Nella sentenza del 19 aprile 2016 nella causa Dansk Industri (DI), la Grande sezione della Corte di giustizia ha ribadito l’idoneità del principio generale di non discriminazione in base all’età a spiegare effetti diretti orizzontali (ossia, in relazione a controversie tra privati). In altre parole, la Corte ha confermato l’orientamento inaugurato nella sentenza Mangold (causa C‑144/04, EU:C:2005:709), e successivamente confermato nella sentenza Kücükdeveci (causa C‑555/07, EU:C:2010:21). Tuttavia, la sentenza Dansk Industri non si limita semplicemente a confermare i due precedenti. La Corte, sollecitata sul punto dal giudice del rinvio, ha anche precisato che, almeno nel caso di specie, le esigenze relative alla certezza del diritto e alla tutela del legittimo affidamento non possono essere invocate come limiti al dispiegarsi dell’effetto diretto orizzontale e, in particolare, alla disapplicazione della norma nazionale in contrasto con il principio generale di discriminazione. Inoltre, nella sentenza la Corte ha fornito delle indicazioni piuttosto dettagliate sul modo in cui il giudice nazionale deve adempiere all’obbligo di assicurare la tutela dei diritti conferiti ai singoli dal diritto dell’Unione, laddove questi ultimi traggono origine da una direttiva che dà concreta espressione a un principio generale e la controversia riguarda dei soggetti privati. Infine, la pronuncia oggetto della segnalazione consente di svolgere alcune riflessioni sul rapporto tra il principio generale di non discriminazione in base all’età e l’omologo divieto contenuto nell’art. 21, par. 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione.
La pronuncia della Grande sezione ha avuto origine dal rinvio pregiudiziale proposto dallo Højesteret, la Corte suprema danese, il quale chiedeva chiarimenti sia sul rapporto tra la direttiva 2000/78/CE (che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, in GU 2000 L 303, p. 12 ss.) e il principio generale di non discriminazione in base all’età, sia sugli effetti di quest’ultimo. In particolare, il giudice del rinvio mirava a stabilire se, in caso di applicabilità del suddetto principio generale al caso di specie, che riguardava una controversia tra privati, egli avrebbe dovuto disapplicare la normativa nazionale contrastante con il medesimo principio, ovvero garantire solo il risarcimento del danno, tenendo conto che anche le esigenze della certezza del diritto e del legittimo affidamento integrano dei principi generali del diritto dell’Unione.
Questi dubbi sorgevano in relazione alla vicenda del sig. Rasmussen. All’età di 60 anni, l’uomo veniva licenziato dal proprio datore di lavoro di diritto privato. Avendo prestato servizio per lo stesso datore sin dal 1984, ai sensi dell’art. 2a, paragrafo 1, della legge danese relativa ai rapporti giuridici fra i datori di lavoro e i lavoratori subordinati (di seguito, la “legge relativa ai rapporti di lavoro subordinati”), il sig. Rassmussen avrebbe avuto diritto, in linea di principio, a un’indennità di licenziamento pari a tre mensilità di stipendio. Detta disposizione recita, infatti:
“In caso di licenziamento di un lavoratore subordinato, in servizio nella stessa azienda continuativamente per 12, 15 o 18 anni, il datore di lavoro, al momento della cessazione del rapporto di lavoro, gli corrisponde una somma pari, rispettivamente, a 1, a 2 ovvero a 3 mensilità di stipendio.”
Tuttavia, nel caso di specie, in concreto, trovava applicazione il paragrafo 3 dello stesso articolo, secondo cui:
“L’indennità di licenziamento non viene corrisposta se, al momento della cessazione del rapporto di lavoro, il lavoratore subordinato percepirà una pensione di vecchiaia dal datore di lavoro e se ha aderito al regime previdenziale di cui trattasi prima del compimento del cinquantesimo anno di età”.
Sennonché, nella sentenza Ingeniørforeningen i Danmark, la Corte di giustizia ha constatato, in sostanza, che il suddetto paragrafo 3 dell’art. 2a della legge danese relativa ai rapporti di lavoro subordinati è contrario al principio generale di non discriminazione in base all’età sancito dal diritto dell’Unione[1]. Sulla scia di questa pronuncia, il sig. Rasmussen, e successivamente i suoi eredi, presentavano un ricorso davanti al giudice nazionale avverso il datore di lavoro al fine di ottenere il pagamento dell’indennità di licenziamento. Il datore di lavoro, tuttavia, obiettava che un’interpretazione della disposizione nazionale controversa in conformità con il principio generale avrebbe portato a un risultato contra legem. D’altro canto, trattandosi di una controversia tra privati, neanche era prospettabile la disapplicazione della stessa disposizione per contrasto con la Direttiva 2000/78/CE.
In tale contesto scaturiscono i dubbi prima ricordatati della Corte suprema danese. Detto giudice, pur conoscendo le sentenze Mangold e Kücükdeveci, ha ritenuto utile che la Corte di giustizia tornasse nuovamente sul delicato tema dell’efficacia diretta orizzontale dei principi generale, e soprattutto, come anticipato, l’ha sollecitata a tenere conto delle ricadute di tale forma di invocabilità sulle esigenze di certezza del diritto e di tutela del legittimo affidamento.
La Corte di giustizia, come anticipato, non si è sottratta all’invito, confermando il precedente orientamento, che nella sentenza Dansk Industri viene esposto in modo particolarmente “vigoroso”.
In primo luogo, la Corte di giustizia ha ricordato che il principio generale di non discriminazione in base all’età non trae origine dalla direttiva 2000/78/CE, la quale, viceversa, dà espressione concreta al principio, “che trova la sua fonte (…) in vari strumenti internazionali e nelle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, [ed] è ora sancito all’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea esso” (par. 22). Poiché il giudice del rinvio aveva espressamente sollevato il problema del rapporto tra principio generale e direttiva sotto il profilo dell’ambito di applicazione, la Corte ha chiarito che, “siccome la direttiva 2000/78 non sancisce di per sé il principio generale della non discriminazione in ragione dell’età, ma lo esprime soltanto concretamente in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, la portata della tutela conferita da tale direttiva non eccede quella accordata da detto principio” (par. 23).
Rimanendo sulla questione dell’ambito di applicazione, la Corte ha poi ricordato che, “affinché il principio generale della non discriminazione in ragione dell’età si applichi a una situazione come quella di cui trattasi nel procedimento principale, è necessario pure che tale situazione rientri nell’ambito del divieto delle discriminazioni stabilito dalla direttiva 2000/78” (par. 24). Come è noto, infatti, i principi generali non hanno applicazione indipendente: per poterli invocare come parametro per valutare la compatibilità di una disposizione nazionale, o anche come norme direttamente efficaci, è necessario che ci sia una diversa disposizione di diritto derivato o primario dell’Unione (cd. norma trigger) che si applica nel caso di specie.
Merita, semmai, precisare che la direttiva 2000/78/CE non è l’unica “norma trigger” idonea a determinare l’applicazione del principio generale di non discriminazione in base all’età. Come si evince dalle stesse considerazioni della Corte sul rapporto tra il principio e la direttiva, quest’ultima non può eccedere la portata del primo, perché si limita a dare ad esso concreta espressione; per lo stesso motivo, dunque, si può assumere che l’ambito di applicazione del principio generale di non discriminazione in base all’età sia più ampio della direttiva. In effetti, almeno in linea teorica, il principio è applicabile in tutte le situazioni che cadono nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione, quale che sia la norma trigger. Si può, tuttavia, immaginare che, in assenza di una direttiva che ne specifica il contenuto in relazione alla questione giuridica posta dal caso di specie, la Corte di giustizia sarebbe più cauta nell’affermare l’idoneità del principio a fungere da norma parametro (o norma direttamente applicabile) al caso di specie.
Ciò premesso sul rapporto tra la direttiva 2000/78/CE e il principio generale di non discriminazione in base all’età, la Corte ha ricordato che dalla valutazione operata nella già citata sentenza Ingeniørforeningen i Danmark “consegue che la normativa nazionale di cui trattasi nel procedimento principale rientra nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione e, pertanto, in quello del principio generale della non discriminazione in ragione dell’età” (par. 25), e che detta normativa è contraria alla direttiva 2000/78/CE, aggiungendo che “deve concludersi altrettanto riguardo al principio fondamentale della parità di trattamento, del quale il principio generale della non discriminazione in ragione dell’età costituisce soltanto un’espressione particolare” (par. 26).
Venendo al secondo profilo sollevato dalla Corte suprema danese, ossia quello delle conseguenze che devono essere tratte nel caso di un contrasto tra una disposizione di diritto UE e una disposizione nazionale, la Corte di giustizia ha ricordato, in primo luogo, “la giurisprudenza costante secondo la quale, quando sono chiamati a dirimere una controversia tra privati nella quale la normativa nazionale di cui trattasi risulti contraria al diritto dell’Unione, i giudici nazionali devono assicurare ai singoli la tutela giurisdizionale derivante dalle disposizioni del diritto dell’Unione e garantirne la piena efficacia” (par. 29, nonché sentenze Pfeiffer e a., da C‑397/01 a C‑403/01, EU:C:2004:584, par. 111, nonché Kücükdeveci, cit., par. 45). Dal momento che, come risulta da una giurisprudenza altrettanto stabilita, “una direttiva non può di per sé creare obblighi a carico di un privato e non può, quindi, essere fatta valere in quanto tale nei suoi confronti” (par. 30, nonché, ex multis, sentenze Marshall, 152/84, EU:C:1986:84, par. 48; Faccini Dori, C‑91/92, EU:C:1994:292, par. 20, e Pfeiffer, cit., par. 108), in caso di contrasto tra una disposizione nazionale e una direttiva sussiste, innanzitutto, l’obbligo del giudice nazionale di verificare la praticabilità di un’interpretazione conforme del diritto interno. In altre parole, “nell’applicare il diritto interno, i giudici nazionali chiamati a interpretarlo sono tenuti a prendere in considerazione l’insieme delle norme di tale diritto e ad applicare i criteri ermeneutici riconosciuti dallo stesso al fine di interpretarlo per quanto più possibile alla luce della lettera e dello scopo della direttiva di cui trattasi, onde conseguire il risultato fissato da quest’ultima e conformarsi pertanto all’articolo 288, terzo comma, TFUE” (par. 31, nonché sentenze Pfeiffer., cit., paragrafi 113 e 114, e Kücükdeveci, par. 48). Rientra nell’obbligo di interpretazione conforme quello del giudice nazionale “di modificare, se del caso, una giurisprudenza consolidata se questa si basa su un’interpretazione del diritto nazionale incompatibile con gli scopi di una direttiva” (par. 33; cfr. anche sentenza Centrosteel, C‑456/98, EU:C:2000:402, par. 17).
Muovendo da tali considerazioni, la Corte ha evidenziato il confine tra l’esperibilità dell’interpretazione conforme e quella della disapplicazione, ricordando che “il principio di interpretazione conforme trova un limite nei principi generali del diritto e non può servire a fondare un’interpretazione contra legem del diritto nazionale” (par. 32, nonché sentenze Impact, C‑268/06, EU:C:2008:223, par. 100; Dominguez, C‑282/10, EU:C:2012:33, par. 25, e Association de médiation sociale, C‑176/12, EU:C:2014:2, par. 39). Nel momento in cui risulta impossibile risolvere il contrasto attraverso l’interpretazione conforme, il giudice nazionale sarà comunque vincolato “[all’obbligo] di assicurare, nell’ambito delle sue competenze, la tutela giuridica che il diritto dell’Unione attribuisce ai soggetti dell’ordinamento, garantendone la piena efficacia e disapplicando, ove necessario, ogni disposizione della normativa nazionale contraria a tale principio (par. 35, e sentenza Kücükdeveci, cit., par. 51).
Tuttavia, così come l’obbligo di interpretazione conforme incontra dei limiti, la disapplicazione soggiace a delle condizioni, in particolare a quella per cui la norma parametro di diritto UE deve essere idonea a spiegare effetti diretti. Come risulta dalla precedente sentenza Association de médiation sociale (cit.), tale condizione è soddisfatta dal principio generale di non discriminazione in base all’età, il quale “conferisce ai privati un diritto soggettivo evocabile in quanto tale che, persino in controversie tra privati, obbliga i giudici nazionali a disapplicare disposizioni nazionali non conformi a detto principio” (par. 36).
Da ultimo, la Corte ha affrontato la questione, prospettata dal giudice nazionale, della necessità di operare un bilanciamento con le esigenze di certezza del diritto e legittimo affidamento, se del caso facendo prevalere queste sull’applicazione del principio generale di non discriminazione in base all’età.
La Corte ha affermato, nettamente, che “[né] i principi della certezza del diritto e della tutela del legittimo affidamento né la possibilità per il privato che si ritenga leso dall’applicazione di una disposizione nazionale contraria al diritto dell’Unione di far valere la responsabilità dello Stato membro interessato per violazione del diritto dell’Unione possono rimettere in discussione tale obbligo” (par. 43). In realtà, la Corte ha motivato in relazione al legittimo affidamento, ma non anche alla certezza del diritto. Quanto al primo, la Corte ha ritenuto che la sua applicazione nel caso di specie “equivarrebbe, in realtà, a limitare gli effetti nel tempo dell’interpretazione accolta dalla Corte, poiché, per mezzo suo, detta interpretazione non troverebbe applicazione nel procedimento principale” (par. 39). Secondo una giurisprudenza stabilita, invece, “il diritto dell’Unione (…) deve essere applicato dal giudice anche a rapporti giuridici sorti e costituiti prima della sentenza che statuisce sulla domanda di interpretazione, purché sussistano, peraltro, i presupposti per sottoporre ai giudici competenti una controversia relativa all’applicazione di detto diritto” (par. 40, nonché sentenza Gmina Wrocław, C‑276/14, EU:C:2015:635, paragrafi 44 e 45).
Infine, la Corte ha chiaramente escluso che “la possibilità per i privati che beneficiano di un diritto soggettivo derivante dal diritto dell’Unione, come, nel caso di specie, il lavoratore subordinato, di chiedere un risarcimento ove i loro diritti siano lesi da una violazione del diritto dell’Unione imputabile a uno Stato membro [rimetta] in discussione l’obbligo, per il giudice del rinvio, di privilegiare l’interpretazione del diritto nazionale che sia conforme alla direttiva 2000/78 ovvero, qualora una siffatta interpretazione si rivelasse impossibile, di disapplicare la disposizione nazionale contraria al principio generale della non discriminazione in ragione dell’età come espresso concretamente da detta direttiva, né portare tale giudice, nell’ambito della controversia di cui è investito, a far prevalere la tutela dell’affidamento del privato, nel caso di specie il datore di lavoro, che si sia conformato al diritto nazionale” (par. 42). In tal modo, quindi, la Corte ha dato un’indicazione molto precisa sui rapporti tra i diversi rimedi esperibili dai privati per ottenere tutela a fronte di una norma nazionale incompatibile con il diritto UE, anche sotto il profilo dell’ordine di proposizione (o di utilizzo, dal punto di vista del giudice) degli stessi.
Un’osservazione conclusiva, proiettata verso i possibili sviluppi della giurisprudenza, riguarda il ruolo svolto dalla Carta nel ragionamento della Corte di giustizia. A prima vista, si tratta di un ruolo molto marginale. Benché l’art. 21, par. 1, della Carta vieti la discriminazione basata sull’età, la Corte si è limitata a ricordare questa disposizione, senza utilizzarla come norma di riferimento primaria, e privilegiando invece il principio generale di non discriminazione in base all’età. A una più attenta analisi, tuttavia, una spiegazione probabile di tale scelta è la circostanza che i fatti all’origine della controversia principale si sono svolti interamente prima dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona. In altre parole, la Carta non era applicabile ratione temporis come fonte vincolante del diritto dell’Unione europea.
Se ciò è corretto, il breve riferimento della Corte all’art. 21, par. 1, della Carta al paragrafo 22 della sentenza non ha lo scopo di marginalizzare il ruolo di quest’ultima rispetto ai principi generali ma, al contrario, di sottolinearne la continuità. In casi analoghi, ma che scaturiscono da fatti successivi all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, è ragionevole attendersi che il riferimento primario diventi la Carta e il corrispondente principio generale quello supplementare.
Questa analisi conduce, inoltre, ad interrogarsi sulla possibilità che la Corte riconosca effetti diretti orizzontali all’art. 21, par. 1, della Carta anche laddove vengano in rilievo altri motivi di discriminazione vietati dalla disposizione. Il test elaborato dalla Corte nella sentenza Association de Médiation Sociale, e confermata nella pronuncia in commento, si presta a essere soddisfatto dall’art. 21, par. 1, anche in relazioni a tali ulteriori motivi. Semmai, in base a quanto precedentemente osservato, è verosimile che la Corte manterrà un atteggiamento più cauto rispetto a quei motivi che non trovano una concretizzazione in misure di diritto derivato dell’Unione, soprattutto laddove i Trattati non prevedono una competenza del legislatore dell’Unione in merito. L’art. 19 TFUE attribuisce a quest’ultimo la competenza ad adottare “i provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale”. L’art. 21, par. 1, della Carta include, invece, tra i motivi vietati di discriminazione anche la pelle, l’origine sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza a una minoranza nazionale, il patrimonio e la nascita. Inoltre, questa tassonomia non è esaustiva: l’elenco dei motivi vietati è, infatti, preceduto dall’inciso “in particolare”.
La sentenza Dank Danski, quindi, conferma un orientamento della Corte di giustizia che ha un impatto molto significativo sul rapporto tra i singoli e il diritto dell’Unione europea, e soprattutto duplice in natura: dal un lato, si traduce in un rafforzamento importante della tutela dei diritti conferiti ai singoli dal diritto dell’Unione, dall’altro comporta una maggiore “responsabilizzazione” dei privati destinatari passivi delle norme di diritto dell’Unione, onde evitare di subire le conseguenze dell’inadempimento degli Stati membri.
Nicole Lazzerini