Fonti internazionali

La Corte costituzionale sulla rettificazione dell’attribuzione di sesso: inammissibile la questione sul “terzo genere” (3/2024)

1. I presupposti

Con la sentenza n. 143 del 2024 la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibili, per eccesso del parametro del sindacato della Corte, le questioni di legittimità sollevate dal Tribunale di Bolzano in materia di rettificazione di attribuzione di sesso. In particolare, la domanda verteva sulla possibilità di riconoscere giuridicamente le identità di genere non binarie attraverso una modifica del sistema di registrazione attuale.

Il caso di specie ha riguardato una persona di sesso anagrafico femminile (L.N.) che però si identificava in un genere non binario, non riconoscendosi né nel proprio genere biologico né in quello maschile. A seguito di una diagnosi di disforia di genere per identificazione non binaria con propensione alla componente maschile, L.N. si è rivolta al Tribunale di Bolzano per ottenere la rettificazione del sesso da “femminile” ad “altro” nonché per vedersi riconosciuto il diritto di sottoporsi a ogni intervento medico-chirurgico in senso gino-androide.

 

Il Tribunale di Bolzano, al fine di prendere in considerazioni tali richieste, ha sollevato due questioni di legittimità costituzionale:

  • censura l’art. 1 della L. n. 164/1982 perché, nella parte in cui non prevede che quello assegnato con la sentenza di rettificazione dell’attribuzione di sesso possa essere un “altro sesso” diverso dal maschile e femminile, violerebbe gli artt. 2, 3, 32 e 117 co. 1 Cost. quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU;
  • censura l’art. 31 co. 4 del d.lgs. n. 150 del 2011 perché, nella parte in cui subordina all’autorizzazione del tribunale la realizzazione del trattamento medico-chirurgico di adeguamento dei caratteri sessuali, violerebbe gli artt. 2, 3 e 32 Cost.

2. L’inammissibilità della questione sull’introduzione di un terzo genere

Quanto alla prima questione, la Corte ha dichiarato inammissibili le questioni sollevate nei confronti dell’art. 1 della legge n. 164 del 1982, nella parte in cui non prevede che la rettificazione possa determinare l’attribuzione di un genere “non binario” (né maschile, né femminile).

Le questioni relative all’art. 1 della legge n. 164 del 1982 sarebbero inammissibili per il carattere «creativo» del petitum, «eccedente rispetto ai poteri della Corte costituzionale, implicando scelte affidate alla discrezionalità politica del legislatore»[1]. In altre parole, la Corte ha ritenuto che un riconoscimento giuridico per via giudiziale della attribuzione di un’identità non binaria, in mancanza di legge specifica, avrebbe comportato un superamento dei limiti del proprio ruolo, andando oltre il mandato affidato al giudice costituzionale.

A parere della Corte, pertanto, questa materia, così complessa e delicata, richiede un intervento legislativo che fornisca un quadro normativo chiaro e condiviso, piuttosto che una modifica derivante da un’interpretazione costituzionale. Una decisione di questo tipo, infatti, avrebbe profonde conseguenze per diversi ambiti dell’ordinamento, strutturati secondo una logica binaria. La sentenza ha sottolineato, difatti, come la caratterizzazione binaria (uomo-donna) informi, ad esempio, il diritto di famiglia, del lavoro e dello sport, la disciplina dello stato civile e del prenome, nonché la conformazione dei “luoghi di contatto” (carceri, ospedali e simili).

Dopo aver esaminato le soluzioni adottate dagli altri Stati europei, la Corte ha ricordato che la Corte Edu ha recentemente stabilito che l’art. 8 CEDU non impone un obbligo positivo di riconoscimento giuridico per le identità non binarie. La Corte EDU ha motivato questa posizione con l’assenza di un consenso consolidato a livello europeo su tale questione[2]

La Corte costituzionale, dunque, ha confermato che, in base al quadro normativo attuale e alla posizione della Corte EDU, non esiste un obbligo costituzionale per l’Italia di introdurre un sistema di registrazione specifico per le identità non binarie.

Senonché, la Corte ha rilevato che «la percezione dell’individuo di non appartenere né al sesso femminile, né a quello maschile – da cui nasce l’esigenza di essere riconosciuto in una identità “altra” – genera una situazione di disagio significativa rispetto al principio personalistico cui l’ordinamento costituzionale riconosce centralità (art. 2 Cost.)» e che, «nella misura in cui può indurre disparità di trattamento o compromettere il benessere psicofisico della persona, questa condizione può del pari sollevare un tema di rispetto della dignità sociale e di tutela della salute, alla luce degli artt. 3 e 32 Cost.».

Tali considerazioni – ha concluso la Corte – unitamente alle indicazioni del diritto comparato e dell’Unione europea, devono porre la condizione non binaria all’attenzione del legislatore, primo interprete della sensibilità sociale.

3. L’ammissibilità della questione sul trattamento medico-chirurgico

La Corte ha invece ritenuto fondata la seconda questione.

Anzitutto, la Corte ha fatto presente come la previsione dell’autorizzazione giudiziale per i trattamenti medico-chirurgici di adeguamento dei caratteri sessuali ha rappresentato una cautela adottata dalla legge n. 164 del 1982 nel momento in cui l’ordinamento italiano si apriva alla rettificazione dell’attribuzione di sesso.

L’attuale regime autorizzatorio risulta oggi irrazionale nella sua rigidità, poiché non si è adattato nel tempo all’evoluzione giurisprudenziale. Questa ha infatti chiarito che, per ottenere la rettificazione anagrafica, non è obbligatorio un intervento chirurgico di adeguamento dei caratteri sessuali, considerato solo una delle opzioni possibili per garantire il pieno benessere psicofisico della persona.[3].

Per la rettificazione anagrafica, è oggi sufficiente accertare l’avvenuta transizione oggettiva dell’identità di genere, che può emergere dal percorso intrapreso dalla persona interessata. Questo percorso può essere completato anche senza un intervento chirurgico, grazie a terapie ormonali e supporto psicologico-comportamentale. In altre parole, la Corte ha rilevato che, poiché la transizione di genere può realizzarsi mediante trattamenti ormonali e supporto psicologico, l’obbligo di autorizzazione giudiziale previsto dalla norma risulta chiaramente irragionevole se riferito a un intervento chirurgico che avverrebbe comunque dopo la rettificazione già avvenuta. In questi casi, il regime autorizzatorio, non essendo rilevante per determinare i presupposti della rettificazione, già verificatisi indipendentemente dal trattamento chirurgico, viola l’art. 3 della Costituzione, poiché non risponde più alla ratio legis.

L’autorizzazione del Tribunale per i trattamenti medico-chirurgici di adeguamento dei caratteri sessuali prevista dall’art. 31 co. 4 del d.lgs. 150/2011 ha perso, dunque, ogni ragion d’essere in quanto, nella prassi, si verifica che le autorizzazioni agli interventi concesse dai Tribunali di merito vengano rilasciate contestualmente alla sentenza di rettificazione e non prima di quest’ultima né in sua funzione. Non essendo dunque più necessario l’intervento chirurgico per ottenere una sentenza di rettificazione, non sarà più necessaria nemmeno l’autorizzazione del Tribunale a sottoporvisi.

4. Conclusioni

Tanto premesso, la Corte ha  dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 31, comma 4, del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69), nella parte in cui prescrive l’autorizzazione del tribunale al trattamento medico-chirurgico anche qualora le modificazioni dei caratteri sessuali già intervenute siano ritenute dallo stesso tribunale sufficienti per l’accoglimento della domanda di rettificazione di attribuzione di sesso;

La Corte ha invece dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 14 aprile 1982, n. 164 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso), sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 32 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, dal Tribunale ordinario di Bolzano.

 

[1] Si riprendono, in tal senso, le parole della Corte.

[2] vedi C. Edu, Y. v. Francia, 31 gennaio 2023, Respect for Private life ex art. 8 Cedu. Secondo i giudici della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo non viola l’art. 8 della Convenzione (diritto al rispetto della vita privata e familiare) lo Stato che si rifiuti di sostituire sul certificato di nascita del richiedente la menzione “sesso maschile” con la menzione “genere neutro” o “intersessuale”. Sul punto, la Corte ha rilevato che l’accoglimento da parte della Corte della domanda proposta dal ricorrente, avrebbe comportato necessariamente imporre in capo allo Stato convenuto l’obbligo di modificare la propria legislazione nazionale (ex art. 46 CEDU). Secondo la Corte è tuttavia necessario attribuire peso particolare al ruolo del decisore politico nazionale in questioni come quella dedotta che interessano questioni di politica generale su cui le opinioni, all’interno della società democratica, possono ragionevolmente differire. Questo si rende necessario anche vista l’assenza di consenso europeo in materia. La Corte non ha mancato tuttavia di ricordare sul punto come la Convenzione sia uno strumento vivo e che, di conseguenza, deve sempre essere interpretato e applicato alla luce delle circostanze attuali considerando che misure giuridiche appropriate dovrebbero essere previste tenendo conto, in particolare, dei cambiamenti interni alla società e della mutata sensibilità sociale.

[3] v. Corte cost., sent. n. 221 del 21 ottobre 2015, ove la Corte ha precisato che il trattamento chirurgico non deve essere considerato quale prerequisito per accedere al procedimento di rettificazione, ma come possibile mezzo, funzionale al conseguimento di un pieno benessere psicofisico.  

Osservatorio sulle fonti

Rivista telematica registrata presso il Tribunale di Firenze (decreto n. 5626 del 24 dicembre 2007). ISSN 2038-5633.

L’Osservatorio sulle fonti è stato riconosciuto dall’ANVUR come rivista scientifica e collocato in Classe A.

Contatti

Per qualunque domanda o informazione, puoi utilizzare il nostro form di contatto, oppure scrivici a uno di questi indirizzi email:

Direzione scientifica: direzione@osservatoriosullefonti.it
Redazione: redazione@osservatoriosullefonti.it

Il nostro staff ti risponderà quanto prima.

© 2017 Osservatoriosullefonti.it. Registrazione presso il Tribunale di Firenze n. 5626 del 24 dicembre 2007 - ISSN 2038-5633