Sentenza n. 231/2021 – giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale
Deposito del 02/12/2021 – Pubblicazione in G.U. 09/12/2021 n. 49
Motivo della segnalazione
Con la sentenza n. 231/2021 la Corte costituzionale ha rigettato una questione di costituzionalità degli artt. 4, comma 1, e 6, comma 1, del d.lgs. 2 ottobre 2018, n. 121, recante disciplina dell’esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni ed emanato in attuazione della delega di cui all’art. 1 della legge 23 giugno 2017, n. 103.
Le disposizioni impugnate prevedono che se la pena detentiva da eseguire non supera i quattro anni il condannato può essere affidato all’ufficio di servizio sociale per i minorenni; la pena detentiva da eseguire in misura non superiore a tre anni, invece, può essere espiata nella propria abitazione o in altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza o presso comunità. Secondo il giudice a quo, tali disposizioni, che per i condannati minorenni subordinano l’accesso alle misure alternative a condizioni analoghe a quelle previste per gli adulti, violerebbero gli artt. 3, 27, terzo comma, e 31, secondo comma, Cost.; risulterebbe violato, inoltre, l’art. 76 Cost., poiché le condizioni ivi previste per l’accesso alle misure alternative si porrebbero in contrasto coi principi fissati nella legge delega n. 103/2017, che prevedono l’ampliamento dei criteri di accesso alle misure alternative alla detenzione e l’eliminazione di ogni automatismo nella concessione dei benefici penitenziari.
In questa sede è opportuno soffermarsi sulle censure basate sull’art. 76 Cost. Il giudice delle leggi ricorda un proprio consolidato orientamento secondo cui la delega legislativa non esclude ogni discrezionalità del legislatore delegato, la cui ampiezza varia in relazione al grado di specificazione dei principi e criteri direttivi fissati nella legge delega; per valutare se il legislatore abbia ecceduto da tali margini, occorre individuare la ratio complessiva della delega (sentenze nn. 142/2020, 170/2019, 198/2018, 182/2018).
Ora, le disposizioni della legge delega invocate dal giudice a quo come parametro interposto rispondono all’esigenza di un’esecuzione penale calibrata sulla personalità in evoluzione del minore e sulla preminente finalità educativa dell’esecuzione penale minorile. Muovendo da questo dato, il giudice delle leggi osserva che la disciplina dettata dal d.lgs. n. 121/2018, pur essendo largamente modellata su istituti già previsti dalla legge 26 luglio 1975, n. 354 – se ne discosta per alcuni profili, ampliando conseguentemente le possibilità di applicazione di misure alternative nei confronti dei condannati minorenni. Così, è innalzato a portato a quattro anni il limite – precedentemente fissato in tre anni – per l’accesso all’affidamento in prova al servizio sociale, ed è innalzato a tre anni il limite di pena residua – a fronte di quello, originariamente previsto, di due anni – per la detenzione domiciliare minorile. La Corte ne deduce perciò che la disciplina censurata non ha trascurato il principio dell’ampliamento dei criteri di accesso alle misure penali di comunità. È però innegabile, si aggiunge con qualche accento critico, che si possano configurare assetti diversi e più flessibili, come del resto era stato previsto dallo schema governativo di decreto legislativo, successivamente modificato.
Per quanto riguarda l’altro criterio direttivo, la Corte precisa che devono essere eliminati quegli automatismi e preclusioni per la concessione e la revoca dei benefici penitenziari che si pongano in contrasto con la funzione rieducativa della pena e col principio dell’individuazione del trattamento. Ne deriva che non “ogni e qualsiasi” preclusione alle misure penali di comunità dia luogo a un contrasto col criterio direttivo in esame, ma soltanto quelle che comportino un effetto incompatibile con la funzione rieducativa della pena e con l’individualità del trattamento penitenziario. I limiti stabiliti dalle disposizioni impugnate non sono correlati al titolo astratto di reato né all’entità della pena edittale o di quella della pena irrogata o applicata, bensì alla durata della pena residua ancora da espiare: così disponendo, il legislatore delegato ha attribuito specifico rilievo allo stato di avanzamento del percorso rieducativo. Per altro verso, non è stata ignorata l’opportunità di una valutazione giudiziale del caso concreto, con l’elaborazione di una prognosi individuale. L’art. 2 del d.lgs. n. 121/2018 – non impugnato dal giudice a quo – stabilisce infatti che l’applicazione delle misure penali di comunità presuppone, oltre alla verifica della durata della pena residua, un apprezzamento giudiziale sia dell’idoneità della misura a favorire l’evoluzione positiva della personalità del condannato, sia una prognosi favorevole in ordine ai suoi futuri comportamenti. Il legislatore delegato, perciò, non ha escluso un apprezzamento giudiziale del percorso rieducativo compiuto dal singolo.
Oltre a quella sollevata in riferimento all’art. 76, la Corte ha rigettato, dichiarandole infondate, anche le questioni di costituzionalità basate sugli artt. 3, 27, terzo comma, e 31, secondo comma, Cost.