Sentenza n. 135/2024 - giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale
Deposito del 18/07/2024 - Pubblicazione in G. U. 24/07/2024 n. 30
Con ordinanza del 17 gennaio 2024, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Firenze ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 32 e 117 della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale, «come modificato dalla sentenza n. 242 del 2019», nella parte in cui subordina la non punibilità di chi agevola l’altrui suicidio alla condizione che l’aiuto sia prestato a una persona «tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale».
In base alle pacifiche risultanze delle indagini preliminari, svolte a seguito di autodenuncia degli stessi indagati, a M. S. era stata diagnosticata nel 2017 la sclerosi multipla, patologia del sistema nervoso centrale che provoca una progressiva invalidità del paziente. Dopo l’esordio dei primi sintomi lievi, il quadro clinico era rimasto stazionario per alcuni anni, sino a che, sul finire del 2021, si era avuto un significativo e rapido peggioramento delle condizioni di vita del paziente. M. S. era rimasto definitivamente impossibilitato a muoversi dal letto, con pressoché totale immobilizzazione anche degli arti superiori, salva una residua capacità di utilizzazione del braccio destro.
M. S. aveva iniziato a maturare il proposito di porre fine alla sua vita, per ragioni legate alla patologia di cui soffriva. Nel 2022, in corrispondenza con il grave deterioramento delle sue condizioni di salute, il proposito di M. S. si era trasformato in ferma determinazione. Egli aveva preso quindi contatto con una organizzazione elvetica, avvalendosi dell’intermediazione di C., soggetto che agiva quale legale rappresentante dell’associazione di soccorso da lui fondata. M. S. aveva raggiunto il territorio elvetico il 6 dicembre 2022 a bordo del mezzo, guidato a turno dalle indagate C. L. e F. M.
La procedura si era conclusa l’8 dicembre 2022.
A parere del rimettente, la condotta degli indagati rientrerebbe senz’altro nella sfera applicativa dell’art. 580 codice penale, e in particolare della fattispecie criminosa dell’aiuto al suicidio. Sarebbe questa, in effetti, l’unica ipotesi configurabile tra quelle descritte dalla norma incriminatrice, non essendovi elementi che consentano di muovere addebiti agli indagati per la distinta fattispecie dell’istigazione al suicidio.
A parere del rimettente, la condotta degli indagati non rientrerebbe neppure nell’ipotesi di non punibilità introdotta nell’art. 580 codice penale dalla sentenza n. 242 del 2019 della Corte costituzionale stessa. Mancherebbe, infatti, uno dei requisiti cui essa è subordinata: segnatamente, quello della dipendenza dell’aspirante suicida da «trattamenti di sostegno vitale».
Al riguardo, il rimettente osserva come la Corte non abbia fornito, né nell’ordinanza n. 207 del 2018, né nella sentenza n. 242 del 2019, una definizione del concetto di «trattamenti di sostegno vitale». Vi è soltanto, nell’ordinanza, il riferimento – con evidente valenza esemplificativa – a trattamenti «quali la ventilazione, l’idratazione o l’alimentazione artificiali». In relazione ad altre vicende di pazienti che avevano ottenuto l’assistenza al suicidio all’estero, la giurisprudenza di merito ha ritenuto che il concetto in questione non possa essere limitato alla sola “dipendenza da una macchina”, ma comprenda anche i casi in cui il sostegno vitale sia realizzato «con terapie farmaceutiche o con l’assistenza di personale medico o paramedico», trattandosi pur sempre di «trattamenti interrompendo i quali si verificherebbe la morte del malato, anche in maniera non rapida».
Pure in questa lettura ampia, il requisito non potrebbe essere, tuttavia, ritenuto sussistente nel caso in esame. Secondo quanto emerso dalle indagini, infatti, M. S. non solo non si avvaleva di alcun supporto meccanico (ventilazione, nutrizione, idratazione artificiale o altro), ma neppure era sottoposto a terapie farmacologiche salvavita, né richiedeva interventi assistenziali quali manovre di evacuazione manuale o simili.
Ritenute dunque sussumibili le condotte di agevolazione del caso di specie nella fattispecie di cui all’art. 580 c.p., il giudice a quo con la medesima ordinanza sollevava contestualmente dubbi di legittimità costituzionale del requisito in parola con riferimento specificatamente all’art. 3 Cost. (in quanto si viene a determinare un’irragionevole disparità di trattamento fra situazioni sostanzialmente identiche), agli artt. 2, 13 e 32, co. 2, Cost. (in quanto il requisito provocherebbe una compressione della libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie), nonché all’art. 117 Cost. in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU (implicando un’interferenza nel diritto al rispetto della vita privata e familiare non funzionale alla tutela del diritto alla vita).
Nessuna di tali questioni è, a giudizio della Corte, fondata.
Il requisito della dipendenza del paziente da trattamenti di sostegno vitale svolge, in assenza di un intervento legislativo, un ruolo cardine nella logica della soluzione adottata con l’ordinanza n. 207 del 2018, poi ripresa nella sentenza n. 242 del 2019. La Corte non ha riconosciuto un generale diritto di terminare la propria vita in ogni situazione di sofferenza intollerabile, fisica o psicologica, determinata da una patologia irreversibile, ma ha soltanto ritenuto irragionevole precludere l’accesso al suicidio assistito di pazienti che – versando in quelle condizioni, e mantenendo intatte le proprie capacità decisionali – già abbiano il diritto, loro riconosciuto dalla legge n. 219 del 2017 in conformità all’art. 32, secondo comma, Cost., di decidere di porre fine alla propria vita, rifiutando il trattamento necessario ad assicurarne la sopravvivenza. Una simile ratio, all’evidenza, non si estende a pazienti che non dipendano da trattamenti di sostegno vitale, i quali non hanno (o non hanno ancora) la possibilità di lasciarsi morire semplicemente rifiutando le cure. Le due situazioni sono, dunque, differenti dal punto di vista della ratio adottata nelle due decisioni menzionate; sicché viene meno il presupposto stesso della censura di irragionevole disparità di trattamento di situazioni analoghe, formulata con riferimento all’art. 3 Cost.
La seconda censura, anch’essa ritenuta infondata, discute il mancato riconoscimento del diritto al suicidio assistito per i pazienti non dipendenti da trattamenti di sostegno vitale, ritenendo che ciò violi il diritto all’autodeterminazione (artt. 2, 13 e 32, c. 2, Cost.). La Corte riconosce il diritto fondamentale del paziente a rifiutare trattamenti medici, inclusi quelli necessari alla sopravvivenza, ma distingue questo diritto dalla nozione più ampia di «autodeterminazione terapeutica», che implica il diritto a disporre della propria vita con l'assistenza di terzi, come riconosciuto da alcune corti costituzionali europee e internazionali. La Corte ritiene che ogni scelta di legalizzazione di pratiche di suicidio assistito o di eutanasia amplia gli spazi riconosciuti all’autonomia della persona nel decidere liberamente sul proprio destino, ma crea – al tempo stesso – rischi che l’ordinamento ha il dovere di evitare, in adempimento del dovere di tutela della vita umana che, esso pure, discende dall’art. 2 Cost. I rischi in questione non riguardano solo la possibilità che vengano compiute condotte apertamente abusive da parte di terzi a danno della singola persona che compia la scelta di porre termine alla propria esistenza, ma riguardano anche la possibilità che, in presenza di una legislazione permissiva non accompagnata dalle necessarie garanzie sostanziali e procedimentali, si crei una «pressione sociale indiretta» su altre persone, malate o semplicemente anziane e sole, le quali potrebbero convincersi di essere divenute ormai un peso per i propri familiari e per l’intera società, e di decidere così di farsi anzitempo da parte. Dovrà riconoscersi un significativo spazio alla discrezionalità del legislatore, al quale spetta primariamente il compito di offrire una tutela equilibrata a tutti i diritti di pazienti che versino in situazioni di intensa sofferenza.
La terza censura assume la contrarietà al principio di tutela della dignità umana di una situazione normativa che vieti, sotto minaccia di pena, di prestare assistenza a pazienti che chiedano di morire in presenza di tutte le condizioni indicate nella sentenza n. 242 del 2019, salva la dipendenza da trattamenti di
sostegno vitale. Occorre sottolineare che, dal punto di vista dell’ordinamento, ogni vita è portatrice di una inalienabile dignità, indipendentemente dalle concrete condizioni in cui essa si svolga. Sicché, certamente non potrebbe affermarsi che il divieto penalmente sanzionato di cui all’art. 580 codice penale costringa il paziente a vivere una vita, oggettivamente, “non degna” di essere vissuta.
Altro discorso vale, però, per la nozione “soggettiva” di dignità, nozione che si connette alla concezione che il paziente ha della propria persona. La Corte non è affatto insensibile alla nozione “soggettiva” di dignità. Tuttavia, non può non rilevarsi che questa nozione di dignità finisce in effetti per coincidere con quella di autodeterminazione della persona, la quale a sua volta evoca l’idea secondo cui ciascun individuo debba poter compiere da sé le scelte fondamentali che concernono la propria esistenza, incluse quelle che concernono la propria morte.
Rispetto a tale nozione, occorre la sua necessaria sottoposizione a un bilanciamento a fronte del contrapposto dovere di tutela della vita umana; bilanciamento nell’operare il quale il legislatore deve poter disporre di un significativo margine di apprezzamento.
Infine, il giudice a quo sostiene che la normativa che vieta l'assistenza al suicidio per pazienti non dipendenti da trattamenti di sostegno vitale, ma affetti da patologie irreversibili e capaci di decidere, violi il diritto alla vita privata (art. 8 CEDU) e crei una discriminazione (art. 14 CEDU).
La Corte a riguardo richiama alcune pronunce della Corte EDU con cui si è arrivati a riconoscere il diritto di decidere quando e come porre fine alla propria vita come parte del diritto al rispetto della vita privata.
La Corte EDU ha concluso che spetta ai singoli Stati valutare le vaste implicazioni sociali e i rischi di abuso e di errore che ogni legalizzazione delle procedure di suicidio medicalmente assistito inevitabilmente comporta.
La Corte non ravvisa ragioni per discostarsi, nella lettura dell’art. 8 CEDU, dalla Corte di Strasburgo, che è interprete ultima delle previsioni convenzionali, ai sensi degli artt. 19 e 32 CEDU.
Una tale soluzione, d’altra parte, collima esattamente con quella cui la Corte è pervenuta in merito alla censura relativa al principio di autodeterminazione nella sua declinazione “interna”, con riferimento in particolare all’art. 2 Cost.
Né, infine, può essere ravvisato un contrasto con il divieto di discriminazione ai sensi dell’art. 14 CEDU: non può infatti ritenersi irragionevole la limitazione della liceità dell’aiuto al suicidio ai soli pazienti che abbiano già la possibilità, in forza del diritto costituzionale, di porre fine alla loro esistenza rifiutando i trattamenti di sostegno vitale.
Infine, la Corte non può che ribadire con forza l’auspicio, già formulato nell’ordinanza n. 207 del 2018 e nella sentenza n. 242 del 2019, che il legislatore e il servizio sanitario nazionale intervengano prontamente ad assicurare concreta e puntuale attuazione ai principi fissati da quelle pronunce, ribaditi e ulteriormente precisati dalla presente decisione, ferma restando la possibilità per il legislatore di dettare una diversa disciplina, nel rispetto dei principi richiamati dalla presente pronuncia.