1. Premesse
Con la sentenza n. 613 pubblicata in data 8 gennaio 2024, la Corte Suprema di Cassazione Sezione Unite Civili si è pronunciata sul tema, di particolare rilevanza nomofilattica, attinente alla portata applicativa della disciplina recata dalla Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968, ovvero del Regolamento UE n. 1215 del 2015 (Reg. Bruxelles I bis) in materia di azione di garanzia. In specie, le Sezioni Unite hanno risolto la questione inerente all’applicabilità (o meno) del criterio speciale di giurisdizione di cui all’art. 6, n. 2 della Convenzione di Bruxelles del 1968 ed all’art. 8, n. 2 del Regolamento n. 2012/1215/UE nel caso di azione di garanzia proposta non in via di chiamata in causa ma con domanda autonoma proposta in un separato giudizio.
2. I fatti di causa
Una cittadina italiana conveniva in giudizio una società di tour operator con sede in Italia al fine di ottenere la condanna al risarcimento dei danni patiti, in conseguenza di un sinistro stradale nel corso del proprio viaggio in Laos e Thailandia. In specie, durante la gita organizzata in Laos e ricompresa nel proprio pacchetto, il pullman turistico su cui viaggiava l’attrice era coinvolto in un incidente stradale, a causa del quale ella pativa dei danni.
La società turistica italiana, a sua volta, conveniva in un autonomo e separato giudizio dinnanzi al Tribunale di Busto Arsizio la società di tour operator straniero con sede ad Hong Kong (ed uffici in Laos), a cui si era affidata per il servizio di trasporto delle gite ricomprese nel pacchetto e quindi titolare del pullman coinvolto nel sinistro. In particolare, la società italiana attrice chiedeva di essere manlevata e tenuta indenne dalle conseguenze pregiudizievoli che le sarebbero potute derivare dall’esito dell’altro e separato giudizio intentato nei suoi confronti dalla turista coinvolta.
Il Tribunale di Busto Arsizio rigettava la domanda, dichiarando il difetto di giurisdizione del giudice italiano sulla base del duplice rilievo per cui il convenuto aveva sede ad Hong Kong, e che il rapporto contrattuale per la prestazione di servizi, invocato inter-partes, doveva eseguirsi in Laos e non in Italia. In proposito, il Tribunale affermava che, in base al criterio del luogo dell’obbligazione (eseguita o da eseguirsi) e del fatto che il viaggio turistico era nel Laos, ai sensi dell’art. 3 co. 2 della L. n. 218 del 1995 che disciplina il sistema di diritto internazionale privato, nonché dell’art. 5 della Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968, il giudice munito di giurisdizione era il giudice del Laos o di Hong Kong[1].
Il Tour Operato italiano impugnava la sentenza dinnanzi alla Corte d’Appello di Milano, la quale riformava tale decisione e dichiarava la giurisdizione dell’adito Tribunale di Busto Arsizio, ritenendo applicabile la previsione di cui all’art. 6, n.2 della Convenzione di Bruxelles del 1968, ancorché l’azione di garanzia fosse stata proposta non in via di chiamata in causa ma con domanda autonoma proposta in un separato processo. A parere della Corte d’Appello, infatti, dall’utilizzo, nell’art. 6, n.2, della congiunzione disgiuntiva “o” tra l’azione di garanzia e la chiamata di un terzo, si poteva desumere la natura distinta dei due rimedi, essendo entrambi alternativamente esperibili, pertanto, nella giurisdizione dell’azione principale. Di conseguenza, nel caso di specie, alla declaratoria di giurisdizione del giudice italiano, non ostava il fatto che l’azione di garanzia era stata promossa in via autonoma.
3. I motivi del ricorso in Cassazione
La società di tour operator straniero presentava quindi ricorso dinnanzi alla Corte di Cassazione, lamentando l’erroneità della ricostruzione della Corte di Appello di Milano circa l’interpretazione offerta dell’art. 6 n. 2 della Convenzione e, dunque, della giurisdizione del giudice italiano nel caso di specie.
Resisteva con controricorso la società italiana, sostenendo la correttezza della decisione assunta dalla Corte territoriale, tanto all’applicabilità dell’art. 6 n. 2 della Convenzione di Bruxelles del 1968, quanto all’interpretazione di tale disposizione come atta a radicare la giurisdizione del giudice nazionale adito per la causa principale anche rispetto all’azione di garanzia esercitata autonomamente dinanzi allo stesso giudice nazionale. Deduceva, inoltre, la sussistenza di un giudicato interno sulla qualificazione dell’azione come di garanzia impropria ex lege, ai sensi dell’art. 43 cod. turismo, che conferisce titolo all’organizzatore di agire in rivalsa nei confronti del prestatore di servizi alla cui eventuale negligenza sia addebitabile il danno sofferto dal turista[2]. Secondo tale ricostruzione, dunque, la materia oggetto della contesa sarebbe differente da quelle disciplinate dai criteri di cui all’art. 5 della Convenzione di Bruxelles e, comunque, anche dall’art. 7 del Reg. 2012/1215/UE, Bruxelles I bis.
Depositava le proprie conclusioni, anzitutto, il Pubblico Ministero della Suprema Corte, mediante cui chiedeva l’accoglimento del ricorso principale e, per l’effetto, la dichiarazione del difetto di giurisdizione del giudice italiano.
Con ordinanza interlocutoria n. 34475, le Sezioni Unite disponevano il rinvio a pubblica udienza in ragione della rilevanza nomofilattica della questione di diritto sulla portata applicativa della disciplina recata dalla Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968 ovvero del Regolamento n. 2012/1215/UE.
4. La pronuncia delle Sezioni Unite
Riassunta la causa, i Supremi giudici accoglievano il ricorso principale proposto dalla società di tour operator straniero, dichiarando il difetto di giurisdizione del giudice italiano ed evidenziando l’erroneità della ricostruzione compiuta dalla Corte d’Appello.
In via preliminare, le Sezioni Unite contestavano la qualificazione della pretesa della società italiana come azione di rivalsa, ai sensi dell’art. 43 cod. turismo, riconducendo, invece, il petitum ad un’azione fondata su un rapporto di garanzia. Nel caso di specie ritenevano applicabile, dunque – in ragione del rinvio dell’art. 3 della L. 218/95 – l’art. 8, n. 2 del Reg. 2012/1215/UE, il quale dispone che una persona domiciliata in uno Stato membro possa essere convenuta, qualora si tratti di chiamata in garanzia o altra chiamata di terzo, davanti all’autorità giurisdizionale presso la quale è stata proposta la domanda principale[3].
Tanto premesso, sulla scorta di tale principio, la Corte evidenziava, in primo luogo, che – per giurisprudenza ormai consolidata – ai fini dell’individuazione del giudice munito di giurisdizione non assumeva rilevanza la distinzione tra garanzia propria e impropria.
In secondo luogo, la Corte si interrogava sulla natura della chiamata in garanzia ai sensi del suddetto articolo del Regolamento Bruxelles I bis, anche ai sensi della previgente disciplina della Convenzione e, nella specie, dell’art. 6.2.
In proposito, le Sezioni Unite davano continuità al più recente orientamento di legittimità in forza del quale, in tema di giurisdizione dei giudici italiani nei confronti di soggetti domiciliati all’estero, si applicano i criteri stabiliti dal regolamento Bruxelles I bis, che ha sostituito il Regolamento n. 2001/44/CE, a sua volta sostitutivo della suddetta Convenzione.
Ciò precisato, la Suprema Corte riteneva che l’applicazione dell’art. 8, n. 2 Bruxelles I bis (che, in verità, ha un contenuto pressoché equivalente a quello dei suoi predecessori) possa trovare riscontro solo ed esclusivamente nei casi di vera e propria chiamata in garanzia effettuata dal garantito nel medesimo processo instaurato contro di lui dal danneggiato. Invero, sotto il profilo della interpretazione letterale dell’art. 8, n. 2, le Sezioni Unite mettevano in luce come l’utilizzo, prima del termine “chiamata in garanzia” e poi il riferimento ad “altra chiamata di terzo”, rappresenti una parificazione tra le due chiamate. Poiché quella di terzo si dà necessariamente nello stesso processo della domanda principale, ne consegue che, anche per la chiamata in garanzia, trovi rilievo il principio del simultaneus processus[4]. Nondimeno, l’interpretazione sistematica e funzionale volgeva nella medesima direzione di quella letterale.
In virtù di tali presupposti, le Sezioni Unite affermavano il seguente principio di diritto: «l’art. 8, n. 2, del Reg. UE n. 1215 del 2012, cui rinvia l’art. 3, comma 2, prima parte, della legge n. 218 del 1995, non trova applicazione nel caso in cui l’azione di garanzia, propria o impropria, sia stata esperita in via autonoma e non già nell’ambito del giudizio già pendente relativo al rapporto principale».
La Suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite statuiva, in definitiva, che dovesse dichiararsi il difetto di giurisdizione del giudice italiano e la sentenza impugnata andasse cassata senza rinvio.
[1] Cfr. da ultimo, Cass. Ord. n. 11346/2023 in tema di competenza giurisdizionale in caso di compravendita internazionale.
[2] Il rapporto di garanzia ricorre in tutti i casi in cui, un soggetto (c.d. garantito) chieda di essere tenuto indenne da altro soggetto (il garante) in ordine alle perdite patrimoniali derivanti dall’accoglimento della domanda contro di lui proposta da un terzo soggetto. Si ha garanzia propria quando la causa principale e quella accessoria hanno lo stesso titolo, ovvero quando ricorra una connessione oggettiva tra i titoli delle due domande, mentre si ha garanzia impropria quando il convenuto riversa su di un terzo le conseguenze del proprio inadempimento, in base ad un titolo diverso da quello dedotto con la domanda principale, ovvero in base ad un titolo connesso al rapporto principale solo in via occasionale o di fatto (in questo senso Cass. n. 8898/2014).
[3] Ormai celebre, sulla distinzione tra garanzia propria e impropria, è la sentenza Cass. S.U., n. 24707/2015. La Corte, verosimilmente influenzata anche dalla normativa europea che ignora la figura della garanzia impropria (art. 6, n. 2 Reg. UE 1215/12 (Sul punto D’Alessandro, La connessione tra controversie transnazionali. Profili sistematici, Torino, 2009, 84) ha attribuito alla distinzione una valenza meramente descrittiva e ha considerato sufficiente, per discorrere di garanzia, la sussistenza di una connessione meramente fattuale tra domande.
[4] A sostegno delle ragioni della Corte, la relazione “Jenard” sulla Convenzione di Bruxelles del 1968 (utilizzata a fini interpretativi dalla CGUE, nel caso CGUE, sentenza 21 gennaio 2016, in C-521/14, Sovag) conforterebbe una tale lettura là dove afferma che: «(s)ebbene la nozione di garanzia sia compresa in quella di intervento, si è preferito menzionare entrambi i concetti in maniera espressa e distinta».