Con sentenza pubblicata in data 24 agosto 2022, la Corte Suprema di Cassazione Sezione Unite Civili si è pronunciata sul sensibile tema dello status civitatis italiano, con particolare riguardo alla questione concernente la possibile configurazione di una “rinuncia tacita” della cittadinanza da parte degli italiani emigrati in Brasile e sottoposti alla naturalizzazione di massa alla fine del diciannovesimo secolo, attesi i riflessi sulla linea di trasmissione dei discendenti.
Si premette che la vicenda in oggetto ha rappresentato l’occasione per la Corte di legittimità per offrire una puntuale ricostruzione storica circa la natura giuridica e il valore sottesi al concetto di cittadinanza, e le caratteristiche immanenti e i risvolti derivanti dall’acquisizione, mantenimento o perdita dello status di cittadino italiano.
Come noto, lo status di cittadino rappresenta una “qualità” essenziale cui corrisponde un patrimonio ampio di diritti civili e politici come di doveri di matrice pubblica e costituisce una fonte di tutele per la persona che lo possieda.
L’ordinamento giuridico italiano ha mantenuto un approccio conservatore rispetto al prevalente criterio iure sanguinis, sostanzialmente immutato dal 1865 sino ad oggi.
Il caso in esame trovava origine dall’impugnazione della sentenza depositata il 15 luglio 2021 della Corte di Appello di Roma che, in accoglimento del gravame del Ministero dell’Interno e del Ministero degli Affari esteri, respingeva la domanda di riconoscimento iure sanguinis della cittadinanza italiana presentata da due discendenti in linea retta del cittadino italiano Aristide Mentano Antoniazzi, emigrato in Brasile alla fine dell’Ottocento e del figlio di quest’ultimo, Marcellino Antoniazzi.
Le motivazioni di rigetto addotte dalla Corte di secondo grado si fondavano essenzialmente sull’interpretazione dell’art. 11 n. 2 e 3 del Codice civile del 1865 (breviter, cod. civ. abr.) e sulle fattispecie estintive della cittadinanza ivi disciplinate.
I giudici di merito consideravano, in primo luogo, “del tutto verosimile” che l’avo Aristide Mentano Antoniazzi avesse perso la cittadinanza italiana “per effetto” del provvedimento normativo brasiliano di grande naturalizzazione (il decreto n. 58-A del 1889), e che lo stesso avesse contestualmente rinunciato in via tacita o per fatti concludenti alla propria cittadinanza iure sanguinis, con la relativa impossibilità di trasmettere tale status agli eredi, e, dunque, in primis, al figlio Marcellino.
Il provvedimento di naturalizzazione aveva infatti attribuito la cittadinanza brasiliana a tutti i soggetti che si fossero trovati nel territorio brasiliano nell’anno 1889, “ad eccezione di coloro che avessero espressamente dichiarato di volervi rinunziare”. Nel caso de quo, la Corte rilevava, non era stata fornita alcuna prova in giudizio da parte dei discendenti circa la sussistenza di tale atto di rinuncia espresso da parte dell’avo, motivo per cui era ragionevole ritenere che non fosse mai stato attuato da quest’ultimo.
A comprova dell’avvenuta perdita della cittadinanza italiana ai sensi dell’art. 11 n. 2 cod. civ. abr., veniva riportato il presumibile godimento dei diritti civili e politici brasiliani da parte del Sig. Antoniazzi sussunti da fatti concludenti, dal momento che egli aveva condotto la propria vita sociale, lavorativa e familiare a lungo in quello Stato, ossia fino alla morte; da cui, l’avvenuta “accettazione tacita” della cittadinanza brasiliana e la contestuale “rinuncia tacita” di quella italiana.
In secondo luogo, la Corte d’Appello stabiliva che la perdita di cittadinanza sarebbe in ogni caso derivata dal fatto che Antoniazzi aveva accettato, senza previo permesso delle autorità italiane competenti, un’attività lavorativa dal governo brasiliano: caso specifico di perdita della cittadinanza ai sensi dell’11 n. 3 cod. civ. abr. A tal riguardo, i giudici di merito offrivano un’interpretazione estensiva della norma in oggetto, ritenendo che per “governo” si dovesse intendere non l’amministrazione pubblica in senso stretto bensì l’organo di governo in quanto tale, il quale consente a coloro che sono emigrati di lavorare nel proprio paese. Di qui, pertanto, l’applicabilità di tale fattispecie estintiva sia al Sig. Antoniazzi che al figlio Marcellino.
Infine, la Corte d’Appello reputava di trovare intrinseca conferma della correttezza del proprio ragionamento logico-giuridico nel principio di diritto internazionale che riconosce la libertà di ciascuno Stato di disciplinare le modalità di conferimento della propria cittadinanza, oltre che la possibilità di attribuirla mediante un processo di naturalizzazione, come era avvenuto nel caso in esame.
Per tutti i motivi addotti, dunque, la Corte d’Appello rigettava la richiesta di riconoscimento iure sanguinis della cittadinanza dei ricorrenti.
Avverso la sentenza della Corte d’ Appello, i soccombenti proponevano ricorso per Cassazione sulla base di quattro distinti motivi.
Con il primo motivo, i ricorrenti deducevano “la violazione o falsa applicazione dell’art. 11 cod. civ. abr.” contestando la configurabilità di una rinuncia tacita o per fatti concludenti della cittadinanza ai sensi della menzionata disposizione. Al contrario, per la perdita di cittadinanza i ricorrenti opponevano che fosse invece necessario un atto consapevole e volontario dell’interessato.
Con il secondo motivo, veniva censurata la configurabilità di una rinuncia tacita della cittadinanza italiana da parte di Marcellino Antoniazzi per atto consapevole e volontario ai sensi dell’art. 11 n. 3 cod. civ. abr. oltre che la violazione della legge sulla cittadinanza n. 555 del 1912, la quale consentiva il mantenimento della doppia cittadinanza; normativa correttamente applicabile – secondo i ricorrenti – a Marcellino Antoniazzi, al momento del raggiungimento della sua maggiore età.
Con il terzo e quarto motivo di ricorso, infine, i ricorrenti denunciavano (a) il ribaltamento del principio di ripartizione dell’onere probatorio circa la mancata rinuncia da parte del proprio avo della cittadinanza brasiliana a seguito del decreto di naturalizzazione e (b) l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio.
L’avvocatura di Stato, in rappresentanza dei Ministeri intimati, replicava con controricorso. La causa veniva rimessa alle Sezioni Unite per la particolare importanza della questione sottese.
Investite del ricorso, le Sezioni Unite rilevavano numerose aporie in punto di diritto sul piano dei percorsi logici-giuridici dedotti in sentenza dalla Corte territoriale per giustificare il diniego di riconoscimento della cittadinanza, accogliendo in parte le motivazioni di doglianza presentate dai ricorrenti.
Innanzitutto, le Sezioni Unite valutavano che il richiamo al principio di libertà in materia di cittadinanza secondo il diritto internazionale non fosse stato adeguatamente ponderato e non assumesse efficacia dirimente nel caso de quo, dal momento che per l’attribuzione della cittadinanza è comunque necessaria la sussistenza di un vincolo reale tra lo Stato e l’individuo che non può essere fondato su una fictio. In ossequio a tale ragionamento, il principio di effettività non può giustificare, secondo la Corte, l’attribuzione della cittadinanza da parte del governo del Brasile per factum principis unitamente all’asserita tacita accettazione con effetto di rinuncia della cittadinanza italiana originaria.
I giudici di legittimità rilevavano, altresì, numerose incongruenze logiche ed ermeneutiche rispetto all’asserita perdita di cittadinanza dei ricorrenti sulla base dei concorrenti duplici presupposti addotti in sentenza ai sensi dell’art. 11 n. 2 e 3 cod. civ. arb.
In primo luogo, le Sezioni Unite contestavano, in punto di diritto, la possibilità di configurare una ‘rinuncia tacita’ della cittadinanza italiana desunta da fatti concludenti e contestuale all’ottenimento della cittadinanza brasiliana, a seguito della avvenuta naturalizzazione di massa. Tale interpretazione della norma veniva reputata non corretta per le motivazioni logico-giuridici che seguono.
Sulla base dell’interpretazione testuale dell’art. 11 n. 2 cod. civ. arb., i giudici di legittimità accertavano che la parola “ottenere” sottende necessariamente ad un meccanismo di natura “simil decadenziale”: per la perdita della cittadinanza si rivela dunque essenziale la condotta cosciente, attiva e volontaria “di chi, italiano, consapevolmente si fosse proteso a ottenere di essere considerato cittadino dello Stato estero”.
I giudici territoriali, al contrario, avevano assunto come punto dirimente per statuire la perdita ovvero la rinuncia alla cittadinanza, soprattutto da parte del Sig. Antoniazzi, atteggiamenti spesso privi di significato volontaristico, ossia il suo silenzio o comunque la sua mancata reazione espressa avverso il decreto di naturalizzazione. In ciò, secondo la Corte di legittimità, i giudici di merito erano incorsi in un errore nel proprio ragionamento dal momento che, in primo luogo, l’inerzia manifestata non poteva essere considerata una valida causa di rinuncia tacita da parte del Sig. Antoniazzi alla propria cittadinanza di origine. In secondo luogo, in ossequio alla medesima ratio, non era ragionevole nemmeno l’apposizione dell’onere in capo a quest’ultimo di manifestare il proprio dissenso espresso alla naturalizzazione.
Il riconoscimento della figura giuridica della ‘rinuncia tacita’ avrebbe comportato inoltre, a parere della Corte, il rischio per tutti i migranti italiani di dover accettare la possibile perdita della propria cittadinanza in modo forzoso o comunque automatico e ciò si porrebbe in chiara contraddizione con le caratteristiche dello status in oggetto.
Ad ulteriore supporto della propria motivazione di accoglimento dei motivi di doglianza circa l’errata interpretazione, nello specifico, dell’art. 11 n. 2 cod. civ. arb., le Sezioni Unite ricostruivano anche il contesto storico-normativo della vicenda de quo, rilevando come i processi di naturalizzazione – tra cui quello brasiliano – fossero fortemente contestati da parte di Stati liberali come quello italiano, poiché ritenuti di stampo autoritativo e pregiudizievoli rispetto ai diritti derivanti della cittadinanza di origine degli individui. Ad argomento finale di confutazione della tesi relativa alla configurazione di una “rinuncia tacita” della cittadinanza, le Sezioni Unite notavano che anche i decreti governativi brasiliani emanati ad integrazione dell’originario decreto di naturalizzazione di massa e a definizione del percorso di acquisizione della cittadinanza, ponevano quale presupposto necessario il compimento da parte dell’interessato di un’attività che fosse indicativa della propria volontà univoca di acquisizione della cittadinanza, consistente nella richiesta di iscrizione alle liste elettorali o nel rilascio della tessera elettorale.
In virtù di tutti gli argomenti addotti, le Sezioni Unite affermavano che la perdita della cittadinanza, da parte dei soggetti sottoposti al decreto di naturalizzazione, avrebbe dovuto necessariamente implicare un atto abdicativo volontario, espresso e idoneo ad incidere effettivamente sul rapporto originario di cittadinanza.
Di conseguenza, sussisteva un errore di esegesi dell’art. 11 n. 2 cod. civ. arb. nella sentenza impugnata.
Le Sezioni Unite rilevavano un ulteriore errore in punto di diritto in relazione, questa volta, alla fattispecie estintiva del diritto di cittadinanza, di cui al n. 3 del medesimo art. 11 cod. civ. abr. Si faceva riferimento, nello specifico, alla presunta perdita di cittadinanza derivante dall’accettazione sia da parte del Sig. Antoniazzi che del figlio Marcellino di un “impiego dal governo estero” senza previa autorizzazione del governo italiano.
Sul punto, i giudici di legittimità qualificavano come erronea l’interpretazione dedotta in sentenza circa l’estensione di tale fattispecie, ritenendo che essa doveva essere intesa esclusivamente in allusione ai “soli impieghi governativi strettamente intesi”, ossia quelle mansioni che, in difetto di autorizzazione del governo italiano, pongono il soggetto alle dipendenze dirette del governo estero.
La norma non si riferisce, dunque, all’organo di governo nonché a qualsiasi attività di lavoro compiuta all’interno del territorio estero, bensì, alle sole funzioni che richiedono per il loro svolgimento un giuramento di fedeltà allo Stato straniero e dunque antitetiche al mantenimento della cittadinanza originaria. In virtù delle ragioni riportate, la fattispecie estintiva in esame non era stata correttamente declinata nel caso di specie.
Per tutti questi motivi, pertanto, il ricorso veniva ritenuto dalle Sezioni Unite meritevole di accoglimento in relazione al primo e, in parte, al secondo motivo, con assorbimento dei restanti. La sentenza impugnata è stata cassata con rinvio alla Corte d’Appello di Roma in diversa composizione, per nuovo esame, con allegazione, altresì, dei quattro seguenti principi a cui i nuovi giudici di merito investiti dovranno attenersi nella propria decisione.
- La cittadinanza per fatto di nascita, una volta acquisita, ha “natura permanente, è imprescrittibile ed è giustiziabile in ogni tempo in base alla semplice prova della fattispecie acquisitiva integrata dalla nascita da cittadino italiano”. Colui che richiede il riconoscimento deve provare solamente il “fatto acquisitivo e la linea di trasmissione”.
- L’istituto della perdita della cittadinanza italiana in relazione al suddetto provvedimento brasiliano di naturalizzazione di massa implica “un’esegesi restrittiva delle norme afferenti, essendo quello della cittadinanza annoverabile tra i diritti fondamentali”. Ne discende che per la perdita dello status è necessario che sia data prova di un atto volontario ed espresso di rinuncia da parte dell’interessato.
- “Ogni persona ha un diritto soggettivo permanente e imprescrittibile allo stato di cittadino, che congloba distinti ed egualmente fondamentali diritti”. Tale diritto, pertanto, si “può perdere per rinuncia, ma purché volontaria ed esplicita, in ossequio alla libertà individuale, e quindi mai per rinunzia tacita”.
- La perdita della cittadinanza italiana a seguito di accettazione di un “impiego da un governo estero” senza consenso delle competenti autorità nazionali, deve essere interpretata in via restrittiva, ovverosia relativamente “ai soli impieghi governativi strettamente intesi”.