Fonti internazionali

La Corte costituzionale ricalibra i confini dl diritto all'affettività nelle cinta murarie delle carceri (2/2024)

Con la sentenza n. 10 del 2024, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 dell’ordinamento penitenziario, nella parte in cui non prevede che il detenuto possa essere ammesso a svolgere i colloqui con il partner senza il controllo a vista del personale di custodia, laddove non vi ostino ragioni di sicurezza, esigenze di mantenimento dell’ordine o ragioni giudiziarie.

La decisione suddetta - inquadrabile nella categoria delle sentenze c.d. additive di principio - si innesta nella recente tendenza della Corte costituzionale alla “salvaguardia incondizionata ed effettiva” dei diritti fondamentali, la quale deve necessariamente fondarsi su un processo sinergico a cui sono chiamati a partecipare i singoli attori coinvolti al fine di garantire l’effettività del diritto in questione: ossia il legislatore, i giudici e, in questo caso, l’amministrazione penitenziaria.

 

La Consulta riprende un filo interrotto qualche tempo prima, allorquando la questione sollevata dal magistrato di sorveglianza di Firenze era stata dichiarata inammissibile[1] sotto due  distinti e concorrenti profili:  in primo luogo, il rimettente aveva omesso di descrivere in modo adeguato la fattispecie concreta e, conseguentemente, di motivare sulla rilevanza della questione, con riferimento all’oggetto e alla natura del reclamo su cui era chiamato a pronunciarsi; in secondo luogo, l’intervento meramente ablativo del controllo visivo richiesto dal giudice a quo non sarebbe bastato comunque, di per sé, a realizzare l’obiettivo perseguito, dovendosi necessariamente accedere ad una disciplina che stabilisse termini e modalità di esplicazione del diritto, di esclusiva spettanza del legislatore.  Purtuttavia, in quella medesima pronuncia, la Corte Costituzionale aveva sottolineato come fosse, in effetti, un’ esigenza reale e fortemente avvertita, quella di permettere alle persone sottoposte a restrizione della libertà personale di continuare ad avere relazioni affettive intime, anche a carattere sessuale. Tale esigenza trovava all’epoca, nel nostro ordinamento, una risposta solo parziale nell’istituto dei permessi premio, previsto dall’art. 30-ter della legge n. 354 del 1975, la cui fruizione – stanti i relativi presupposti, soggettivi ed oggettivi – restava in fatto preclusa a larga parte della popolazione carceraria.  

Se l’esito decisorio sfociò in una battuta d’arresto e, quindi, in una statuizione d’inammissibilità, purtuttavia, il giudice delle leggi rimarcò, in tale occasione, come si trattasse di un problema che meritava ogni attenzione da parte del legislatore, soprattutto sotto la spinta delle indicazioni provenienti da numerosi atti sovranazionali, quali le raccomandazioni del Consiglio d’Europa – in specie, la Raccomandazione n. 1340(1997) dell’Assemblea generale, sugli effetti sociali e familiari della detenzione (art. 6), e la Raccomandazione R (2006)2 del Comitato dei ministri, sulle regole penitenziarie europee (regola n. 24.4) –nonché la Raccomandazione del Parlamento europeo n. 2003/2188(INI) del 9 marzo 2004, sui diritti dei detenuti nell’Unione europea (art. 1, lettera c).

Ed è proprio da tale invito rivolto al legislatore rimasto nelle more inerte che prende le mosse il magistrato di sorveglianza di Spoleto auspicando una pronuncia additiva, la cui attuazione avrebbe poi potuta essere assicurata dal singolo Tribunale di sorveglianza, compatibilmente con le condizioni della singola struttura carceraria.

Entrando nel vivo dell’argomentazione dell’ordinanza di rimessione, l’argomentazione logica del giudice a quo mette in luce il contrasto con diversi parametri costituzionali e convenzionali.

In primo luogo, viene evocato il principio personalista racchiuso nell’art. 2 Cost. in quanto l’affettività è senza dubbio un diritto inviolabile della persona che si esprime anche attraverso il diritto alla sessualità. Il carcere non può essere una condizione che determina una cesura assoluta con l’esterno, in cui la persona viene privata anche del nucleo duro e fondamentale alla libera espressione della sua personalità, ivi compresa la dimensione affettiva.  

In secondo luogo, sarebbe violato l’art. 3 Cost., sotto un duplice profilo, quello della ragionevolezza, per avere il divieto di intimità negli incontri familiari carattere assoluto, e quello della disparità di trattamento rispetto agli istituti penitenziari minorili, all’interno dei quali l’art. 19 del d.lgs. n. 121 del 2018 ha ammesso lo svolgimento di visite prolungate a tutela dell’affettività. La “forzata astinenza dai rapporti sessuali con i congiunti in libertà” determinerebbe poi una compressione aggiuntiva della libertà personale del detenuto, ingiustificata qualora non ricorrano particolari esigenze di custodia, oltre che una violenza fisica e morale sulla persona del ristretto, emergendo così la violazione dei commi primo e quarto dell’art. 13 Cost.  

Al medesimo tempo, una pena caratterizzata dalla “sottrazione di una porzione significativa di libera disponibilità del proprio corpo e del proprio esprimere affetto” sarebbe altresì contraria al senso di umanità e incapace di assolvere alla funzione rieducativa, con conseguente violazione dell’art. 27, terzo comma, Cost. L’impossibilità di coltivare in modo pieno le relazioni affettive potrebbe anche negativamente incidere sulla continuità e sulla saldezza dei legami familiari del detenuto, protette dagli artt. 29, 30 e 31 Cost., e compromettere altresì la salute psicofisica del medesimo, garantita dall’art. 32 Cost.

Ne scaturirebbe, infine, la distorsione della pena in un trattamento inumano e degradante, lesivo del diritto del detenuto al rispetto della propria vita privata e familiare, e quindi risulterebbe violato l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 3 e 8 CEDU.

Dinnanzi alle plurime violazioni prospettate, la Corte, una volta superato il preliminare ostacolo che, in precedenza aveva inibito una pronuncia additiva di principio, dando atto dell’entrata in vigore di una legge di riforma dell’ordinamento penitenziario sullo specifico punto della qualificazione delle relazioni affettive, entra ex abrupto nel merito della questione, sotto il filtro specifico del valore super primario della dignità personale, limite oltre il quale il sacrificio della libertà stessa si rivela costituzionalmente ingiustificabile.

Nel quadro del valore della dignità umana, la Corte afferma che “lo stato di detenzione può incidere sui termini e sulle modalità di esercizio della libertà di vivere pienamente il sentimento di affetto, ma non può annullarla in radice, con una previsione astratta e generalizzata, insensibile alle condizioni individuali della persona detenuta e alle specifiche prospettive del suo rientro in società”. Partendo dalla premessa assiologica del carcere quale “luogo di diritti”, la Corte riconosce che l’art. 18, terzo comma, dell’ordinamento penitenziario, nell’imporre il controllo a vista dei colloqui senza eccezioni “restringe lo spazio di espressione dell’affettività, per la naturale intimità che questa presuppone, in ogni sua manifestazione, non necessariamente sessuale” e impone una prescrizione assoluta da dover essere sottoposta “ad un giudizio di irragionevolezza per difetto di proporzionalità”.

Il giudizio di irragionevolezza del divieto assoluto è rafforzato, nell’argomentazione della Corte, dal richiamo alle regole penitenziarie europee, laddove la regola 24.4 prescrive che le visite devono essere svolte in modalità tali da consentire ai detenuti di mantenere le relazioni familiari in “as normal a manner as possible” ed, al contempo, dal formante offerto dalla giurisprudenza costituzionale in materia di tutela della dignità della persona privata della libertà personale, laddove la medesima aveva statuito che «[l]a dignità della persona (art. 3, primo comma, della Costituzione) anche in questo caso – anzi: soprattutto in questo caso, il cui dato distintivo è la precarietà degli individui, derivante dalla mancanza di libertà, in condizioni di ambiente per loro natura destinate a separare dalla società civile – è dalla Costituzione protetta attraverso il bagaglio degli inviolabili diritti dell’uomo che anche il detenuto porta con sé lungo tutto il corso dell’esecuzione penale» [2]. Da qui il passo è breve per la Consulta per riconoscere la violazione dello stesso articolo 27 della Costituzione, in quanto una pena che impedisce al condannato di esercitare l’affettività nei colloqui con i familiari rischia di rivelarsi inidonea alla finalità rieducativa. La Consulta ribadisce come “l’intimità degli affetti non può essere sacrificata dall’esecuzione penale oltre la misura del necessario, venendo altrimenti percepita la sanzione come esageratamente afflittiva, sì da non poter tendere all’obiettivo della risocializzazione”.  Il test di proporzionalità tra il diritto all’affettività ed il radicale divieto posto dall’art. 18 o.p., viene, quindi, elevato su un diverso piano più alto delle fonti e riportato sotto il fulcro della  violazione dell’art. 8 CEDU. La Corte di Strasburgo non esclude, infatti, che il singolo ordinamento possa rifiutare l’accesso alle visite coniugali quando ciò sia giustificato da obiettivi di prevenzione del disordine e del crimine, ai sensi del paragrafo 2 dell’art. 8 CEDU[3]. Viene però richiesto un «fair balance» tra gli interessi pubblici e privati coinvolti ovvero un test di proporzionalità della restrizione carceraria[4]e, quand’anche la visita coniugale sia intesa in senso premiale, si esige un’adeguata valutazione di taglio casistico[5].

La pronuncia, infine, si snoda su considerazioni pratiche ed affronta anche le considerazioni di natura organizzativa che possano facilitare l’effettività del diritto in questione, essendo la Corte anche consapevole delle difficoltà strutturali presenti negli Istituti Penitenziari: i colloqui dovranno avere una durata adeguata a favorire l’affettività, dovranno svolgersi in luoghi appropriati che si identificano in unità abitative appositamente attrezzate all’interno degli istituti e l'accesso dovrà riguardare in via prioritaria, sulla scia di quanto previsto dall’ordinamento penitenziario minorile, coloro che non sono ammessi ai permessi premio. Rimangono casi ostativi quelli in cui sia stata accertata la pericolosità sociale del detenuto, ma anche – irregolarità di condotta e precedenti disciplinari, in una valutazione complessiva che appartiene in prima battuta all’amministrazione e in secondo luogo al magistrato di sorveglianza, sulla base del modulo ordinario di cui agli artt. 35-bis e 69, comma 6, lettera b), ordin. penit.  Inoltre, il divieto continuerà a sussistere per i detenuti sottoposti al regime differenziato dell’art. 41 bis O.P. e per coloro che sono sottoposti al regime della sorveglianza particolare, ma non vi è dubbio che sarebbe auspicabile una valutazione case by case in quanto non ogni attitudine alla recidiva e/o condanna per infrazione disciplinare, potranno condurre in maniera automatica al disconoscimento del diritto all’affettività. La sentenza impone un difficile lavoro per l’Amministrazione penitenziaria e per la Magistratura di Sorveglianza ma il suo avveramento, ricordando le parole di Massimo Pavarini potrà “ridisegnare, in senso favorevole ai detenuti, il margine di disumanità del castigo”, ed innovare profondamente l’approccio agli spazi della detenzione quale  “luogo che libera le relazioni invece di opprimerle” (Alessandro Margara).

 

[1] Corte Cost. sent. n. 301 del 2012.

[2] Corte Cost. sentenza 26 del 1999

[3] CEDU, sentenza  del 29 aprile 2003, Aliev contro Ucraina.

[4] CEDU, sentenza del 4 dicembre 2007, Dickson contro Regno Unito.

[5] CEDU, sentenza del 1 luglio 2021, Lesław Wójcik contro Polonia

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