Legge n. 115 del 16 giugno 2016
Lo scorso 16 giugno, il legislatore italiano ha novellato l'art. 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654 («Ratifica ed esecuzione della Convenzione internazionale sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, aperta alla firma a New York il 7 marzo 1966»), apportando "modifiche in materia di contrasto e repressione dei crimini di genocidio, crimini contro l'umanità e crimini di guerra, come definiti dagli articoli 6, 7 e 8 dello statuto della Corte penale internazionale". La novella consiste nell'introduzione del nuovo comma 3 bis all'art. 3, ai sensi del quale "si applica la pena della reclusione da due a sei anni se la propaganda ovvero l'istigazione e l'incitamento, commessi in modo che derivi concreto pericolo di diffusione, si fondano in tutto o in parte sulla negazione della Shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l'umanità e dei crimini di guerra, come definiti dagli articoli 6, 7 e 8 dello Statuto della Corte penale internazionale, ratificato ai sensi della legge 12 luglio 1999, n. 232".
Con questa disposizione si è in sostanza aggiunta una circostanza aggravante del reato di incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, previsto dal comma 3 della legge 654 del 1975 che già punisce con la reclusione da 2 a 6 anni le condotte di "propaganda", "istigazione" e "incitamento" che si fondano in tutto o in parte sulla negazione della Shoah o dei crimini internazionali definiti dagli articoli 6, 7 e 8 dello Statuto della Corte penale internazionale.
La novella tende a dare attuazione alla decisione quadro 2008/913/GAI, adottata dal Consiglio dell'Unione europea il 28 novembre 2008, con la quale si richiedeva agli Stati membri di punire, tra l'altro, "l'apologia, la negazione o la minimizzazione grossolana dei crimini di genocidio, dei crimini contro l'umanità e dei crimini di guerra...dirette pubblicamente contro un gruppo di persone, o un membro di tale gruppo, definito in riferimento alla razza, al colore, alla religione, all'ascendenza o all'origine nazionale o etnica, quando i comportamenti siano posti in essere in modo atto a istigare alla violenza o all'odio". La scelta del legislatore appare peraltro andare oltre quanto richiesto dalla decisione quadro, in quanto risultano inclusi nell'ambito materiale della fattispecie non soltanto gli atti istigativi dell'odio e della violenza ma anche la condotta di propaganda, con la precisazione che tali atti rilevano se sono stati commessi in modo che ne "derivi concreto pericolo di diffusione". La legge italiana stabilisce, inoltre, una pena di durata maggiore di quella indicata dalla decisione quadro (dai 2 ai 6 anni invece che da 1 a 3 anni).
La soluzione accolta dalla legge n. 115 del 2016 estende, pertanto, la portata incriminatrice della condotta negazionista su diversi fronti. In particolare, come è stato rilevato, l'espressione "pericolo di diffusione" anticipa e generalizza l'intervento punitivo, in considerazione dell'elevato grado di intrusività raggiunto dalle attuali tecnologie di comunicazione e informazione di massa (si veda al riguardo la critica di G. Della Morte su http://www.sidiblog.org/2016/06/22/sulla-legge-che-introduce-la-punizione-delle-condotte-negazionistiche-nellordinamento-italiano-tre-argomenti-per-una-critica-severa/#comment-319).
Inoltre mentre la decisione quadro limita la punibilità ai soli crimini accertati con sentenza definitiva di un organo giurisdizionale nazionale dello stesso Stato membro o di un tribunale internazionale, la nuova disposizione nulla prevede al riguardo. Ne consegue che resta incerta la questione preliminare dell'individuazione del soggetto investito dell'autorità di determinare la perpetrazione dei crimini oggetto della repressione.
La questione è peraltro collegata al dibattito che da sempre agita storici, politici e giuristi circa l'opportunità di tutelare la verità storica mediante l'intervento punitivo dello Stato e l'esigenza di distinguere in ogni caso le condotte negazioniste che costituiscono espressione del diritto fondamentale alla libertà di opinione da quelle che, per i contenuti e le modalità di espressione, risultano offensive di interessi generali fondamentali.
In ambito europeo, la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo rappresenta un punto di riferimento essenziale della necessaria operazione di bilanciamento. In particolare, nel caso Perinçeck c. Svizzera (app. n. 27510/08), la Grande Camera si è pronunciata sulla condanna alla pena dell'ergastolo inflitta dal giudice svizzero al ricorrente per aver negato nell'ambito di tre eventi pubblici che il genocidio armeno fosse mai avvenuto. Il ricorso era giunto alla Grande Camera su richiesta di riesame proposta dalla Svizzera nei confronti della sentenza della Camera che aveva statuito l'avvenuta violazione dell'art. 10 della Convenzione europea.
La Grande Camera, nel confermare la sentenza, ha espresso un principio basilare per il giusto contemperamento tra la libertà di espressione e il rispetto della dignità e della memoria delle vittime dei crimini internazionali. Secondo la Corte, l'intervento punitivo che, in via di principio, costituisce una interferenza nel godimento della libertà di espressione non può mai essere giustificato per il solo fatto che la fattispecie concreta sia sussumibile nell'ambito di applicazione di una norma incriminatrice, essendo invece indispensabile una attenta valutazione delle specifiche circostanze del caso concreto, al fine di vagliarne la necessità in una società democratica. La valutazione della Grande Camera è stata meticolosa. Essa si è soffermata su molteplici aspetti caratterizzanti il caso di specie. Tra questi, ha dato rilievo alla assenza di un "consenso europeo" in relazione alla criminalizzazione delle condotte negazionistiche, rilevando la presenza di ben 4 distinte posizioni nazionali. Le posizione più estreme sono quelle degli Stati che non prevedono alcuna penalizzazione delle condotte negazioniste o che la prevedono in termini generali, mentre le posizioni mediane caratterizzano gruppi di Stati che si limitano a criminalizzare le condotte negazionistiche dei soli crimini nazisti, o dei crimini nazisti e comunisti oppure del solo genocidio (par. 256 della sentenza). L'assenza di una posizione condivisa tra gli Stati europei ha irrigidito il sindacato della Corte sul margine di apprezzamento. Nel caso di specie, la Corte ha giudicato che l'intervento punitivo della Svizzera non fosse giustificato, sottolineando che il contenuto e i toni delle affermazioni negazionistiche del ricorrente non costituivano un incitamento all'odio e alla violenza, né si inserivano in un contesto di tensioni sociali tali da necessitare misure di tutela dell'ordine pubblico. Esse inoltre non erano tali da recare grave pregiudizio alla dignità dei membri della comunità armena, né potevano ritenersi necessitate da un obbligo internazionale di repressione.
L'orientamento della Corte europea suggerisce l'esigenza che l'applicazione della nuova previsione sia sempre sorretta da una valutazione caso per caso al fine di evitare illegittime interferenze nel godimento di un diritto caposaldo delle società democratiche, qual è la libertà di espressione. Pertanto, al di là del tenore letterale, l'art. 3, comma 3 bis, della legge n. 654 del 1975, come modificato dalla legge n. 115 del 2016 qui in esame, potrà trovare corretta applicazione soltanto ove si dimostri che la previsione dell'aggravante sia giustificata dall'esigenza di tutelare l'ordine pubblico da affermazioni negazioniste atte a istigare all'odio e alla violenza e aventi contenuto e tono tali da costituire una grave offesa alla dignità e alla memoria delle vittime di crimini internazionali.