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La sentenza della Corte di giustizia nella causa c-256/11, Dereci e A. (1/2012)

Zambrano atto terzo?[1]

La mera circostanza che possa apparire auspicabile al cittadino di uno Stato membro, per ragioni economiche o per mantenere l’unità familiare del territorio dell’Unione, che i suoi familiari, che non possiedono la cittadinanza di uno Stato membro, possano soggiornare con lui nel territorio dell’Unione, non basta di per sé a far ritenere che il cittadino dell’Unione sia costretto ad abbandonare il territorio dell’Unione qualora un tale diritto non gli venga concesso.

Con la sentenza nel procedimento C-256/11, Dereci, la Corte di giustizia è tornata a precisare il proprio precedente Zambrano, in materia di invocabilità nei confronti dello Stato membro di origine dello status di cittadino dell’Unione da parte di persone che non hanno (ancora) esercitato il proprio diritto alla libera circolazione (si veda, in questa Rubrica, la scheda relativa alla sentenza 8 marzo 2011, causa C-34/09, Ruiz Zambrano, non ancora pubblicata in Raccolta). Il rinvio pregiudiziale, proposto questa volta da un giudice austriaco (il Verwaltungsgerichtshof), trae origine da cinque procedimenti, che ponevano problemi simili sotto il profilo della (eventuale) rilevanza del diritto dell’Unione. In breve, tutti i ricorrenti dinanzi al giudice nazionale erano cittadini di Stati terzi, familiari di cittadini dell’Unione residenti in Austria, Stato membro di cui questi ultimi hanno la cittadinanza. Come in Zambrano, nessuno dei cittadini dell’Unione in questione aveva (ancora) esercitato il proprio diritto alla libera circolazione. Tuttavia, a differenza di quanto accadeva in Zambrano, nessuno di questi dipendeva per la propria sussistenza dal familiare cittadino di uno Stato terzo. Al contrario, in due casi il ricorrente cittadino di uno Stato terzo si trovava in una condizione di dipendenza economica dal cittadino dell’Unione. Tutti i procedimenti traevano origine dal rigetto della rispettiva domanda di soggiorno in Austria. Inoltre, i ricorrenti che già risiedevano in Austria (ovvero, tutti tranne uno) erano stati anche oggetto di provvedimenti di espulsione e allontanamento dal territorio austriaco. In tale contesto, il giudice del rinvio si domandava se le considerazioni svolte dalla Corte di giustizia nella sentenza Zambrano potevano considerarsi valide anche per una o più delle cause pendenti dinanzi ad esso. In altre parole, alla Corte si chiedeva di chiarire se il diniego di concedere il diritto di soggiorno al cittadino di uno Stato terzo, familiare di un cittadino dell’Unione che non ha ancora esercitato il proprio diritto alla libera circolazione, costituisca una privazione del godimento effettivo e sostanziale dei diritti conferiti dalla status di cittadino dell’Unione, anche qualora il cittadino dell’Unione non dipende economicamente dal familiare cittadino di uno Stato terzo, ovvero quest’ultimo dipende, al contrario, dal primo (cf. par. 33). Sebbene il giudice nazionale non lo affermasse espressamente nei quesiti pregiudiziali, è piuttosto evidente che il rinvio intendeva chiarire se il diritto fondamentale al rispetto della vita privata e familiare - di cui agli articoli, rispettivamente, 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea  e 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo - costituisca parte integrante del nucleo essenziale dello status di cittadino dell’Unione.

Come già in McCarthy (sentenza 5 maggio 2011, causa C-434/09, Shirley McCarthy, non ancora pubblicata in Raccolta), la Corte di giustizia ha ribadito l’esigenza di una lettura restrittiva del proprio precedente Zambrano. In primo luogo, la Corte ha escluso la possibilità di applicare ai casi di specie sia la direttiva 2003/86/CE,[2] relativa al ricongiungimento familiare, che la direttiva 2004/38/CE,[3] relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri. Infatti, come risulta dai suoi artt. 1 e 3, n. 3, la direttiva 2003/86/CE stabilisce i requisiti in presenza dei quali può essere esercitato il diritto al ricongiungimento familiare a favore dei cittadini di Stati terzi legalmente residenti in uno Stato membro, e non si applica invece ai familiari di un cittadino dell’Unione (paragrafi 46-48). D’altro canto, la direttiva 2004/38/CE «mira ad agevolare l’esercizio del diritto primario e individuale di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, conferito dal Trattato direttamente ai cittadini dell’Unione» (par. 50). Tuttavia, come già chiarito nella sentenza McCarthy, «un cittadino dell’Unione che non abbia mai fatto uso del suo diritto alla libera circolazione e che abbia sempre soggiornato in uno Stato membro di cui possiede la cittadinanza non rientra nella nozione di ‘avente diritto’, ai sensi dell’art. 3, n. 1, della direttiva 2004/38, per cui quest’ultima non gli è applicabile» (par. 54). In una tale situazione, neppure il familiare può ritenersi incluso nella nozione di ‘avente diritto’, poiché «i diritti conferiti dalla citata direttiva ai familiari di un avente diritto non sono diritti originari spettanti a tali familiari, bensì diritti derivati, da essi acquisiti nella loro qualità di familiari dell’avente diritto» (par. 55). A questo punto, la Corte è passata ad esaminare se «[m]algrado l’inapplicabilità delle direttive 2003/86 e 2004/38 (...) i cittadini dell’Unione interessati nel contesto di queste cause possano nondimeno fare appello alle norme del Trattato riguardanti la cittadinanza dell’Unione» (par. 59; corsivo aggiunto). Da notare che, nonostante i ricorrenti nei procedimenti principali fossero i cittadini di Stati terzi, l’attenzione della Corte si volge al familiare cittadino dell’Unione.[4] La Corte ha, dunque, ricordato la ‘regola generale’ in materia di applicazione delle norme del Trattato in materia di libera circolazione delle persone e degli atti che ad esse danno esecuzione, secondo cui questi «non possono essere applicati a situazioni che non presentino alcun fattore di collegamento con una qualsiasi delle situazioni contemplate dal diritto dell’Unione e i cui elementi rilevanti restino in complesso confinati all’interno di un unico Stato membro» (par. 60; cf. sentenze 1° aprile 2008, causa C-212/06, Governo della Comunità francese e Governo vallone, in Raccolta, p. I-1683, par. 33; Metock e a., cit., par. 77, nonché McCarthy, cit., par. 45). Tuttavia, dal momento che «lo status di cittadino dell’Unione è destinato ad essere lo status fondamentale dei cittadini degli Stati membri» (par. 62), la posizione del cittadino dell’Unione che non ha (ancora) fatto uso del suo diritto alla libera circolazione non può essere assimilata, per questa sola ragione, a una situazione puramente interna» (par. 61; cf. sentenze 12 luglio 2005, causa C-403/03, Schempp, in Raccolta, p. I-6421, par. 22, e McCarthy, cit., par. 46). In particolare, secondo quanto affermato nella sentenza Zambrano (cit., par. 42), «l’art. 20 TFUE osta a provvedimenti nazionali che abbiano l’effetto di privare i cittadini dell’Unione del godimento reale ed effettivo del nucleo essenziale dei diritti conferiti dallo status suddetto» (par. 64). La Corte ha tuttavia precisato che il criterio relativo alla privazione del contenuto sostanziale dei diritti attribuiti dallo status di cittadino dell’Unione ha «un carattere molto particolare» e trova, in definitiva, applicazione solo «in via eccezionale», ovvero in quelle ipotesi in cui «malgrado la circostanza che il diritto derivato relativo al diritto di soggiorno dei cittadini di Stati terzi non sia applicabile, un diritto di soggiorno non può essere negato», poiché, se così non fosse, il cittadino dell’Unione si troverebbe «obbligato, di fatto, ad abbandonare il territorio non solo dello Stato membro di cui è cittadino, ma anche dell’Unione considerata nel suo complesso» (paragrafi 66 e 67). Con riferimento ai casi di specie, la Corte ha quindi aggiunto che «la mera circostanza che possa apparire auspicabile al cittadino di uno Stato membro, per ragioni economiche o per mantenere l’unità familiare del territorio dell’Unione, che i suoi familiari, che non possiedono la cittadinanza di uno Stato membro, possano soggiornare con lui nel territorio dell’Unione, non basta di per sé a far ritenere che il cittadino dell’Unione sia costretto ad abbandonare il territorio dell’Unione qualora un tale diritto non gli venga concesso» (par. 68).

Tuttavia, la Corte ha precisato che questa conclusione «lascia indubbiamente impregiudicata la questione relativa all’esistenza di altri fondamenti, segnatamente nell’ambito del diritto relativo alla tutela della vita familiare, che non consentono di negare un diritto di soggiorno» (par. 69). La Corte ha quindi ricordato che la Carta riconosce il diritto al rispetto alla vita privata e familiare all’art. 7, al quale «occorre attribuire (...) lo stesso significato e la stessa portata attribuiti all’art. 8, n. 1, della CEDU» (par. 70). D’altrocanto, in virtù del suo art. 51, par. 2, «la Carta non estende l’ambito di applicazione del diritto dell’Unione al di là delle competenze dell’Unione, né introduce competenze nuove o compiti nuovi per l’Unione, né modifica le competenze ed i compiti definiti nei Trattati» (par. 71). Da ciò discende che «la Corte è chiamata ad interpretare, alla luce della Carta, il diritto dell’Unione nei limiti delle competenze riconosciute a quest’ultima» (ibidem; cf. sentenze 5 ottobre 2010, causa C-400/10 PPU, McB., non ancora pubblicata in Raccolta, par. 51, e 15 settembre 2011, cause riunite C-483/09 e C-1/10 Gueye e Salmerón Sanchez, non ancora pubblicata in Raccolta, par. 69). A questo punto, la Corte ha affermato che

«nel caso di specie, qualora il giudice del rinvio ritenga che, alla luce delle circostanze delle cause principali, le posizioni dei ricorrenti nelle cause principali siano soggette al diritto dell’Unione, esso dovrà valutare se il diniego del diritto di soggiorno di questi ultimi nelle cause principali leda il diritto al rispetto della vita privata e familiare, previsto dall’art. 7 della Carta. Viceversa, qualora ritenga che dette posizioni non rientrino nella sfera di applicazione del diritto dell’Unione, esso dovrà condurre un siffatto esame alla luce dell’art. 8, n. 1, della CEDU. Difatti, occorre ricordare che tutti gli Stati membri hanno aderito alla CEDU, la quale consacra, nel suo art. 8, il diritto al rispetto della vita privata e familiare» (paragrafi 72 e 73).

Il significato della prima affermazione risulta piuttosto oscuro, soprattutto se - come la Corte espressamente invita a fare - si tengono in considerazione le circostanze del caso (rectius, i casi) di specie. Infatti, nella prima parte del suo ragionamento, la Corte ha già escluso che la situazione dei ricorrenti ricada nell’ambito della direttiva 2003/86 ovvero della direttiva 2004/38. L’affermazione potrebbe avere un carattere generale, ed essere intesa a riaffermare, in sostanza, l’ovvio: se la situazione cade nell’ambito del diritto dell’Unione, allora i diritti fondamentali da quest’ultima garantiti trovano applicazione. Tuttavia, il duplice riferimento alle circostanze del caso di specie sembra escludere questa lettura. Considerato che il rinvio pregiudiziale ha tratto origine da cinque distinti procedimenti nazionali, si può, invece, ipotizzare che la Corte stia invitando il giudice nazionale a verificare le circostanze concrete delle posizioni dei cinque ricorrenti, per verificare se è possibile operare delle distinzioni. Si tratterebbe, allora, di stabilire se in alcuni di questi casi la negazione del permesso di soggiorno possa effettivamente avere come conseguenza quella di costringere il familiare cittadino dell’Unione ad abbandonare il territorio di quest’ultima. 

L’ultima parte della sentenza concerne, invece, l’interpretazione dell’art. 41, n. 1, del Protocollo addizionale all’Accordo che crea una associazione tra la Comunità economica europea (ora, l’Unione europea) e la Turchia.[5] Uno dei ricorrenti nei procedimenti principali, infatti, era un cittadino turco che aspirava a rimanere in Austria non solo per vivere con i familiari, ma anche per esercitare un’attività lavorativa. Nel 1997, il ricorrente - al tempo già entrato in Austria - aveva avanzato una prima domanda di autorizzazione allo stabilimento, adducendo di aver rilevato l’attività del fratello. All’epoca, la legge austriaca che stabiliva le condizioni relative all’ingresso, il soggiorno e lo stabilimento degli stranieri al momento della presentazione della domanda era quella in vigore dal 1995. Quest’ultima, sempre nel corso del 1997, era stata successivamente abrogata. Nel 2006, anche la legge del 1997 era stata abrogata, e la nuova normativa subordinava il primo ingresso degli stranieri a condizioni più rigorose. Sia l’art. 13 della decisione n. 1/80 (con cui è stato concluso, approvato e confermato, a nome della Comunità, l’Accordo di associazione con la Turchia) che l’art. 41, n. 1, del protocollo addizionale all’Accordo di associazione con la Turchia, fanno divieto agli Stati membri di introdurre nuove restrizioni, da un lato, sulle condizioni di accesso all’occupazione dei lavoratori turchi e dei loro familiari che soggiornino regolarmente nel loro territorio e, dall’altro, in materia di libertà di stabilimento e libera prestazione dei servizi da parte di detti lavoratori. Ora, queste disposizioni sono in entrate in vigore in Austria a partire dal 1° gennaio 1995, data dell’Atto di adesione di questo Stato all’Unione. A quella data, il regime in vigore in materia di stranieri era quello del 1995. Pertanto, con la seconda questione pregiudiziale, il giudice nazionale chiedeva, in sostanza, alla Corte se per ‘nuova restrizione’ ai sensi dell’art. 41, n. 1, del protocollo addizionale devono intendersi anche le norme nazionali che introducono un regime più severo di quelle che in precedenza disciplinavano lo stabilimento di cittadini turchi, anche laddove la disciplina abrogata aveva a sua volta già attenuato il regime vigente al momento dell’entrata in vigore del protocollo addizionale nello Stato membro interessato (par. 86).  Occorre osservare che il giudice nazionale aveva formulata la domanda con riferimento sia all’art. 13 della decisione n. 1/80 che all’art. 41, n. 1, del protocollo addizionale. La Corte ha tuttavia osservato che, dal momento che la posizione del ricorrente si ricollegava alla libertà di stabilimento, essa doveva essere valutata con riferimento al solo art. 41, n. 1, del protocollo addizionale (par. 83). Infatti, «benché queste due disposizioni presentino un identico significato, ciò nondimeno ad ognuna di esse è stato attribuito un ambito ben determinato, di modo che esse non possono essere applicate congiuntamente» (cf. sentenza 21 ottobre 2003, cause riunite C-317/01 e C-369/01, Abatay e a., in Raccolta, p. I-12301, par. 86). La Corte ha quindi richiamato la propria giurisprudenza relativa alla natura dell’art. 41, n. 1, del protocollo addizionale quale clausola di standstill (paragrafi 87-91; si veda anche la sentenza 20 settembre 2007, causa C-16/05, Tum e Dari, in Raccolta, p. I-7415).  La Corte ha poi ricordato di aver già affermato, in relazione all’art. 13 della decisione 1/80, l’esigenza che gli Stati membri non si discostino dall’obiettivo perseguito da tale clausola - ovvero, la creazione di condizioni favorevoli alla attuazione progressiva della libertà di stabilimento dei cittadini turchi -, rimettendo in discussione le norme adottate successivamente all’entrata in vigore sul loro territorio dell’Accordo per favorire la libera circolazione dei lavoratori turchi (par. 92; la sentenza a cui la Corte fa riferimento è quella resa il 9 dicembre 2010, cause riunite C-300/09 e 301/09, Topraz e Oguz, non ancora pubblicata in Raccolta). Dal momento che l’art. 13 della decisione n. 1/80 e l’art. 41, n. 1, del protocollo addizionale devono essere interpretati in maniera convergente (par. 94), la Corte ha concluso che una normativa quale quella austriaca del 2006 deve considerarsi una ‘nuova restrizione’ ai sensi dell’art. 41, n. 1, del protocollo addizionale (par. 98). La Corte ha infine respinto l’argomento presentato da alcuni Stati membri (in particolare, l’Austria, la Germania ed il Regno Unito), secondo cui il ricorrente non poteva avvalersi della clausola di standstill poiché esso soggiornava illegalmente in Austria. la Corte ha infatti affermato che, sebbene il ricorrente era entrato illegalmente in Austria, egli godeva, ai sensi della normativa nazionale vigente alla data della sua domanda di stabilimento, del diritto di presentare siffatta domanda in quanto coniuge di una cittadina austriaca. La sua posizione sarebbe divenuta successivamente irregolare, in base al diritto nazionale, per effetto della legge del 2006. Tuttavia, questa conseguenza non è accettabile, in quanto prodottasi a seguito dell’applicazione di una normativa nazionale che costituisce una nuova restrizione ai sensi del protocollo addizionale (paragrafi 99-100).

N.L.



[1] Sentenza del 15 novembre 2011, Grande sezione.

[2] In G.U.C.E. L 251, p. 12 ss.

[3] In G.U. L 158, p. 77, e rettifiche in G.U.U.E. 2004, L 229, p. 35 ss. e G.U.U.E. 2005, L 197, p. 34 ss.).

[4] Si veda, nello stesso senso, la sentenza 11 luglio 2001, Carpenter, C-60/00, in Raccolta, p. I-6279.

[5] L’accordo è stato siglato il 12 settembre 1963 ad Ankara dalla Repubblica di Turchia, da un lato, nonché degli Stati membri della CEE e dalla Comunità, dall’altro, e concluso, approvato e confermato, a nome di quest’ultima, con decisione (n. 1/80) del Consiglio 23 dicembre 1963, 64/732/CEE (in G.U.C.E. 1964, n. 217, p. 3685 ss.) Il protocollo addizionale è stato siglato il 23 novembre 1970 a Bruxelles e concluso, approvato e confermato a nome della Comunità con regolamento (CEE) del Consiglio 19 dicembre 1972, n. 2760 (in G.U.C.E L 293, p. 1 ss.).

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