Il Consiglio di Stato si pronuncia su una sanzione per mancato acquisto di certificati verdi ed applica il principio di retroattività della lex mitior
1. L’art. 11, c. 1, del D.Lgs. n. 79/99, a decorrere dall’anno 2001, aveva imposto agli importatori e ai soggetti responsabili degli impianti che, in ciascun anno, avessero importato o prodotto energia elettrica da fonti non rinnovabili, di immettere nel sistema nazionale, nell’anno successivo, una quota di energia prodotta da fonti rinnovabili.
Il medesimo articolo aveva previsto, al comma 3, che i predetti soggetti potessero adempiere al suddetto obbligo anche acquistando, in tutto o in parte, l’equivalente quota o i relativi diritti da altri produttori, purché avessero immesso l’energia da fonti rinnovabili nel sistema elettrico, o dal gestore della rete di trasmissione nazionale (si tratta dei c.d. certificati verdi).
La direttiva 2001/77/CE, al fine di promuovere un maggior contributo delle fonti energetiche rinnovabili alla produzione di elettricità nel mercato comune, aveva introdotto la garanzia di origine quale mezzo di certificazione della provenienza da fonte rinnovabile dell’energia elettrica prodotta negli Stati membri.
Ai sensi dell’art. 5 della suddetta direttiva, entro il 27 ottobre 2003 ciascun Stato membro avrebbe dovuto dare attuazione alla stessa, prevedendo il rilascio di garanzie di origine idonee a provare l’origine dell’elettricità prodotta da fonti rinnovabili, secondo criteri oggettivi, trasparenti e non discriminatori.
La direttiva 2009/28/CE ha successivamente modificato e sostituito la direttiva 2001/77/CE prescrivendo, all’art. 15, che la garanzia di origine fosse rilasciata, su richiesta dei produttori, come prova per i clienti finali della quota o quantità di energia da fonti rinnovabili presente nel mix energetico, ai sensi dell’art 3, par. 6, della direttiva 2003/54/CE.
Lo Stato italiano ha dato attuazione alla direttiva 2001/77/CE con il D. Lgs. n. 387/2003, il cui art. 20, comma 3, prevedeva che i soggetti importatori di energia elettrica dagli Stati membri dell’Unione europea potessero richiedere al GSE l’esenzione dall’obbligo di acquisto dei certificati verdi di cui all’articolo 11 del decreto legislativo n. 79/1999, per la quota di elettricità importata proveniente da fonti rinnovabili, purché fosse presentata al GSE copia della garanzia di origine rilasciata, ai sensi dell’art. 5 della direttiva 2001/77/CE, nel paese di ubicazione dell’impianto.
Ai sensi dell’art. 4 del medesimo D.Lgs. n. 387/2003, il GSE era tenuto a verificare l’adempimento dell’obbligo di cui all’art. 11 del D.Lgs. n. 79/1999, e a comunicare all’Autorità i soggetti inadempienti, per l’applicazione di sanzioni ai sensi della legge n. 481/95.
2. Nel 2016 una società è stata destinataria di quattro provvedimenti sanzionatori dell’ARERA (all’epoca AEEGSI, Autorità per l’energia elettrica, il gas e il sistema idrico) in materia di obbligo di acquisto di certificati verdi:
- deliberazione 24 giugno 2016, 331/2016/S/EFR, per l’anno di importazione 2008;
- deliberazione 28 giugno 2016, 349/2016/S/ EFR, per l’anno di importazione 2009;
- deliberazione 28 giugno 2016, 350/2016/S/ EFR, per l’anno di importazione 2010;
- deliberazione 7 luglio 2016, 364/2016/S/EFR, per la violazione in materia di obbligo di acquisto di certificati verdi, per l’anno di importazione 2007.
L’esercente ha impugnato i provvedimenti sanzionatori innanzi al Tar Lombardia, Milano, che si è pronunciato con le sentenze nn. 1948, 1949, 1950 e 1951 del 2018.
Il giudice amministrativo di primo grado, rigettati tutti gli altri motivi di ricorso, ha accolto la censura relativa alla quantificazione della sanzione, stabilendo che nel caso di specie avrebbe dovuto trovare applicazione, l’articolo 8-bis, quarto comma, della legge n. 689 del 1981, per cui “le violazioni amministrative successive alla prima non sono valutate, ai fini della reiterazione, quando sono commesse in tempi ravvicinati e riconducibili ad una programmazione unitaria”.
L’Autorità ha proposto appello avverso il capo di soccombenza. Analogamente, l’esercente ha gravato le sentenze di primo grado con appello incidentale, relativamente ai capi sfavorevoli per la Società.
Ed infine, il Consiglio di Stato, sez. II, on sentenza 26 maggio 2022, n. 4222, si è già pronunciato con riferimento a tre giudizi, annullando le deliberazioni 331/2016/S/efr, 349/2016/S/efr e 364/2016/S/efr per superamento del termine perentorio di conclusione del procedimento (per il cambio di indirizzo rispetto alla giurisprudenza precedente, che aveva considerato ordinatorio tale termine, si veda Cons. Stato, sez. VI sent. 19 gennaio 2021, n. 584).
3. Il quarto giudizio è stato definito dal Consiglio di Stato, sez. VI, con sentenza 18 giugno 2024, n. 5463, che ha accolto l’appello dell’esercente e dichiarato improcedibile l’appello dall’Autorità avverso la sentenza Tar Lombardia, Milano, n. 1949 del 2018, annullando, per l’effetto, la deliberazione 350/2016/S/efr.
La sentenza desta interesse un triplice ordine di profili, di seguito illustrati.
Il primo profilo concerne il rapporto tra accertamento della violazione del diritto UE e principio della domanda.
È decisivo premettere che nell’ambito del giudizio, il Consiglio di Stato aveva investito la Corte di giustizia UE di una questione di interpretazione della normativa europea su cui il Giudice di Lussemburgo si è pronunciato con sentenza 7 marzo 2024, in causa C-558/22, lasciando al giudice del rinvio il compito di approfondire alcuni aspetti di fatto rilevanti in ordine al possibile contrasto della normativa interna con la normativa europea in tema di aiuti di Stato.
Il Consiglio di Stato (sebbene avesse dapprima interpellato CGUE), con riferimento agli spazi di valutazione lasciati dalla Corte al giudice del rinvio (e considerati dal Collegio “il riflesso della natura della funzione esercitata dalla Corte di giustizia in sede di rinvio pregiudiziale”), ha ritenuto di non poter “procedersi al compimento di quelle valutazioni lasciate dalla Corte di giustizia al giudice remittente senza eccedere dai limiti della presente lite, quale è stata a suo tempo circoscritta dalle parti”. E ciò in quanto, nell’ambito della controversia in esame “sia con il ricorso di primo grado che con l’appello incidentale, la società sanzionata e il suo fallimento non hanno mai revocato in dubbio la conformità del diritto nazionale (e quindi del provvedimento sanzionatorio applicativo) al diritto europeo primario o derivato”, laddove “il dubbio in merito alla compatibilità rispetto al diritto dell’Unione della normativa italiana rilevante è stato sollevato in memorie successive, non idonee ad ampliare l’oggetto del giudizio”.
Per il Collegio, “il dovere del giudice del rinvio di verificare in concreto la violazione della disposizione in materia di aiuti di Stato al fine di trarne tutte le conseguenze, compresa l’illegittimità delle eventuali sanzioni previste per garantire l’esecuzione degli aiuti medesimi, resta pur sempre subordinato all’osservanza del principio della domanda e della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, che costituiscono un principio cardine non soltanto del sistema processuale italiano”.
Il secondo profilo da considerare concerne la natura “punitiva” della sanzione amministrativa pecuniaria irrogata dall’Autorità, secondo i noti criteri Engels elaborati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
Con la sentenza in commento, il Consiglio di Stato, motivando sulla base di precedenti relativi a provvedimenti sanzionatori che riguardano altre fattispecie, ha superato il precedente orientamento giurisprudenziale sulla qualificazione delle sanzioni relative al mancato acquisto di CV.
Sino alla decisione in commento, infatti, il Consiglio di Stato aveva più volte affermato che “la sanzione ha…..una finalità ripristinatoria nella parte in cui viene determinata prendendo quale indice di riferimento il valore dei certificati verdi non acquistati”, e che “La sanzione presenta una valenza afflittiva soltanto in quella minima parte che supera il valore dei certificati” (Cons. Stato, sez. VI, sentt. 24 settembre 2015, n. 4487, e 1° dicembre 2015, n. 5421; la natura ripristinatoria della sanzione è stata ribadita anche da Cons. Stato, sez. VI, sent. 2 febbraio 2017, n. 456).
4. Il terzo ed ultimo profilo da considere, peraltro, desta maggior interesse riguardo alla tematica delle fonti del diritto, concernendo l’applicazione (diretta) del principio di retroattività della lex mitior.
Sul punto, giova premettere che nel ricorso di primo grado l’esercente, muovendo proprio dalla natura punitiva della sanzione irrogata dall’Autorità, aveva invocato l’applicazione del principio di retroattività della lex mitior.
Più precisamente, la società dava rilievo alla circostanza per cui l’art. 25, c. 11, lett. c), n. 1), del D.lgs. n. 28/2011 aveva abrogato, a partire dal 1° gennaio 2016, la previsione dell’articolo 11 del D.Lgs. n. 79/1999, che sanciva l’obbligo di acquisizione dei cc.dd. certificati verdi.
La censura è stata ritenuta fondata dal Consiglio di Stato.
Il Collegio, nel prendere le mosse dalla richiamata natura “sostanzialmente penale” della sanzione irrogata dall’Autorità, ha evidenziato come la giurisprudenza costituzionale, in un processo di “progressiva assimilazione delle sanzioni amministrative ‘punitive’ alle sanzioni penali, quanto a garanzie costituzionali”, avesse esteso alle sanzioni amministrative punitive il principio di retroattività della lex mitior (il riferimento è alla sentenza della Corte costituzionale n. 63 del 2019; per l’evoluzione della giurisprudenza costituzionale si vedano, senza pretesa di esaustività, Corte cost., sentt n. 501 del 2002, n. 236 del 2011, e n. 193 del 2016), laddove per le sanzioni amministrative in generale vige, com’è noto, il diverso principio del tempus regit actum” (in forza dell’art. 1 della l. n. 689 del 1981, per cui “le leggi che prevedono sanzioni amministrative si applicano soltanto nei casi e per i tempi in esse considerati”).
Sulla scorta delle motivazioni a cui si è fatto cenno, il Collegio ha appunto ritenuto che “una volta abrogata la disposizione che stabiliva l’obbligo inosservato (l’acquisto dei ‘certificati verdi’), l’Autorità non poteva successivamente infliggere alla società Esperia una sanzione amministrativa “punitiva” per la violazione di quella stessa disposizione, anche se consumata in precedenza, ostandovi il principio della retroattività della lex mitior”.
La sentenza desta interesse perché applica direttamente i principi derivanti dalla Convenzione EDU a fronte delle previsioni della l. n. 689 del 1981 e, nell’annullare il provvedimento, afferma che l’Autorità aveva il dovere di effettuare la medesima diretta applicazione di quei principi, archiviando la posizione dell’esercente (anziché sanzionare, come in effetti avvenuto).
Nelle motivazioni della sentenza del Consiglio di Stato non vi è alcun riferimento al vaglio di un’eventuale rimessione alla Corte costituzionale per violazione degli articoli 3 e 117, comma 1, Cost., alla luce della giurisprudenza costituzionale inaugurata dalle sentenze “gemelle” nn. 348 e 349 del 2007.
Di conseguenza, non si opera alcun tentativo di interpretazione costituzionalmente orientata della disciplina applicabile, quale risultante delle abrogazioni disposte dall’art. 25, c. 11, del D.Lgs. n. 28 del 2011 (in particolare quella di cui alla lettera c), n. 2, riguardava l’art. 4 del D.Lgs. n. 387 del 2003 che, al comma 2, prevedeva la competenza sanzionatoria dell’Autorità).
Il passaggio motivazionale della sentenza della Corte costituzionale n. 63 del 2019, valorizzato dal Consiglio di Stato, è quello in cui si afferma che “laddove (…) la sanzione amministrativa abbia natura “punitiva”, di regola non vi sarà ragione per continuare ad applicare nei confronti di costui tale sanzione, qualora il fatto sia successivamente considerato non più illecito; né per continuare ad applicarla in una misura considerata ormai eccessiva (e per ciò stesso sproporzionata) rispetto al mutato apprezzamento della gravità dell’illecito da parte dell’ordinamento”.
Può essere utile rilevare – anche in questo caso senza pretesa di esaustività – che la sentenza oggetto di questa scheda non costituisce una pronuncia isolata, in quanto, già in precedenza, il Consiglio di Stato aveva statuito in senso analogo (si vedano, Cons. Stato, sez VI, sent. 23 febbraio 2023, n. 1822; Cons. Stato, sez. VI, sent. 28 giugno 2023, n. 6349, pur nell’ambito di una motivazione più ampia, che richiama la natura permanente dell’illecito edilizio; diversamente, nella sentenza Cons. Stato, sez. VI, 17 maggio 2022, n. 3850, all’applicazione del principio di retroattività della lex mitior ha ostato la natura “non penale” della sanzione).
(*) La scheda contiene opinioni personali dell’autore che non impegnano l’Amministrazione di appartenenza.