Sentenza n. 12/2014 – giudizio sull’ammissibilità dei referendum
Deposito del 29/01/2014 – Pubblicazione in G.U. del 03/02/2014
Motivi della segnalazione:
In questa sentenza la Corte costituzionale era chiamata a pronunciarsi in ordine all’ammissibilità di una richiesta di referendum abrogativo presentata dai Consigli regionali delle Regioni Abruzzo, Basilicata, Calabria, Puglia, Marche, Friuli-Venezia Giulia, Campania, Liguria e Piemonte in merito all’ art. 1, commi 2, 3, 4, 5 e 5-bis della legge 14 settembre 2011, n. 148 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, recante ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo. Delega al Governo per la riorganizzazione della distribuzione sul territorio degli uffici giudiziari), come modificato dall’art. 1, comma 3, della legge 24 febbraio 2012, n. 14 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 29 dicembre 2011, n. 216, recante proroga di termini previsti da disposizioni legislative. Differimento di termini relativi all’esercizio di deleghe legislative) ed all’intero decreto legislativo 7 settembre 2012, n. 155 (Nuova organizzazione dei tribunali ordinari e degli uffici del pubblico ministero, a norma dell’articolo 1, comma 2, della legge 14 settembre 2011, n. 148) e dell’intero decreto legislativo 7 settembre 2012, n. 156 (Revisione delle circoscrizioni giudiziarie – Uffici dei giudici di pace, a norma dell’articolo 1, comma 2, della legge 14 settembre 2011, n. 148).
Oggetto della richiesta referendaria risulta un’articolata normativa mirante a realizzare una ridefinizione delle circoscrizioni giudiziarie e una riorganizzazione dei tribunali ordinari, degli uffici del pubblico ministero e degli uffici del giudice di pace, al fine di raggiungere obiettivi di miglioramento delle efficienza del sistema giudiziario e di riduzione della spesa. Tra le eccezioni di inammissibilità del quesito referendario avanzate dalla Presidenza del Consiglio attraverso l’Avvocatura dello Stato, la Corte respinge quella fondata sull’asserzione di un collegamento delle norme oggetto della richiesta di referendum alla legge di bilancio così stretto da far rientrare tali norme nell’area delle esclusioni esplicitamente indicate dall’art. 75, comma 2, Cost., come interpretato dalla giurisprudenza costituzionale fin dalla sentenza n. 16/1978. Tale prospettazione è rigettata dal giudice delle leggi il quale afferma: «È vero che questa Corte ha affermato in passato che debbono essere sottratte a referendum le leggi che producono effetti strettamente collegati alla legge di bilancio e che «[q]uesto stretto collegamento si può ritenere sussista se il legame genetico, strutturale e funzionale con le leggi di bilancio sia tale che le norme sostanziali collegate incidano direttamente sul quadro delle coerenze macroeconomiche e siano essenziali per realizzare l’indispensabile equilibrio finanziario» (sentenza n. 2 del 1994). Ma è altresì vero che, così come allora la Corte ebbe cura di precisare che tale criterio non consente di sottrarre a referendum qualunque legge di spesa, analogamente non è sufficiente che una legge, come quella in esame, persegua obiettivi o produca effetti di contenimento della spesa pubblica in vista del riequilibrio del bilancio statale, perché essa sia attratta nell’ambito delle leggi di bilancio, espressamente escluse dal referendum, ai sensi dell’art. 75, secondo comma, Cost.». Ed a questa argomentazione viene aggiunto un richiamo alla scelta operata in sede di Assemblea costituente, allorquando «fu scartata l’originaria proposta volta ad annoverare tra le categorie di leggi escluse da referendum le leggi finanziarie; e tale dizione fu sostituita invece con il riferimento alle leggi di bilancio, oltre che alle leggi tributarie, proprio per evitare che attraverso tale limite si finisse per impedire il referendum su qualunque legge capace di produrre effetti sulle finanze pubbliche, e cioè in definitiva sulla quasi totalità degli atti legislativi».
La Corte, a fondamento della sua dichiarazione di inammissibilità, riconosce invece nell’oggetto della richiesta referendaria «un insieme di provvedimenti legislativi, la cui abrogazione priverebbe totalmente l’ordinamento dell’assetto organizzativo indispensabile all’esercizio di una funzione fondamentale dello Stato, qual è quella giurisdizionale, in violazione degli artt. 101 e seguenti Cost., con irrimediabile lesione del diritto fondamentale di agire e di difendersi in giudizio, ex art. 24 Cost.». Richiamando la propria giurisprudenza (all’interno della quale, con particolare rilievo, alcune decisioni aventi ad oggetto la legislazione elettorale), il giudice delle leggi rileva, in riferimento al quesito in esame, la sussistenza del limite delle leggi costituzionalmente necessarie, definite come «leggi ordinarie – o atti aventi forza di legge, come in questo caso – il cui contenuto è frutto della discrezionalità del legislatore, mentre non lo è la loro esistenza». Nel caso di specie – afferma la Corte – con l’abrogazione della normativa mediante referendum «si determinerebbe un vuoto normativo, non colmabile in via interpretativa, che provocherebbe la paralisi dell’indefettibile funzione giurisdizionale». Ed, a tal proposito, l’assunzione delle difese regionali che il vuoto normativo sarebbe colmato dalla reviviscenza della legislazione precedente viene respinta, venendo ribadita la posizione da ultimo espressa dalla Corte nella sentenza n. 13/2012, chiara nel ritenere inidonea l’abrogazione per via referendaria a provocare la reviviscenza delle norme in precedenza abrogate dalle previsioni poi abrogate mediante referendum. E – aggiunge la Corte, richiamando anche in questo caso precedenti pronunce – l’effetto della reviviscenza può legittimamente essere ricondotto, presuntivamente, alla volontà espressa dal corpo elettorale in sede referendaria.
La Corte rileva infine che la richiesta di referendum è inammissibile anche in ragione della disomogeneità del quesito, vertente su una normativa molto ampia e articolata. Afferma infatti la Corte che «di fronte ad un’architettura composita, com’è quella dell’ordine giudiziario, può accadere che il cittadino valuti in modo diverso l’accorpamento dei vari tipi di uffici giudiziari e intenda esprimersi a favore della soppressione di alcuni e del mantenimento di altri, per i quali più viva avverta l’esigenza di una prossimità territoriale» e che «parimenti, potrebbe darsi che, esaminando caso per caso la ristrutturazione disposta dal legislatore, il cittadino maturi un convincimento negativo verso l’abolizione di una determinata sede giudiziaria, mentre vorrebbe esprimere una opinione favorevole alla eliminazione di altre, magari nell’ambito di un apprezzamento complessivo dell’operazione voluta dal legislatore, considerata nel suo insieme». Si tratta però di distinzioni non operabili mediante referendum, che, a differenza degli «assai più flessibili e modulabili», interventi operabili dal legislatore ordinario, «non offre possibilità di soluzioni intermedie tra il rifiuto e l’accettazione integrale della proposta abrogativa».