, il mutamento della destinazione d’uso di fabbricati realizzati con regolare titolo abilitativo, ancorché non ultimati, a destinazione ricettivo-alberghiera e di ristorazione e per l’insediamento delle attività di bed and breakfast, agriturismo ed annesse attività di ristorazione ove sia verificata la compatibilità ambientale della nuova destinazione ed il rispetto di tutte le prescrizioni igienico-sanitarie nonché di sicurezza».

La disposizione consente, quindi, il recupero e la riqualificazione delle volumetrie “catastate”, indipendentemente dal fatto che tali volumetrie siano state legittimamente realizzate ovvero siano abusive. Il cambio di destinazione d’uso, seppur limitato ai soli manufatti legittimamente realizzati, è consentito senza attendere né la pianificazione paesaggistica né le linee guida di cui al comma 3, ossia al di fuori di qualsiasi disegno pianificatorio, e ciò anche in ambiti sottoposti a tutela.

Il comma 6 prevede che il PUG individua e classifica con adeguate perimetrazioni il territorio rurale, articolandolo in zone, per ognuna delle quali sono stabiliti parametri limitativi, senza alcun richiamo espresso al necessario rispetto della normativa di tutela del paesaggio rurale.

I commi 5, 7, 8 e 9 consentono rilevanti trasformazioni degli edifici rurali.

Con tali previsioni, sostanzialmente, si ammette un considerevole e indiscriminato incremento di cubatura (dieci o trenta per cento), in contrasto con gli obiettivi generali della “tutela del paesaggio rurale” e del “contenimento del consumo di suolo”, e consentendo il superamento ex lege delle previsioni della pianificazione paesaggistica. Si permette inoltre la trasformazione indiscriminata degli edifici rurali per attività di ristorazione e intrattenimento.

Le suddette previsioni presenterebbero profili di illegittimità costituzionale sotto due profili.

Innanzitutto, rileva il Governo, gli incrementi volumetrici e i cambi di destinazione d’uso sono consentiti in modo indiscriminato, anche su immobili soggetti a tutela quali beni culturali o paesaggistici, senza essere valutati nel quadro necessario della pianificazione paesaggistica.

In secondo luogo, l’incremento volumetrico è previsto a regime, rispetto alla cubatura “esistente”, senza richiedere che i volumi esistenti siano stati legittimamente realizzati, e senza stabilire neppure a quale data debba riferirsi tale esistenza. 

3. La Legge regionale 14 ottobre 2020, n. 23 recante Modifiche di norme in materia finanziaria, la legge regionale 3 dicembre 2020, n. 29 recante Norme per il funzionamento del Corpo Forestale della Regione siciliana, la legge regionale 28 dicembre 2020, n. 33 contenente Variazioni al bilancio di previsione della Regione per l’esercizio finanziario 2020 e per il triennio 2020-2022. Modifiche di norme in materia di stabilizzazione del personale precario e la legge 30 dicembre 2020, n. 36 contenente Disposizioni urgenti in materia di personale e proroga di titoli edilizi. Disposizioni varie sono tutte impugnate dal Governo perché ritenute in contrasto con l’articolo 81, terzo comma, della Costituzione e, le ultime due, anche per violazione del principio di annualità del bilancio di cui all’art. 81, quarto comma.

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