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Illegittimo il blocco della rivalutazione monetaria per le pensioni più elevate (rectius, meno ridotte) - (2/2015)

Sentenza n. 70/2015 – giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale

Deposito del 30 aprile 2015 – Pubblicazione in G.U. del 06/05/2015, n. 18

Motivo della segnalazione

La pronuncia segnalata sancisce l'illegittimità costituzionale della sospensione, per i soli anni 2012 e 2013, della rivalutazione monetaria delle pensioni di importo complessivo superiore a tre volte il trattamento minimo INPS (id est 1.217,00 euro netti mensili, come precisa la Corte medesima), imposta dall'art. 24, comma 25, del decreto­legge del 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l'equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214, c.d. Salva-Italia.

La pronuncia presenta ragioni di interesse sotto almeno tre profili (o forse quattro).

In primo luogo, in via generale, essa s'innesta nel sempre più folto filone pretorio in materia di legislazione emergenziale della crisi: se manca un'esplicita apertura ai possibili utilizzi legislativi del nuovo parametro costituzionale ex art. 81 Cost., la Corte non rinuncia a lamentare un richiamo troppo generico, da parte della censurata disposizione del decreto-legge c.d. Salva-Italia (che esordisce con "In considerazione della continente situazione finanziaria"), alle esigenze di contenimento della spesa pubblica. Così sembra ammettere che le ragioni di queste ultime, magari rinvigorite dal c.d. pareggio di bilancio, possano guadagnare terreno nei meccanismi di bilanciamento con i coinvolti diritti costituzionali, e per il resto pare aprire a inediti oneri legislativi di motivazione, in seno al testo normativo o almeno nella "documentazione tecnica" ex art. 17, comma 3, legge 196 del 2009 (Punto 10 del Considerato).

In secondo luogo, contrariamente all'avviso manifestato da tutti i tre giudici rimettenti, la sentenza non ricade invece nell'alveo della giurisprudenza in materia di prestazioni patrimoniali sostanzialmente tributarie sebbene occulte, illegittime in quanto elusive dei cogenti criteri di eguaglianza secondo capacità contributiva ed eventualmente di progressività. La Corte ha l'occasione così di ribadire i criteri alla cui stregua vagliare le misure restrittive di volta in volta sub iudice per coglierne l'eventuale natura di prelievo tributario: costituisce jus receptum, recentemente fissato anche con le sentenze nn. 223 del 2012 e 116 del 2013, che quest'ultima sussiste allorché con atto di rango primario si disponga coattivamente, a vantaggio delle finanze pubbliche e dunque per la copertura di spese pubbliche, una deminutio patrimoniale definitiva a carico di un soggetto sulla base di indici di capacità contributiva. Se, dunque, si celavano imposte occulte sotto le spoglie dei "contributi di solidarietà" posti a carico dei dipendenti pubblici titolari di trattamenti stipendiali e dei percettori di pensioni in entrambi i casi superiori a 90.000 euro annui lordi superiori (rispettivamente ad opera dell'art. 9, comma 22, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, e successive modificazioni, e dell'art. 18, comma 22-bis, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, e successive modificazioni), la sospensione della rivalutazione monetaria in esame costituisce una semplice riduzione di spettanze patrimoniali (nella specie, pensionistiche) erogate dall'Amministrazione pubblica (nella specie, previdenziale), costituente mero risparmio di spesa.

In terzo luogo, la sentenza si segnala per la ricostruzione in base alla quale censura il meccanismo in esame per violazione degli artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost.. Ricostruito il quadro normativo della perequazione automatica degli assegni pensionistici, da cui emerge (quale ratio economica e costituzionale) che "soltanto le fasce più basse siano integralmente tutelate dall'erosione indotta dalle dinamiche inflazionistiche o, in generale, dal ridotto potere di acquisto delle pensioni" (Punto 5 del Considerato, in fine), la Corte ripercorre le tecniche elaborate nel tempo dal legislatore per sospendere tale beneficio: si tratta dell'art. 24, comma 4, della legge 28 febbraio 1986, n. 41 e dell'art. 2 del decreto­legge 19 settembre 1992, n. 384, come convertito in legge, recanti una limitazione-rimodulazione graduata secondo percentuali (seguita peraltro da restituzione ex art. 11, comma 5, della legge 24 dicembre 1993, n. 537); dell'art. 59, comma 13 della legge 27 dicembre 1997, n. 449, recante sospensione pura per l'anno 1998 ma ai danni dei soli percettori di pensioni di importo complessivo superiore a cinque volte il trattamento minimo INPS (sottoposto a questione di costituzionalità ritenuta manifestamente infondata con ordinanza n. 256 del 2001); dell'art. 1, comma 19, della legge 24 dicembre 2007, n. 247, recante sospensione per l'anno 2008 a carico delle pensioni di importo complessivo superiore ad otto volte il trattamento minimo INPS (ritenuta ammissibile con sentenza n. 316 del 2010); ed infine l'art. 1, comma 483, lettera e), della legge di stabilità per l'anno 2014, che applica ad un triennio una rimodulazione graduata secondo percentuali della rivalutazione su tutti i trattamenti, tale da riservare la sospensione piena soltanto a quelli superiori a sei volte il trattamento minimo INPS e solo per l'anno 2014. Il meccanismo del 2011, dunque, ignaro di un monito pro futuro che la Corte stessa riconosce nel proprio precedente del 2010, rinuncia a graduare l'intervento secondo percentuali tarate su fasce di importo ed infligge, per ben due anni consecutivi, una sospensione piena ad una platea molto ampia di pensionati, fino a ricomprendere importi troppo vicini al trattamento minimo INPS: così facendo, viene meno tanto ad un approccio improntato a criteri di progressività quanto ad un bilanciamento ragionevole tra ineludibili esigenze di risparmio pubblico e principi di proporzionalità ed adeguatezza dei trattamenti pensionistici ex art. 38, secondo comma, Cost., da inquadrarsi quali strumenti di retribuzione differita, da ricondursi ineludibilmente a sufficienza ex art. 36, primo comma, Cost., con conseguente vulnus anche ai valori di eguaglianza formale e sostanziale tracciati dall'art. 3 Cost..

Infine, ha una consistenza anche costituzionale (rilevando anche dal punto di vista del sistema delle fonti normative) la questione "politica" che ha imposto questa sentenza all'attenzione del Governo e del Parlamento, e che tanta eco le ha dato anche a livello mediatico: la necessità di individuare modalità accettabili con cui dilazionare l'erogazione delle spettanze pensionistiche riconosciute dalla Corte. Al pari di tutte le sentenze "che costano", anche questa postula di formare un "microsistema" normativo con una fonte legislativa che vi si ponga "a valle" (nella specie, l'art. 1 del decreto-legge 21 maggio 2015, n. 65), necessaria ex art. 81, sesto comma, Cost., per fornire copertura alle spese derivanti dall'esecuzione della sentenza medesima.

Osservatorio sulle fonti

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