Con sentenza n. 23583, depositata il 12 giugno 2024, la Corte di Cassazione, quinta sezione penale, ha offerto la sua interpretazione riguardo ad alcune sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo riguardo all'utilizzo di campioni biologici in procedimenti penali.
La madre di un uomo condannato per i delitti di duplice omicidio e di detenzione e porto abusivo d’arma da sparo, aggravati dal metodo mafioso, agendo sulla base degli interessi di quest’ultimo, aveva presentato domanda di revisione della pronuncia della Corte di appello contestando l’acquisizione di reperti biologici del figlio, sulla base della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU) Petrovic c. Serbia del 2020. L’istanza tuttavia era stata respinta.
La donna, sempre nell’interesse del figlio, sostiene che nel processo di revisione, non si era valutato il fatto che il prelievo del patrimonio genetico del figlio era stato operato in difetto del di lui consenso, visto che le sostanze ematiche, contenute in provette, erano state sequestrate presso un ospedale dove l’uomo stava compiendo le necessarie analisi mediche. La donna, in particolare, richiama l’art. 8 della CEDU, in base alla quale si può ritenere che il prelievo costituisse violazione della privacy del figlio. Infatti secondo la donna, non poteva concludersi che, solo per aver lasciato il proprio materiale biologico nelle provette di un ospedale, l’uomo avesse perso la sua naturale signoria sul sangue in esse contenuto. Si era anche sviata la ragione di tale disponibilità, limitata agli accertamenti medici richiesti dall’interessato. La giurisprudenza della Corte EDU si era difatti già espressa più volte in tema di acquisizione di DNA non consentita (Petrovic c. Serbia del 14/08/2020; Marper c. Regno Unito del 4/12/2008; Caruana c. Malta del 15/5/2018; W. c. Olanda del 20/01/2009).
La Corte di Cassazione respinge il ricorso della donna sulla base di una pluralità di motivazioni. Quella più rilevante, dal punto di vista delle fonti internazionali, riguarda il fatto che secondo la Corte, le sentenze della Corte EDU richiamate in giudizio dalla ricorrente muovono da un presupposto diverso, ovvero il prelievo diretto dall’imputato del materiale biologico da utilizzare per la comparazione con le tracce raccolte, mentre nel caso di specie non vi era stato alcun prelievo forzoso dei reperti direttamente dall’imputato – ossia un prelievo “che, per la sua connaturata invasività, deve certamente prevedere strumenti di tutela”. Nel caso oggetto della presente istanza di revisione, non solo non si era pervenuti al prelievo diretto dall’interessato ma, comunque, anche se tale evenienza si fosse verificata, la legislazione italiana che detta disposizione specifiche in tema di prelievo forzoso – art. 224 bis cod. proc. pen e art. 359 bis cod. proc. pen. – avrebbe garantito il diritto alla riservatezza del ricorrente. Così la Corte stabilisce che l’elemento di prova non era inutilizzabile.
L’assunto della Corte è che il prelievo in questione, per il solo fatto che non è effettuato direttamente sul soggetto, non è atto invasivo né costrittivo e quindi si possono non applicare quelle disposizioni sopra richiamate del cod. proc. pen. e di conseguenza si può eccettuare l’osservanza delle garanzie difensive, che devono essere garantite solo nelle successive operazioni di comparazione del dato genetico. La Corte, infatti, sottolinea che l’ordinamento processuale italiano ha una specifica disciplina per tutelare la privacy degli interessati riguardo ai dati sanitari che deve essere garantita “solo a valle della loro pertinenza al processo, per evitarne la non necessaria divulgazione al pubblico indistinto”.