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La pretesa impossibilità di invocare le violazioni della CEDU come motivo di ricorso in cassazione: quale fondamento giuridico? (3/2021)

Corte di Cassazione penale (Sezioni Unite), sentenza 18923/2021 

La sentenza n. 18923 del 2021 trae origine da un procedimento penale per illeciti disciplinari, di cui al D. Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, art. 4, comma 1, lett. d), in relazione agli artt. 186, commi 1 e 2 lett. c) e 2 sexies del codice della strada e 337, 582, 576 e 585 c.p., a carico di un magistrato, il quale, messosi alla guida in stato di ebbrezza da assunzione di alcool, aveva usato violenza nei confronti degli agenti della Polizia Municipale che cercavano di accertare l’illecito. Con sentenza n. 130 del 2020, il Consiglio Superiore della Magistratura, nella sua sezione disciplinare, lo aveva condannato alla sanzione della sospensione dalle funzioni per due anni e del trasferimento presso altra sede con obbligo di svolgimento di funzioni solo civili, dopo che la Corte di Cassazione si era pronunciata definitivamente in sede penale, dichiarando, con la sentenza n. 4936/2020, estinti i reati di resistenza a pubblico ufficiale e di lesioni personali aggravate ma, al contempo, rigettando tutti gli altri motivi di ricorso dell’imputato, confermando dunque la ricostruzione dei fatti come operata dal giudice di merito. Il ricorrente agiva dinanzi alla Corte di Cassazione sollevando quindici motivi di impugnazione nei confronti della sentenza disciplinare a suo carico.

 

Sul fronte del rapporto tra fonti interne e fonti sovranazionali, viene in rilievo, in particolare, il quindicesimo motivo di impugnazione con il quale il ricorrente ha denunciato, tra l’altro, l'inosservanza e/o l’erronea applicazione - ex art. 606 lett. b) - c.p.p. degli artt. 6 par. 1 e 2 e 8 della Convenzione europea dei diritti umani (CEDU)[1]. In particolare, per quel che riguarda l’art. 6 CEDU, il ricorrente ha lamentato l’invalidità della sentenza censurata e del procedimento disciplinare a monte per la violazione dei principi di equità della procedura, di parità delle armi, di autonomia ed imparzialità del giudizio, contestando, inter alia, la sua durata ultradecennale e l’utilizzazione in malam partem di elementi tratti da procedimenti penali diversi a carico del ricorrente, precedenti e successivi. Sul versante dell’art. 8 CEDU, invece, il ricorrente ha contestato ingerenze sproporzionate nella sua sfera reputazionale, familiare e professionale.

Rispetto a tali argomenti, le SSUU, nella sentenza in epigrafe, hanno contestato la totale genericità delle deduzioni del ricorrente, avendo egli omesso di precisare le condotte che avrebbero contravvenuto alle richiamate prescrizioni internazionali, con la conseguenza che le sue allegazioni sfociavano in una generica critica del sistema della giustizia disciplinare dei magistrati. La Corte ha inoltre osservato che la conformità di tale sistema ai principi della CEDU trovava conferma in precedenti sentenze della Corte europea dei diritti umani che valorizzavano, tra l’altro, aspetti specifici della disciplina di quel sistema come l'impossibilità di rimuovere i singoli componenti dell’organo per tutta la durata del mandato, l'assenza di un legame di dipendenza gerarchica o di altro tipo rispetto ai loro pari e la loro elezione a scrutinio segreto. Valorizzando la suddetta interpretazione della Corte europea, le SSUU hanno escluso che il procedimento disciplinare presentasse profili di incompatibilità con i principi di indipendenza e imparzialità, ai sensi dell’art. 6 CEDU[2]. Per quanto riguarda, poi, le altre deduzioni mosse dal ricorrente, queste sono state tutte respinte in ragione della loro genericità e dell’omessa allegazione di elementi comprovanti le violazioni e i difetti motivazionali denunciati. Le SSUU hanno dunque escluso possibili violazioni della CEDU, rilevando che la denuncia aveva investito pretesi errores in procedendo ovvero in iudicando del giudice disciplinare “la cui denunciabilità è adeguatamente assicurata dalle ordinarie regole di impugnazione delle decisioni disciplinari, e sulla base delle norme di diritto interno”[3]. Quest’ultimo richiamo alle norme di diritto interno ha condotto le SSUU ad una precisazione incidentale problematica – e qui si giunge al profilo critico della sentenza in epigrafe – che peraltro esula dall’esigenza motivazionale del caso. Infatti, richiamando un passaggio nel quale le celebri sentenze gemelle della Corte Costituzionale (sentenze n. 348 e 349 del 2007)[4] spiegavano la differenza tra diritto dell’Unione europea (UE) e diritto internazionale – e segnatamente escludevano il potere di disapplicazione del giudice interno in caso di conflitto tra norme interne e norme internazionali (potere che il giudice può esercitare solo nel caso del contrasto tra diritto interno e norme dell’UE) – le SSUU hanno affermato che: “la CEDU non crea un ordinamento giuridico sopranazionale e non produce quindi norme direttamente applicabili negli stati contraenti, configurandosi piuttosto come un trattato internazionale multilaterale, da cui derivano obblighi per gli stati contraenti, ma non l’incorporazione dell’ordinamento giuridico nazionale in un sistema più vasto, da cui gli organi deliberativi possano promanare norme direttamente vincolanti per le autorità interne”[5]. Perseguendo questo percorso argomentativo, la sentenza ha poi concluso che “non è ammissibile la diretta denuncia di violazione di una norma della Convenzione quale vizio rilevante ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. b), potendosi semmai invocare la norma convenzionale o come criterio interpretativo di una norma nazionale direttamente applicabile, o quale norma interposta, ai sensi dell'art. 117 Cost., che giustifichi il dubbio di costituzionalità della norma nazionale”. Questa conclusione, espressa in termini radicali, è criticabile perché non considera che l’ordine di esecuzione, ossia lo strumento che garantisce l’attuazione dei trattati internazionali nell’ordinamento interno, rende la maggior parte delle norme dei trattati internazionali, per lo meno tutte quelle che non necessitano di norme nazionali integrative per garantirne la diretta applicazione da parte degli organi nazionali, invocabili dagli individui al fine di far valere le situazioni giuridiche da esse ricavabili davanti agli organi amministrativi e giurisdizionali nazionali[6]. Peraltro, il richiamo alle sentenze gemelle non sembra utile se si considera che il limite all’applicabilità delle disposizioni della CEDU che è stato in esse teorizzato non esclude in via generale il potere del giudice nazionale di applicare la CEDU nei giudizi interni. Infatti, nella prospettiva delle sentenze gemelle, è solo nei casi in cui si verifica un conflitto tra norme interne e norme convenzionali che il potere del giudice comune incontra un limite all’applicazione delle norme CEDU, non potendo il giudice comune sostituirsi alla Corte Costituzionale nella valutazione di costituzionalità delle leggi. In sostanza, tale limite si giustifica per l’esigenza di salvaguardare il sistema di controllo accentrato della costituzionalità delle leggi che fa perno, come è noto, sul potere esclusivo della Corte Costituzionale di annullare le norme interne incompatibili con la CEDU per violazione dell’art. 117, comma 1, Cost. Pare chiaro, quindi, che la pretesa impossibilità di valorizzare le violazioni delle disposizioni della CEDU quale vizio rilevante ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. b) non possa trovare fondamento nell’interpretazione della Consulta cui le SSUU hanno fatto richiamo, né si giustifica nella logica del rapporto tra fonti interne e fonti sovranazionali da essa delineato.

 

[1] L’art. 606 cpp recita: “Il ricorso per Cassazione può essere proposto per i seguenti motivi: (…) b) inosservanza o erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche, di cui si deve tener conto nell’applicazione della legge penale”.

[2] Le SSUU hanno in particolare menzionato la sentenza della Corte europea resa in data 9 luglio 2013 nel ricorso n. Ric. 2020 n. 51160/2006, nel caso “Di Giovanni c. Italia”.

[3] Vedi p. 29 della sentenza.

[4]  Per alcuni commenti sull’interpretazione resa dalla Consulta nelle celebri sentenze gemelle e sulla sua evoluzione nei dieci anni successivi, si rinvia allo speciale “I trattati nel sistema delle fonti a dieci anni dalle sentenze 348 e 349 del 2007 della Corte Costituzionale” pubblicato su questa Rivista (fasc. 1/2018), https://www.osservatoriosullefonti.it/archivi/archivio-saggi/speciali/speciale-i-trattati-nel-sistema-delle-fonti-a-10-anni-dalle-sentenze-348-e-349-del-2007-della-corte-costituzionale-fasc-1-2018.

[5] Ibidem.

[6] Cfr., tra i moltissimi contributi della dottrina, L. Condorelli, Il giudice italiano e i trattati internazionali: gli accordi self-executing e non self-executing nell’ottica della giurisprudenza, Padova, 1974; R. Baratta, L’effetto diretto delle disposizioni internazionali self-executing, in Rivista di diritto internazionale, 2020, p. 4 ss.

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