In materia previdenziale il tema dell’affidamento dei cittadini nella sicurezza dei rapporti giuridici[1] viene generalmente in rilievo in una prospettiva ex post, ossia con riguardo ad un trattamento pensionistico in corso di svolgimento di cui si lamenta la modificazione in pejus da parte di una misura legislativa che blocca o rallenta la perequazione automatica, oppure introduce un contributo di solidarietà sulle pensioni più alte.
Una recente decisione dell’organo di primo grado del sistema di autodichia del Senato consente, invece, di guardare al problema da un diverso angolo visuale, che è quello – ex ante – del (denegato) diritto ad accedere ad un trattamento pensionistico di cui non si sta ancora beneficiando, ma del quale si sono già definitivamente maturati i requisiti.
L’occasione è offerta dai ricorsi presentati alla Commissione contenziosa avverso la deliberazione n. 35 del 24 novembre 2020[2] con cui il Consiglio di Presidenza, fra le altre cose, limita gli accessi al pensionamento anticipato per il biennio 2021-2022 ad un numero di dipendenti pari al 2 per cento della complessiva dotazione di personale.
La delibera intende in tal modo sopperire alla carenza di personale che affligge l’organico del Senato e che la pandemia ha reso ancor più acuta per l’impossibilità di dare seguito alle procedure concorsuali già bandite per il reclutamento di nuova forza lavoro; essa va dunque inquadrata tra le misure adottate dall’organo costituzionale per rispondere all’impatto che l’emergenza sanitaria ha avuto sull’esercizio non solo delle sue funzioni primarie[3], ma più in generale di tutta l’attività di amministrazione interna.
Per individuare la quota di ammessi al collocamento a riposo – a cui si accede in due finestre che si aprono, rispettivamente, il 1° gennaio e il 1° luglio – la delibera stabilisce il criterio della maggiore anzianità contributiva e, a parità di questa, della maggiore anzianità anagrafica; una clausola di salvaguardia fa comunque salvo il collocamento in quiescenza per chi abbia particolari requisiti legati all’anzianità o alle condizioni di salute.
I ricorrenti, tutti dipendenti del Senato che hanno maturato il diritto al pensionamento anticipato e presentato la relativa domanda per la finestra del 1° gennaio 2021, deducono l’illegittimità dei provvedimenti con cui il Direttore del Servizio del personale ha negato l’accoglimento delle loro istanze, in quanto adottati sulla base di una delibera inefficace – perché non resa esecutiva con decreto del Presidente del Senato – e lesiva del loro legittimo affidamento.
Il collegio giudicante ritiene fondate entrambe le censure. Con riguardo alla violazione dell’affidamento il giudice domestico evidenzia anzitutto come tra le note del Direttore del personale – adottate il 14 dicembre 2020 – che respingono le domande di pensionamento e la finestra per l’uscita – prevista il 1° gennaio 2021 – intercorra un lasso di tempo molto breve; sicché nel momento in cui la domanda viene rigettata, praticamente a ridosso del collocamento in quiescenza, l’aspettativa ad andare in pensione poteva dirsi a tal punto consolidata da assurgere a vero e proprio diritto quesito.
Peraltro, i ricorrenti erano tutti in possesso della c.d. “certificazione Pandolfelli”, ossia di quella documentazione interna che attesta in modo irrevocabile che il diritto alla pensione è «maturato e definitivamente acquisito», impedendo a disposizioni successive di modificare i requisiti per accedere al trattamento previdenziale.
Da questo punto di vista la decisione appare in linea con il costante orientamento della Corte costituzionale secondo cui «non è interdetto al legislatore di emanare disposizioni le quali modifichino sfavorevolmente la disciplina dei rapporti di durata, anche se il loro oggetto sia costituito da diritti soggettivi perfetti […]. Dette disposizioni però […] non possono trasmodare in un regolamento irrazionale e arbitrariamente incidere sulle situazioni sostanziali poste in essere da leggi precedenti, frustrando così anche l’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica (corsivo aggiunto), che costituisce elemento fondamentale e indispensabile dello Stato di diritto»[4].
È bensì vero, infatti, che la misura introdotta dal legislatore interno è giustificata dall’emergenza pandemica; determina un mero contingentamento dell’accesso al trattamento pensionistico e non un vero e proprio blocco; ha un durata – due anni – che è inferiore al ciclo triennale di bilancio, cioè al termine individuato dalla Corte costituzionale affinché misure del genere possano ritenersi legittime[5]; e consente in ogni caso di andare in pensione a chi versi in particolari condizioni (salute, anzianità). Sussistono, in altri termini, una serie di indici sintomatici che depongono – in prima approssimazione – a favore della complessiva ragionevolezza della delibera.
Ciò nondimeno, il sacrificio che essa impone alle posizioni giuridiche dei ricorrenti risulta irragionevolmente sproporzionato. Costoro, infatti, avevano ormai tutte le ragioni per ritenere certo il loro collocamento a riposo ad una data fissa e invece si sono visti vanificare irrimediabilmente un’aspettativa che del tutto legittimamente nutrivano, radicata com’era non solo sul valore riconosciuto nell’ordinamento del Senato alle richiamate “certificazioni Pandolfelli”, ma anche sull’effettivo esercizio del diritto maturato, dato che tutti gli interessati avevano presentato e non ritirato, nei termini, la domanda di accesso alla pensione.
Secondo il collegio giudicante, inoltre, la delibera censurata è inefficace perché adottata in mancanza del decreto del Presidente del Senato che avrebbe dovuto renderla esecutiva. Sotto questo profilo la decisione in commento si segnala, in particolare, per il fatto di accertare l’esistenza di una vera e propria consuetudine, formatasi a partire dalla terza legislatura repubblicana, in forza della quale l’esecutività delle delibere del Consiglio di Presidenza che innovano l’ordinamento interno richiede l’adozione di un – coevo o successivo – decreto presidenziale.
Un decreto, può aggiungersi, a cui la giurisprudenza parlamentare riconosce natura di atto meramente esecutivo e che pertanto, ove non sia affetto da vizi propri, va impugnato congiuntamente alla delibera cui dà esecuzione.
D’altra parte, che nell’ordinamento delle Camere possano formarsi simili consuetudini non è certo una novità; al contrario, è soprattutto nell’ambito degli istituti e dei rapporti disciplinati dal diritto parlamentare che esse trovano un tipico terreno d’azione, dato il «tasso particolarmente alto di politicità»[6] che caratterizza questo ramo del diritto.
La stessa Corte costituzionale, come noto, ha rilevato il «grande significato» di queste fonti sul piano dei rapporti tra gli organi costituzionali, in quanto «contribuiscono ad integrare le norme costituzionali scritte e a definire la posizione degli organi costituzionali, alla stregua di principi e regole non scritti, manifestatisi e consolidatisi attraverso la ripetizione costante di comportamenti uniformi»[7].
Né sembra un caso che tali affermazioni si rivengano nella (celebre) sentenza sulla mozione di sfiducia nei confronti di un singolo ministro[8]; istituto, questo, dapprima affermatosi in via di prassi all’interno delle Camere; poi consolidato nella forma di una vera e propria consuetudine costituzionale; e infine codificato nei regolamenti parlamentari[9].
A maggior ragione, dunque, non passa inosservato che nella parte motiva della decisione qui annotata la Commissione contenziosa si dica «sorpre[sa] non poco» della tesi sostenuta dalla difesa dell’Amministrazione sull’autosufficienza dell’impugnata delibera e sull’irrilevanza del relativo decreto, giacché «così facendo l’Amministrazione […] contraddice sé stessa con riferimento ai numerosissimi casi esistenti in materia».
Il passaggio richiamato vale a smentire la tradizionale tesi della vicinanza – quando non dell’appiattimento tout court – dei giudici domestici sulle posizioni della rispettiva Amministrazione. Non sono infrequenti, infatti, i casi in cui è questa a soccombere e trovano invece soddisfazione pretese di cui fondatamente si lamentava la lesione; le quali, vale la pena di ricordare, non avrebbero potuto essere fatte valere altrimenti.
A conferma, si direbbe, che l’autodichia degli organi costituzionali non è di per sé né buona, né cattiva[10], essendo ormai amministrata per il tramite di collegi interni «costituiti secondo regole volte a garantire la loro indipendenza ed imparzialità»[11]; il punto, semmai, è che essi diano costantemente prova della posizione di terzietà che la Corte costituzionale ha loro riconosciuto, giudicando secondo diritto e non alla stregua di altri parametri.
Infine, il giudice di primo grado del Senato non manca di sottolineare, in un’ottica di leale collaborazione “intra-istituzionale”, che l’Amministrazione può ben adottare misure come quella contestata, anche in mancanza di trattative con le organizzazioni sindacali, ove lo richiedano condizioni di emergenza.
Ammonisce, tuttavia, che tali interventi in tanto possono ritenersi legittimi, in quanto siano per l’appunto dettati da ragioni eccezionali; abbiano carattere transitorio; prevedano un adeguato intervallo di tempo per accedere alla prima finestra disponibile; siano resi esecutivi con decreto del Presidente del Senato. Nel caso di specie, proprio la mancanza di questi ultimi due requisiti si è rivelata determinante ai fini dell’accoglimento dei ricorsi.
[1] Su cui si veda, tra gli altri, P. Carnevale-G. Pistorio, Il principio di tutela del legittimo affidamento del cittadino dinanzi alla legge fra garanzia costituzionale e salvaguardia convenzionale, in Costituzionalismo.it, 1, 2014; nonché A. Ruggeri-C. Salazar, Certezza del diritto, in S. Cassese(diretto da), Dizionario di diritto pubblico, Giuffrè, Milano, 2006.
[2] Recante «Indirizzi alla Rappresentanza permanente per lo svolgimento di trattative con le Organizzazioni sindacali per l’adeguamento della disciplina vigente in Senato in materia di congedi parentali e l’armonizzazione di requisiti per l’accesso al pensionamento».
[3] Sulla funzionalità del Parlamento con riguardo all’esercizio della funzione legislativa e del controllo sull’operato del Governo si vedano i contributi pubblicati nel Quaderno 2020 de Il Filangieri, Il Parlamento nell’emergenza pandemica, Jovene, 2021. Cfr. inoltre N. Lupo, L’attività parlamentare in tempi di coronavirus, in Forum di Quaderni Costituzionali, 2, 2020; nonché A. Malaschini-M. Pandolfelli, Partecipazione ai lavori a distanza da parte dei parlamentari: un possibile percorso, in Forum di Quaderni Costituzionali, 4, 2020. Per una prospettiva comparata cfr. F. Rosa, Parlamenti e pandemia: una prima ricostruzione, in DPCE online, 2, 2020. Su un piano più generale le ricadute della pandemia nell’ordinamento vengono esaminate da R. Romboli, L’incidenza della pandemia da Coronavirus nel sistema costituzionale italiano, in Consulta online, 5 ottobre 2020.
[4] Corte costituzionale, sentenza n. 349 del 1985.
[5] Ex multis, Corte costituzionale, sentenza n. 234 del 2020.
[6] L. Gianniti-N. Lupo, Corso di diritto parlamentare, Bologna, il Mulino, 2008, 60.
[7] Corte costituzionale, sentenza n. 7 del 1996. Sul ruolo della giurisprudenza costituzionale nella definizione di tali fonti cfr. P. Carnevale, A Corte... così fan tutti? Contributo ad uno studio su consuetudine, convenzione e prassi costituzionale nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in Rivista AIC, 4, 2014. Si veda inoltre G.U. Rescigno, Consuetudine costituzionale, in Diritto on line, Treccani.it, 2014.
[8] Questa pronuncia è stata oggetto di un intenso dibattito tra AA.VV., Sei domande ai costituzionalisti provocate dal caso Mancuso, in Giur. cost., 1995.
[9] Sull’evoluzione dell’istituto cfr. amplius S. Mallardo, Profili ricostruttivi dell’istituto della sfiducia individuale e del potere di revoca in epoca repubblicana, in federalismi.it, 27, 2020.
[10] Come ho provato ad argomentare più diffusamente in L. Castelli, L’autodichia degli organi costituzionali. Assetti, revisioni, evoluzioni, Torino, Giappichelli, 2019, 3 ss.
[11] Corte costituzionale, sentenza n. 262 del 2017.